7 Novembre 2009

Al mercato della felicità – Incontro con Luisa Muraro.

Circolo della Rosa

ZINA BORGINI: Grazia Villa è avvocata del lavoro e matrimonialista, vive e lavora a Como ed è spesso a Milano per il suo lavoro e per i legami che ha con il Gruppo Promozione Donna formato da femministe cattoliche autrici di documenti molto coraggiosi soprattutto sui temi dell’aborto e della riproduzione e della famiglia. Grazia Villa è presidente dell’Associazione La Rosa Bianca che è nata nel 1979 e si è diffusa in tutta Italia. È un’Associazione di ispirazione cattolica che svolge però anche attività di formazione con impegno politico ma non partitico. Grazia è anche socia della casa editrice Il Margine.
Ci siamo poi io, Mirella Maifreda, Anna Chiodi e Serena Fuart che abbiamo formato un gruppo di lettura per leggere questo libro.
Ora vi dirò solo due parole di come io ho letto questo libro: non avendo una grande preparazione filosofica né cattolica – e qui mi ha aiutato molto Mirella che invece è esperta – ho trovato più confacente e facile quella parte di scrittura in cui Luisa mette tutta se stessa e racconta la sua storia e la sua esperienza. L’ho preferita perché è anche la più agevole ma anche perché si rifà a un sapere più antico che vale di detti e di usanze di chi mi ha preceduto. Cosa che mi è usuale perché mia madre mi ha insegnato che i proverbi, soprattutto quelli dialettali, dicono una saggezza in breve ma elaborata dalla gente reale. Inoltre con la storia della vecchia compratrice Luisa mi ha del tutto autorizzata ad ascoltare il desiderio. E io ne ho uno nel cassetto molto azzardato. Mi sono sollecitata ad agirlo per poter dire “almeno ci ho provato”. L’ho letto specchiandomi perché alcuni passi hanno dato un senso e una chiave di comprensione diversa alle azioni della mia vita che sembrano scontate ma che non lo erano affatto. I libri come i film a me piacciono se ci trovo dei pezzi di cuore, se mi emozionano e se ci potrei stare anch’io nella storia che raccontano. Al Mercato della felicità mi sono sentita con agio e ci voglio restare il più tempo possibile.
Ora passo il microfono a Grazia.

 

