di Pinella Leocata
Catania. Solo la sensibilità di chi non si gira dall’altra parte, dei cittadini che capiscono che chi sfida il mare e la vita su un barcone lo fa per estrema necessità, ha evitato che un drammatico disguido si potesse trasformare in tragedia. Quella di una giovane madre etiope separata dai sui quattro bambini allo sbarco al porto di Catania nella notte tra venerdì e sabato.
Per tutta la giornata di ieri i volontari della «Rete antirazzista» si sono dati da fare prima per capire il perché del pianto disperato di una donna e dopo per cercare i sui figli perduti. Tutto nasce dall’umanità di una donna ricoverata nel reparto di Ortopedia del Garibaldi centro. Nella stanza in cui è ricoverata c’è una donna straniera, una migrante, ricoverata alle 2,40 di sabato 14. Ha una spalla lussata e una prognosi di 30 giorni. Avrà dolore di sicuro, ma il suo pianto irrefrenabile, la sua disperazione, il fatto che cerchi di dire qualcosa che nessuno si preoccupa di capire, la muove a pietà. Tanto strazio non può essere motivato dal dolore fisico. Lei non si gira dall’altra parte. Un figlio, forse un nipote, è amico di una volontaria che si occupa di migranti. Lo avverte e chiede che qualcuno vada in ospedale per capire che cosa chiede quella giovane donna disperata. Così, ieri mattina, un volontario della Rete antirazzista si reca all’ospedale Garibaldi per capire la nazionalità della migrante e trovare qualcuno che parli la sua lingua.
La migrante è etiope, ma parla l’eritreo. Alfonso Distefano, della Rete antirazzista, cerca un amico eritreo e ritorna in ospedale insieme a una volontaria. Scoprono così che la donna, 34 anni, è disperata perché non sa che fine hanno fatto i suoi quattro figli, piccoli, piccolissimi: una ragazzina di 12 anni, un maschietto di 6, e altre due bimbe di 4 e di 2 anni. Nessuno che le dica dove sono, come stanno, con chi sono, chi si occupa di loro. I volontari sono sbalorditi. Com’è possibile? Che cosa è accaduto?
Zafu, così si chiama la donna, racconta che allo sbarco, capendo che aveva un problema serio alla spalla, l’hanno portata in ospedale in ambulanza. Lei si è fatta convincere perché le avevano detto che il controllo sarebbe durato mezz’ora o poco più. Invece è stata ricoverata. E ha perso i contatti con i figli che sono rimasti soli perché hanno affrontato il mare solo con la loro mamma. Il padre è rimasto in Eritrea.
I volontari si fanno dare il nome e la data di nascita dei bambini e cominciano la ricerca. In tardo pomeriggio li trovano al PalaNitta dove sono stati portati i circa 260 migranti sbarcati al porto di Catania nella notte tra venerdì e sabato. Uno sbarco di cui i mass media non hanno parlato perché nulla hanno saputo. Gli arrivi sono così continui, ormai, da non fare più notizia. Routine, drammatica routine.
Dal PalaNitta, intanto, la maggior parte dei migranti si è allontanata. Le tacite direttive del Governo prevedono che non li si trattenga più, tanto meno con la forza, come si è fatto fino a pochi mesi fa. Troppi i migranti e troppo distante e assente l’Europa per potersene fare carico da soli. Che vadano a chiedere asilo dove reputano più opportuno. Così nella struttura sportiva di Librino ieri sera di migranti ne erano rimasti una settantina, tutti maschi. Evidentemente coloro che hanno deciso di chiedere asilo in Italia. Tutti maschi più i quattro bambini, sporchi, senza mutandine, terrorizzati. Per fortuna c’era anche una ragazza che non è potuta andare via come aveva previsto.
Una delle volontarie della Rete antirazzista, Stefania Diprima, attraverso un’avvocata, Nunzia Scandurra della «Città Felice», chiede ai poliziotti della volante che controlla il PalaNitta il permesso di portare i bambini dalla loro mamma, ma non è possibile. Tutto è rinviato a stamattina quando l’avvocata cercherà di trovare il modo di riunire la famiglia.
Anche questo significa migrare. Anche questo sono gli sbarchi sempre più convulsi, numerosi e continui. Per questo le associazioni antirazziste continuano a chiedere che si aprano corridoi umanitari per salvare vite umane, per evitare dolore aggiuntivo a chi fugge da guerre, violenze e fame.
(La Sicilia, 16 giugno 2014)