GRAZIA VILLA: Buona sera a tutte e a tutti, e la voce è questa. Purtroppo da due mesi ho un disturbo alla voce dal quale ho imparato tante cose e per una avvocata soprattutto la fatica del parlare quando invece la parola dovrebbe essere fluida. Ma anche le differenze fra disfonia, afonia, tutta una serie di vocaboli strani che non avevo mai frequentato e che mi hanno fatto riflettere dando un significato completamente diverso anche al silenzio, all’uscire dal silenzio, allo stare nel silenzio.
Luisa nel suo libro ripete una cosa che a me è sempre piaciuta tanto della sua scrittura e che mi autorizza a essere così. Lei dice a un certo punto del coraggio della retorica e della bellezza anche di usare questo strumento a cui per professione siamo educate, e proprio come primo punto di questa suggestiva presentazione io mi lascerei un po’ andare alla retorica.
Perché voglio lasciarmi andare? Perché vorrei esprimere prima di tutto che per me essere qui questa sera con voi è già un motivo di felicità (direi anche a buon mercato nel senso che il treno è arrivato in ritardo, ho dovuto prendere il taxi però il costo non mi è sembrato eccessivo), ed è una felicità di trovarmi in un luogo che per me non rappresenta un altrove, altro termine a cui spesso Luisa si richiama, ma rappresenta un punto di riferimento importante nella mia vita, nel passato, nel presente, nel futuro. È un luogo a cui ho attinto tardi rispetto al percorso che molte di voi hanno fatto, abitando a Milano; io nei tempi in cui la Libreria è nata mi sembra che abitassi a Lucca, comunque ero in giro, poi ho frequentato la Cattolica ma ero lì veramente in un altrove, e sono arrivata alla Libreria con un percorso di femminismo strano – ognuno ha il suo – e cioè attraverso la lettura di alcuni testi e di alcuni libri che per la prima volta hanno dato il nome a sensazioni e scelte pratiche, relazioni che avevo costruito in quegli anni, liberandomi da una fatica che era quella del viaggio nella parità nel quale io non mi trovavo e di cui non capivo il senso essendo vissuta in una famiglia veramente matriarcale, avendo sempre avuto impegni personali e sociali, ecclesiali e politici di primo piano e quindi dicevo: perché ci sarà questo bisogno di parità? Invece poi, attraverso la frequentazione anche della redazione di Via Dogana, ho aggiunto un pezzo di crescita. In primo luogo la felicità di essere a casa, e io do un significato bello a questa parola, non di prigione, per fortuna nella mia vita, ma di luogo di relazione.
Seconda felicità, nel fatto che nel libro di Luisa si usa un linguaggio che a me affascina. Dei suoi libri questo insieme a “Il Dio delle donne” è quello che mi è piaciuto di più proprio perché – e mi fermo un po’ sul tema del linguaggio anche se non mi appartiene ma forse è l’astinenza che mi fa venir voglia di parlare di parole – questo suo modo affabulatorio, nel senso che prendi una frase poi la riprendi, la contaminazione con gli stili, le competenze… è un metodo di scrittura che a me affascina; perché io mi trovo molto bene quando salgo in una vespa filosofica (avendo abbandonato gli studi filosofici da un po’ di tempo, devo mettere qualche rampone per capire) e poi si scende ma al volo, con un volo, in frasi come quella che vi leggo. Dopo un passo piuttosto hard sotto il profilo filosofico, Luisa scrive parlando dell’opera che si chiude prima che questa sia terminata dalla romanziera: “Come quando le giornate si accorciano e si resta al buio troppo presto”.
Ah! In dialetto lombardo questa cosa si direbbe uno “slarga fià”, una specie di respiro profondo che ti fa fare una sosta di identificazione. Io sono figlia di una madre che ama novembre, che ama la nebbia, che ama il grigio, io che sono nata a giugno, queste giornate che si accorciano veramente sono una cosa… e la capacità di rendere in questa frase, di farci tornare dal simbolico al reale è un dono che Luisa ha e di cui possiamo beneficiare.
L’altro motivo per me di sentirmi a casa è una triade che anche in questo libro Luisa ricorda: l’innesto tra arte politica e santità. Sono tre categorie difficili da definire, la stessa lingua giustamente si addentra non in definizioni ma in suggestioni, intrecci, paradossi, ma sono la sintesi delle tre colonne portanti della mia vita: arte, politica, santità.
Ovviamente non sono una artista nel senso classico del termine anche se mi sento bene quando posso creare qualcosa, dalla cucina che è una delle mie capacità… Non sono una artista ma l’arte è una delle categorie in cui mi rifugio, da cui parto, in cui mi soffermo e che condivido. Senza questo aspetto la mia esistenza e quella delle mie relazioni umane, con le donne e con gli uomini, sarebbe deprivata del mistero, della bellezza, di quello che nel libro Luisa dice essere la capacità di andare oltre il tempo. Quindi questo sguardo su una eternità di cui non ci interessa forse in questa sede indagare che cosa sia, ma che certamente ci attira, ci attrae.
La seconda categoria (termine che non mi piace ma in questo momento non mi viene un’altra parola), quella della politica: tante di noi qui abbiamo condiviso in questi anni nel percorso di pensieri, di riflessioni, di pratiche, le varie sfumature delle definizioni della politica e io credo nella mia vita fino adesso di aver fatto la politica prima, la seconda, e quindi sicuramente queste sono tra le parole che hanno dato un nome alle mie esperienze. Sulla politica tornerò alla fine.
La terza categoria è quella della santità, e mi fermo un attimo perché parlando con Luisa, che ringrazio per l’invito e per l’onore di essere qui a presentare il suo libro, è una delle categorie più provocatorie del suo pensiero e questa provocazione che lei da tempo fa nei vari ambiti immagino che in qualche modo susciti reazioni negli ambienti in cui la parola santità è una parola fortemente connotata, come nel nostro paese, con il Papa, la chiesa cattolica. È un pensiero arduo in cui Luisa si avventura, anche in ambienti dichiaratamente atei o agnostici. Nello stesso tempo è la categoria che a me è servita da ponte per far conoscere il pensiero di Luisa nei giri cristiani (preferisco usare questo termine). Sicuramente è stato un bel ponte: ho regalato “Il Dio delle donne” a tante amiche per Natale e devo dire che molte mi hanno detto che era un libro dove loro avevano sentito più che l’assenza di cui Luisa teorizza, la presenza di Dio, un libro fortemente mistico a dire di alcuni preti.
Il capitolo che a me ha affascinato molto del testo di questa sera è proprio quello centrale dove si parla di vita dei santi, lavoro di artisti e politica delle donne: queste tre suggestioni che Luisa tiene insieme sono quelle che tengono anche insieme la mia vita, su cui mi sono orientata camminando, trovando punti di riferimento e parole importanti. Vi elenco quali sono queste parole in cui io mi sono ritrovata e che secondo me possono essere un punto di partenza per riprendere e riannodare anche fili di relazione tra donne che vogliono essere presenti nella società e che vogliono costruire relazioni significative. Proprio perché, e qui torno al discorso della voce, io sono rimasta molto infastidita negli ultimi tempi da tutta la tematica “usciamo dal silenzio”. Non mi piaceva lo slogan, non mi piaceva il tipo di approccio, se qualcuna ovviamente ci crede sono disposta a parlarne, ma soprattutto il fastidio si è aggravato nel dibattito di questa estate sull’Unità e su altri giornali. Non che io non fossi contenta che finalmente si parlasse francamente a cuore aperto e con interventi molto vari, anche di donne che da molto tempo non leggevamo su un giornale, ma perché il punto di partenza era stato il discorso del “silenzio”. Non vi dico il fastidio quando il richiamo veniva da alcuni uomini politici, di potere, di questo paese che nelle varie occasioni dicevano “Dove sono le femministe?” Succedeva un femminicidio e “di questo non avete detto niente…”. Allora mi sono posta la domanda: “Perché si dice uscire dal silenzio che non siamo mai state zitte?” E mi dicevo che forse non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Ma l’esperienza della disfonia mi ha insegnato che a volte anche la tua voce che c’è non si sente: io sto parlando, ma se non avessi il microfono ahiahi! dietro non mi sentirebbero. Allora il problema della parola, della presa di parola è un problema anche di forza della parola, di energia, di superamento della barriera dell’estraneità, di arrivare come dice lei a dare il nome alle cose. E quindi se le nostre voci sono flebili, con l’aggravante del sordo che non vuol sentire, è ovvio che si arriva anche a questi slogan che possono dare fastidio, amareggiare tutte quelle di noi che da anni cercano di dire, di farsi sentire, di dare nome alle cose, di prendere posizione e di esserci, il famoso “ma io c’ero” che a me piace molto. I momenti dell’essere e dell’esserci.
Quindi mi sono detta: va bene, andiamo alla Libreria delle donne senza voce e diciamo qualcosa. Una delle cose a cui ho creduto di più, mi ci sono identificata, è questa frase: “Il linguaggio non prende slancio se non frequenta le cose e prende slancio non per evadere dal mondo ma per restituircelo”. Su questo, che ho copiato e messo sul mio computer, bisogna lavorare. Mi ha ricordato, insieme a quando Luisa parlando della politica delle donne parla dell’obbedienza della necessità, un episodio di vita che mi è accaduto. Che vi racconto per cambiare registro, un fatto che ho poi capito tardivamente, credo di averlo capito di più leggendo questo libro.
È un incontro privilegiato che ho avuto come piccolo gruppo della Associazione La Rosa Bianca di cui si faceva riferimento, con Don Giuseppe Dossetti: con lui, quando era ancora monaco apparentemente silente e non aveva ancora preso posizione pubblica, nel 1994, rispetto alla discesa in campo di Berlusconi, quando non aveva ancora fondato i gruppi in difesa della costituzione, noi avevamo avuto degli incontri conventuali. L’amico di Bologna ci aveva detto che se volevamo incontrarlo dovevamo adattarci a lui, lui va in giro e dice solo messe, non fa conferenze. Peccato che la messa da lui proposta fosse per il 1° dell’anno dopo che noi avevamo fatto bisboccia ed erano le sei meno un quarto del mattino. Suona la campanella, io vado ad aprire – allora avevo i bigodini perché si usavano i capelli un po’ mossi e io avevo i capelli lisci – apro la porta convinta che fosse un amico, vedo don Dossetti nella tormenta di neve, con questo pastrano, che viene a dire la Messa. Avevamo anche dei bambini con noi, il figlio di Paolo Giuntella, romano che parlava proprio il romanesco… In questa messa lunghissima, a un certo punto Don Dossetti era in contemplazione, inchinato davanti all’altare e si sente la voce del bambino romano: “A papà, ma quand’è che si va a magnà a Gesù?”, perché proprio non se ne poteva più. E a questo padre seriosissimo è venuto un attacco di riso, inginocchiato, bloccato, con la schiena piegata: “Hahaha!” moriva dal ridere.
Dopo questo incontro, ha voluto sapere come si chiamava questo bimbo, che si chiamava Osea, e lui: “Oh bello, il profeta”, tutto entusiasta, e dice “allora conosci la Bibbia, ma cosa ti piace di più?” E il bimbo: “Quando cadono le mura di Gerico e muoiono tutti quanti”. Un dialogo molto divertente. In questa atmosfera, ci troviamo in gruppo, lui guarda, chiede cosa facciamo, ognuno dice la sua, e lui mi guarda con gli occhi dei padri come ce li immaginiamo anche nei quadri… e mi dice: “Tu devi imparare l’obbedienza della realtà delle cose”. Non mi aveva mai visto. Ma chi è questo qui che si permette di dirmi… Poi tutti a ridere perché la parola “obbedienza” legata a Grazia Villa suscitava molta ilarità, allora, e ancor più adesso. E dico: “Chissà cosa vorrà dire.”
Invece questo discorso della realtà, dell’essere ancorati ai corpi, alle cose, alle esigenze della storia, all’esserci, è quello che io faticosamente sto cercando di imparare e che molto energicamente ho imparato dalla mia relazione con altre donne. Non solo quelle con cui sono in relazione politica, o di gruppo, ma principalmente dalle donne incontrate nel mio lavoro a cui sono debitrice di questo stare nel mondo. Quindi il rischio dell’evasione se si fa un lavoro come il nostro con passione c’è, il desiderio di prendere respiro però c’è tutto. E quando dico donne dico che ho tratto anche forza soprattutto negli ultimi tempi: ne parlavamo con Lia Cigarini, c’è comunque presa di parola e un po’ più di coraggio, anche se la vendetta maschile rispetto alle libertà femminili c’è, con una recrudescenza di aspetti del patriarcato morto che qualche volta tira fuori la zampata da zombi.
Altra ultima suggestione: il principio di realtà, l’obbedienza alla necessità, dentro però il tema della mediazione, anche qui un altro terreno su cui Teresa già nel passato e in maniera suggestiva… Teresa, no, Luisa (il lapsus è freudiano).

 

LUISA: Io di Teresa non ho parlato.

 

GRAZIA: No, no… Invece io mi sono sempre chiesta se non sono una Teresa che non combina niente. E quindi quando sono arrivata lì mi sono chiesta: “Non sarò una di queste? Sono forse io, come disse Giuda nell’Ultima Cena?” E un pochino di Teresa fondatrice del nulla dentro di noi c’è per forza, se no non saremmo obbedienti al principio della realtà.
Allora la mediazione, un altro terreno in cui si avventura Luisa, io credo sia l’altro punto molto forte. Luisa dice che “le parole vanno salvate dal loro abuso”: anche la parola mediazione va salvata, soprattutto quando parliamo con persone più giovani o con quelle che stanno negli altrove della nostra esistenza; abbiamo bisogno di decodificarla, perché noi pensiamo solamente all’abuso della democrazia, della solidarietà, della bontà, la verità, le parole che ci piacciono… ma anche mediazione è una parola che a me piace moltissimo, mi piace nel senso, ma bisogna decodificarla. Soprattutto se nel linguaggio si prendono scorciatoie di ambiguità che non sono nel libro di Teresa ma sono tante volte nelle nostre (Sigmund Freud è qua da qualche parte…).
Qui vorrei fare una domanda a Luisa, su un punto che mi è piaciuto moltissimo, forse è una delle parti nella quale mi sono veramente identificata, e che leggo: “La mediazione non è necessariamente opera di grandi menti e non consiste necessariamente in grandi opere né in discorsi elevati; può semplicemente essere un sentimento accompagnato da un pensiero fugace, una mezza parola, come quello che si ha al risveglio l’indomani della festa d’inaugurazione o delle cerimonia di consacrazione: adesso si comincia davvero, sono uno scolaro, sono una donna sposata, sono un prete, ho la responsabilità dell’impresa, non mi tirerò indietro… Altre esperienze, diversamente da queste, devono aspettare anni e anni, passare di ripetizione in ripetizione, restare come sepolte, prima di trovare l’interlocuzione che le fa sfociare nel presente. Altre ancora trovano le parole con la velocità del lampo che arriva prima del tuono. Talvolta, per trovare le parole, si deve aspettare il formarsi di una lingua e di un contesto” (pag. 123). Luisa spiega nelle pagine precedenti che cos’è, si dilunga per spiegare a noi bene, anzi didatticamente, che cos’è la mediazione. Però a me questa parte qui ha fatto volare perché ha dato parole all’esperienza, al mio vissuto, nel reale, nel concreto, negli incontri. E negli incontri della mia vita tutta! Io non voglio tediarvi, ma in questo libro sono a casa anche sotto il profilo della mia ricerca spirituale. Ci sono pezzi in cui Luisa descrive l’essere nel mondo che sono la mia visione, condivisa con altri, del senso dell’essere, tentare di essere un cristiano nella storia. Perché questo abbracciare il reale e essere nel contempo nel muoversi in altro piano… e c’è il passaggio in cui lei dice, parlando di Virginia Woolf, “c’è posto per Dio?” Sono andata a vedere come era la sua risposta, spero di non scandalizzare nessuno: “Va bene, c’è posto, ma anche se non ci fosse va bene ugualmente.” A me va bene ugualmente, nel senso che non c’è bisogno, non lo so, adesso non mi pongo il problema. Dal nostro punto di vista ci potrebbe essere posto anche per lui in questo ragionamento, poi ogni tanto scherzo e allora mi dico: beh, se ci vuoi stare, se non ci vuoi stare problema tuo.
Più di così noi in questo momento della storia, con gli incontri che abbiamo avuto, le amicizie, con le persone, con le contraddizioni, con i fallimenti, questo facciamo.

 

MIRELLA MAIFREDA: Noi abbiamo, come diceva prima Zina, condiviso la lettura del testo. Mi è piaciuta molto l’introduzione di Grazia Villa.
Noi abbiamo fatto un lavoro in parte collettivo in parte individuale, perché è un libro che si presta a una ricezione individuale. Quindi in parte farò una sintesi di quello che è emerso nelle nostre discussioni, in parte ci sono dei pezzi di lettura che ognuna di noi ha dato poi di fatto individualmente.
Per quanto riguarda me, ho trovato questo libro abbastanza complesso, particolarmente articolato. Mi ha colpito la frase iniziale in cui Muraro sostiene che si possa leggere ogni capitolo indipendentemente uno dall’altro, mentre secondo me essi hanno una sequenzialità che poi diventa significativa, importante. Anche perché storicizza, qui ci sono circa duemila anni di storia del pensiero, va dal cristianesimo allo strutturalismo, quindi ha un senso un percorso e questo è uno dei fili conduttori della lettura che io ho realizzato all’interno del testo.
In secondo luogo l’ho trovato complesso perché segue degli itinerari barocchi. Sono d’accordo con quello che diceva Grazia Villa, c’è una ricerca, c’è un centro, il richiamo all’arte decentra, ti prende, ti sposta, e quindi non ti da immediatamente alcune connotazioni. Mi sono chiesta perché io, che ho una discreta frequentazione di saggi, che di solito hanno una, due o tre tesi e poi arrivano alla conclusione, abbia fatto una fatica tremenda a entrare nel tipo di lettura. E poi ho pensato che questo per me era un testo profondamente interlocutorio, un testo dialogante, un testo aperto, un testo che quando racconta, parla. E quindi è un testo che ci lascia interpretare, che ognuna può in qualche modo interpretare in maniera differente. Quindi la difficoltà mia fondamentalmente è stata di tipo emotivo, perché mi sono letta questo libro tre volte e ci ho litigato tre volte, e ogni volta che ho avuto un approccio è stato un approccio diverso, più rigido, più storico, più… fino a rendermi conto che appunto era per me un testo interlocutorio, che mi richiamava, e ho in parte seguito il percorso che Grazia Villa ha seguito. Io ho teso a isolare singole parole perché mi sembrava più semplice. Le parole sulle quali io ho più ragionato, forse abbiamo più ragionato, sono: desiderio, realtà, immaginario, un prima e un dopo, che secondo me ricorrono frequentemente nel testo.
Rispetto alla tematica del desiderio, che ricorre fortemente, io credo che abbia delle ambiguità di fondo, perché si passa da “cime nevate”… È vero che Teresa d’Avila non c’è nel testo, ma c’è, riscontro anch’io questa presenza forte, c’è in corpo, spiritualmente e storicamente, e quindi sono d’accordo che un forte desiderio possa provocare e suggerire in alcune situazioni in qualche modo delle grosse modificazioni, però ritengo che questa tematica del desiderare sia fortemente ambigua, controversa e contraddittoria perché se astratta da un concetto appunto quasi di misticismo e portandola a livelli molto reali il desiderio ti interroga direttamente e quindi prevede che ci sia un’onestà di fondo rispetto al rapporto che si ha con il desiderare, con il desiderato e con gli altri soggetti che desiderano molto profondo, e quindi diventa estremamente ambiguo. E secondo me c’è questo continuo rimando tra una santità… perché poi è difficile misurarsi con i grandi desideri appunto di San Paolo che vennero rimandati o altri, su un desiderio che in effetti è poi terreno.
Anch’io citerò delle frasi di Muraro (alcune le sintetizzo).
Muraro dice a proposito del desiderio: “È difficile esprimere desiderio o sentirsi soggetti desideranti quando la realtà stessa sembra perdente. Ma se non c’è desiderio non c’è vita e il desiderio dovrebbe superare la prudenza della commisurazione poiché il reale non è indifferente al desiderio.” Prosegue: “Desiderio è la capacità di stare al mondo senza sottostare alle sue leggi” (Antigone, quindi), “saperci inadeguati e starci lo stesso. La frustrazione della realizzazione del desiderio può essere mitigata dal riconoscere che esiste la necessità di una instancabile contrattazione che ci mette in gioco personalmente”. Però diventa anche molto contraddittoria perché c’è una parte, un passaggio della psicanalista Manuela Fraire dove ridimensiona tutto il gioco del desiderio (non so se è stato inserito come forma di mediazione rispetto a questa cosa che è anche un po’ spaventosa, non è una cosa con la quale misurarci, confrontarci facilmente, se lo si fa con onestà, come suppongo il libro sia stato scritto), dove sostiene che la cosa importante non è il desiderio di qualcosa ma il rapporto e la trasformazione di sé che si opera per via del desiderio.
Meno chiaro mi risulta il passaggio in cui Muraro afferma che il desiderio femminile ha perso l’aiuto simbolico con il finire della civiltà. Allora qui entriamo in un altro territorio, e condivido e non condivido. Condivido e non condivido nel senso che entro e esco da questo meccanismo, condivido il fatto che essere collocate all’interno di ordini simbolici diventa determinante per la formazione di un immaginario, e l’immaginario è una molla potente per la formazione di un desiderio, ma questa cosa mi rimanda a un prima e un dopo che è un altro tema che corre frequentemente all’interno del testo, perché c’è un prima e un dopo emotivo e un prima e un dopo temporale all’interno del quale questo ordine simbolico si trova. Allora c’è un prima che è costituito da questa civiltà, perché si parla appunto di civiltà, è un termine importante, e quindi esiste un prima costituito da cultura comune fatta da tesi condivise, testuali parole di Muraro. E si avverte nel testo profondamente che esiste una cesura, una rottura nel e della storia del pensiero umano, e un dopo che viene collocato nell’illuminismo? Prima che con la rivoluzione copernicana, ossia c’è una fase di rottura all’interno della quale questo ordine simbolico viene rotto. Io mi sono chiesta che cosa rappresentasse poi nella civiltà un ordine simbolico, perché parlare di simbolo in questo momento è come dire “spara al crocefisso”, e un po’ come la consuetudine, perdendo il senso della parola, e anche per me tutto il discorso rispetto al linguaggio impostato, all’afasia, al fatto che per me le parole vengono usate senza senso… In questo prima corrisponde ciò che io credo di aver compreso (vale per me), una società governata da regole non scritte, con riferimento a un grande altro, forse virtuale questo grande altro, ma sempre presente e pronto a sincerarsi che lo svolgersi delle nostre azioni sia conforme alle sue aspettative, e in definitiva, in sintesi quello di aver compreso la sudditanza di Anselmo d’Aosta, nel testo ritorna, e secondo me messo lì come delle briciole di Pollicino che vengono disseminate all’interno di questo testo e che vengono in qualche modo seguite.
Dice Muraro: “Quel tipo di civiltà si arricchiva nell’osmosi con la pluralità di santità e di pratica associata all’apprendimento del linguaggio, all’organizzazione del lavoro, alla cura dei corpi ecc. che per noi si sono frammentati (n. della relatrice: quindi noi siamo il dopo) in una pluralità di cose, di discorsi collegate tra loro. Il dopo rappresenta il fallimento degli ordini simbolici”.
Ora, a me questo ha creato una serie di riflessioni e mi sono chiesta se non sia una visione un po’ arcadica, perché a sostegno di questo prima c’è all’interno del testo un dialogo che intercorre tra due coniugi tedeschi ebrei che vivono durante il periodo nazista i quali si chiedono se quello che sta avvenendo non sarebbe avvenuto se Dio non fosse morto. Allora, pensando a quello che succedeva in queste civiltà – perché di civiltà si parla, se civiltà sono state collocate all’interno di questo ordine simbolico – come la cattolicissima Spagna che poi ha ospitato Santa Teresa che ritorna qui, ma che ha sterminato le Fiandre, mi chiedo se non ci sia una visione arcadica, una dicotomia tra un prima e un dopo e mi chiedo se un prima e un dopo siano invece falliti, ci sia un fallimento sia dell’ordine simbolico, sia un fallimento del pensiero.

 

(Luisa Muraro interviene ma senza microfono, per dire che il dialogo a cui fa riferimento Mirella non è tra due coniugi ma tra Hannah Arendt e Hans Jonas, nel contesto di un incontro filosofico canadese nel 1972, poi Zina invita agli interventi dando la parola a Muraro.)

LUISA MURARO: Ho annotato alcune cose che ha detto Mirella, e cose che ha detto Grazia Villa che ringrazio moltissimo di essere venuta e della sua lettura e delle cose che ha detto.
Mirella dice: “Io sono una lettrice di saggi, mai ho fatto tanta fatica finché non ho capito che questo non è definitivamente scritto, è messo lì, aperto, interlocutorio: una fa il suo lavoro e completa il testo, lo sviluppa e lo riprende”. È assolutamente così, però questo non vuol dire che alcune questioni io non le abbia in qualche modo pensate, e per esempio il prima e il dopo non vanno nel senso che il prima sarebbe arcadico. Tu hai accostato al prima quello che invece era una rievocazione delle società integrate, le società tutte cristiane, tranne una esigua minoranza, nella nostra società medievale erano accettati e incapsulati gli ebrei come i non cristiani emblematici. Studiando la storia di Guglielma e Maifreda, vi si trova il documento dello stupore che è per i cristiani europei la scoperta del gran numero dei musulmani. Stavano venendo da oriente, spingendo verso i confini orientali del regno di Boemia, e lei era di origine boema e questi cristiani della congregazione di Guglielma si pongono il problema della salvezza dei musulmani, scoprono cioè che Gesù non aveva completato la cosa, è un annuncio della modernità, viene meno quella specie di armonia che io ho rivissuto, in una forma molto sofisticata, quando sono andata a Marrakesh ospite di Corrado Levi. Quella è una società dove tutti sono musulmani, tranne noi turisti. Ma gli altri sono musulmani, lo sono davvero. E io l’ho sentito, quando nella notte ho sentito che cominciava il muezzin, cominciava credo addirittura il Ramadam, è cominciato questo ronzio, credevo un moscone, e poi è diventato un enorme ronzio, poi è cominciata la voce a cantare, io ho capito cosa vuol dire: mentre a noi le campane danno fastidio, lì questo potente ronzio, ed era il muezzin elettronico che avvolgeva e occupava tutta la notte, ho capito cosa vuol dire. Non c’entra né il prima né il dopo. Il prima e il dopo vengono perché il pensiero post moderno ha detto che il posto dell’origine è vuoto. Io a questo pensiero nichilista non oppongo che il posto in origine è pieno. Se io guardo verso l’origine intanto c’è mia madre, quindi non mi sento di dire che è proprio vuoto, qualcosa c’è, ma se andiamo proprio al concetto di origine io guardo nella direzione, c’è un prima. È semplicemente questo. Le altre sono interpretazioni, tu lettrice di saggi vuoi costruire la trama concettuale, anch’io faccio questo lavoro quando scrivo, cioè che la trama concettuale non sia tutta scombicchierata. Ho anche degli espedienti per non dovere costruire tutto della trama concettuale. È un gioco fatto così per lasciare proprio il testo, come tu hai detto molto bene, nella interlocuzione con chi lo legge.
Ci sono altre cose interessanti che hai detto, poi riprenderò alcune cose che ha detto Grazia Villa.

 

SERENA FUART: Io ho fatto parte del gruppo di lettura e due cose per me sono state illuminanti. Innanzitutto il fatto che il desiderio se pure irrealizzabile modifica la realtà, io l’ho sperimentato. Sono portatrice di molti desideri, alcuni realizzabili alcuni no, ma io li porto avanti ugualmente e la realtà non rimane insensibile a questo fatto. Poi mi ha colpito la parte dell’impensato che non coincide con l’inconscio. Mi è capitata un’esperienza: io provo un’attrazione emotiva verso un’artista (in carne e ossa), a un certo punto ho scoperto che questa attrazione era in realtà sessuale. È un esempio di impensato perché ho capito che era una cosa che c’era perché la sessualità fa parte di tutti noi: questo capitolo l’ho trovato illuminante. Questo era il contributo che volevo portare.

 

LEONILDE CARABBA: Sono una artista. Ho trovato questo libro in biblioteca. Per prima cosa sono stata contenta che il libro di Luisa fosse in biblioteca, e poi l’ho preso subito e l’ho divorato, perché io leggo così come mangio, divoro. L’ho preso in un giorno in cui il mio essere artista mi pesava, mi pesava la relazione col mercato, mi pesava la relazione con la realtà. L’ho divorato e poi è partita una nuova serie e di opere e di atteggiamento rispetto al mercato. Quindi io voglio ringraziare soprattutto di questo, perché questa irrinunciabilità del desiderio è la cosa più importante che ci può far vivere, essere presenti alla vita e operativi nel mondo. Questo è il mio intervento. Grazie.

 

CORRADO LEVI: Io sono andato avanti con la fantasia sulla donna del gomitolo, ho pensato ai desideri, i pensieri soavi che ella aveva quando percorreva la faticosa fila nel fare il gomitolo, e penso che lei portava al mercato questo valore che è diverso. E poi mi sono divertito a dire cosa se ne faceva del ragazzo così forte e così bello. Però anche questa è una impossibilità, lei stessa con la sua impossibilità, questo miraggio.
Anch’io sono rimasto molto colpito dal legame tra mistica, arte e parola, siccome sono implicato in tutte queste, e mi è entrato molto che simbolicamente sono forti come il tempo che possono cambiare, essere in competizione. Penso – e mi piace fare un po’ il colto – che Benjamin disse che durante la rivoluzione francese i rivoluzionari avevano sparato agli orologi, e pensavo anche una citazione di Sartre, che nel momento rivoluzionario c’è un’intesa tra le persone che poi purtroppo diventerà norma, diventerà il patto e allora si torna indietro. Luisa dice che nell’autocoscienza, che anch’io ho provato nei gruppi omosessuali, c’è un’intesa che passa; dice Luisa, con queste ricchezze di linguaggio che io adoro, “una danza tra io e gli altri”. E anche del silenzio, il silenzio diventa espressivo, diventa cosa. Ricordo, facendo una analisi personale, il mio analista diceva che l’unico momento di analisi era quando io stavo zitto, che era l’inizio, quando c’era il silenzio. C’è anche una poesia di De Pisis bellissima sul silenzio, che si avvicina alla morte ecc. ecc.
Un’altra cosa che mi ha colpito è la solitudine, quando l’esperienza oltrepassa le mediazioni disponibili e reclama ben altro orizzonte, questa è proprio la rottura di cui parlavi tu prima, a un certo punto non ci sono più parole e allora è su quelle parole che non ci sono che bisogna cercare. Sono qui e mi piace dire che è qui presente una persona che è un po’ maestra di tutti noi che quando parla cerca le parole, cerca la parola che corrisponde alla cosa e la crea e la trova in quel momento e non è come dice Luisa e io ho imparato da questi interventi di questa persona che è qua presente forse più nel modo che forse addirittura nei contenuti. E forse basta. Grazie.

 

VITA COSENTINO: Io volevo dire che la cosa che mi è piaciuta di più e che più mi ha sorpreso nel libro è verso la fine, nel capitolo sulla necessità della mediazione – ha già parlato Grazia Villa di quell’aspetto – quando Luisa cita l’ultima variazione di Sun Tzu e pone la questione che ci sono città che non vanno assediate, ci sono ordini dell’imperatore che non vanno eseguiti… Allora, proprio nel momento in cui tutto il discorso è sull’obbedienza alla realtà, all’imperatore, Luisa pone la questione della libertà. Mi sembra una cosa geniale del testo che io ho sentito come molto politico, per creare una possibilità di politica in questo mondo che sembra effettivamente dominato dal potere, sesso potere intrighi osceni, e invece questa possibilità si continua ad aprire anche proprio nel punto, nel momento stesso in cui tu sei lì che stai profondamente nella realtà e obbedisci alla realtà.

 

GRAZIA VILLA: Hai detto (si rivolge a Mirella) il tuo approccio al libro. Invece io ho fatto come l’amica artista, ho divorato e ho trovato paradossalmente semplice la prima lettura. Poi quando ho dovuto pensarci per presentare, allora il secondo livello è stato più… Ma comunque io non ho assolutamente distinto la visione arcadica come tu l’hai descritta, per la categoria del prima e del dopo. Pur con la precisazione ovviamente autorevole che ha fatto Luisa, collocata nella storia, io mi sono permessa di trovare un prima e un dopo continuo, che continua rinnovarsi, il prima e il dopo sottratto alla categoria del tempo. Sembra un paradosso però mi sembra che questo ci sia, molto forte, quindi il fallimento dell’ordine simbolico così come tu hai descritto potrebbe essere un fallimento perché collocato nella storia ma diventa invece generativo nel movimento, nella circolarità che tanto torna nel testo. Appunto perché io c’ero nel momento delle rotture, come femminismo – cita anche il ’68, si colloca anche Luisa nel suo “io c’ero” – queste diventano sì rotture dell’ordine simbolico ma rotture generative. Quindi io l’ho letto in maniera diversa.
Rispetto all’intervento di Vita, era il passo successivo prima che Luisa mi desse lo stop. Infatti ho scritto: da pag. 129 molto d’accordo, anche se mi ha stupito la citazione del generale, però mi ha colpito questa sorta di impossibilità di non disobbedire. A un certo punto quello che dice spiega perché non bisogna obbedire all’ordine, non c’è un percorso come da giurista, anche una decodificazione, non si può fare diversamente. È chiaro che anche lì in filigrana si vedono tanti pezzi di riferimento in cui io mi sono identificata.
Poi l’ultima cosa, per ridere, le figure retoriche del libro: io mi sono identificata in tutte, dalla nana di pietra perché io sono la sorella maggiore di quattro sorelle e sono la più piccola di statura detta la nana, Grazia la nana; la vecchia del gomitolo, qua c’è stata proprio una cosa meravigliosa anche per mie esperienze personali; il puntare all’impossibile è una fatica che ci salva perché in fondo la domanda di salvezza… La risposta che mi è piaciuta di più sta nell’osare l’impossibile, nell’esserci e nella felicità che ci sta già in questo: nell’essere in quel momento, nell’osare, divertirsi anche e immaginare che cosa farci…

 

LUISA MURARO: Il punto del desiderare l’impossibile, l’efficacia, cosa che anche Serena ha detto, compare anche nell’ultimo Sottosopra, “Immagina che il lavoro”, il punto dieci è questo. Penso che ci sarà molto lavoro da fare, per chi vorrà farlo, anche per aiutare lo spostamento, perché per esempio ieri ho letto sul Manifesto una discussione fatta dall’avvocata Maria Grazia Campari -che tu certamente conosci perché è avvocata del lavoro – ed è una discussione di una donna preparata, che ha dedicato la vita alle lotte per la gente che lavora, ma fa delle obiezioni che vedo dovute al fatto che le sfugge il testo, quindi lì c’è un lavoro da fare e sono contenta che questo libro, per chi lo ama e lo apprezza, possa aiutare anche proprio per la intelligenza di un certo linguaggio politico.

 

DONATELLA MASSARA: Stavo pensando al discorso sul desiderio, non so se è la critica che ha fatto Mirella che apprezzo molto… io questo libro l’ho letto più volte ma non riesco a criticarlo, invece sono molto preziose le critiche. Pensavo che il desiderio, avere dei desideri è connaturato nell’essere umano ma non è facile avere dei desideri, si può essere anche in una posizione in cui non si è sicuri di avere un desiderio, proprio quello lì. Se si entra dentro a questa interrogazione forse alla fine si arriva a qualcosa di più risolutivo, non vorrei prendere il desiderio (sto parlando per me) come una parola cui mi attacco fortemente perché sicuramente è molto interessante rilanciarla, rilanciare una politica in cui c’è il desiderio al centro, però vorrei in qualche modo essere anche capace di decodificarlo, sapere anche che rispetto ai desideri a volte io sono in dubbio, non sono poi così tanto sicura che quello lì sia il mio desiderio.
L’altro aspetto che invece mi avvicina di più al discorso del desiderio, lo vedo più mio, mi è più confacente, è la frase sull’immaginazione, che per me è stato veramente un grosso regalo: io ho studiato filosofia e quando studiavo filosofia alla statale mi insegnavano che era la scienza la disciplina con cui si dialogava, con cui dialogava la filosofia, che il discorso scientifico era quello sicuro, che porta delle prove, che parte da presupposti veri e arriva a qualcosa di oggettivo. È chiaro che il femminismo mi aveva già dato un grosso scossone, ma io sono arrivata un po’ tardi a studiare filosofia, mi sono laureata a trentotto anni e in qualche modo sono rimasta attaccata a questa idea, cioè la poesia non sapevo neanche più che cosa era. Adesso con il libro di Luisa ho ritrovato un discorso filosofico per me molto importante, cioè saldo, una saldezza, non c’è soltanto un libro di una femminista, di una donna che conosco e che stimo. È un caposaldo della filosofia, per me è questo questo libro, lo sostituisco a libri a cui ho fatto riferimento, che ho cercato di insegnare ai miei allievi e sui quali mi sono anche annoiata profondamente ma che io qualche modo ho dovuto studiare. Secondo me questa qui è un’altra filosofia, e sarebbe molto interessante che avanzi non soltanto come politica. In questa filosofia prende un grosso spazio l’immaginazione, c’è tutta la parte in cui lei dice (che era uno dei temi dell’ultimo libro di Diotima) che tra immaginazione e realtà non c’è quella cesura forte, quindi è giusto fare riferimento alla realtà però mettiamo in gioco anche l’immaginazione, quindi il desiderio forse per me sta lì nel discorso dell’immaginazione più che del desiderio come passione. E tutta la parte su Freud, sulla sessualità femminile che comincia immaginando qualche cosa, sarà vero o non sarà vero ma lì c’è stato un passaggio, si è rotto un vecchio paradigma basato sulla oggettività per passare a una condizione del mondo dove fra immaginazione e realtà ci sono blocchi molto leggeri, e quindi questa frase a me è piaciuta molto.

 

LUISA MURARO: Donatella, il legame che tu istituisci tra desiderio e immaginazione è un richiamo fondamentale, ed è un apporto tuo perché nel mio testo non credo di aver stabilito questo legame – è chiaro che essendo un testo che si presta a delle aperture uno può fare questo lavoro – comunque è vero che bisogna fare attenzione a questa cosa, che le persone che man mano perdono la forza immaginativa deperisce anche il desiderio, non voglio adesso fare teorie però tu hai richiamato l’attenzione su una cosa importante.

 

DELIA: Io questo libro invece non sono riuscita a finirlo per questioni di tempo, quindi parlerò dei primi capitoli, cosa mi ha colpito in questi capitoli.

 

LUISA MURARO: Non si esordisce così: se non l’avete letto non importa, parlate. Dire che l’ho buttato via per disgusto questo lo si può dire, ma solo per mancanza di tempo è banale.

 

DELIA: La cosa che mi ha colpito è che la lettura di questo libro è avvenuta in un momento della mia vita in cui nel lavoro mi sono resa conto che il desiderio è una molla importantissima se è sostenuto dalla parola. È vero. E modifica la realtà. Mi sono trovata in una situazione in cui dopo decenni che nel nostro posto di lavoro siamo in gravissime difficoltà logistiche, tutti dicevano è inutile andare a parlare con i responsabili, gli enti, perché tanto non ci sono i soldi. Io ho detto: proviamo, perché no? Poniamo la questione. Magicamente hanno trovato la soluzione. E non è che si siano fatti discorsi particolarmente…, semplicemente io e il dirigente che pure è una donna, guarda caso, siamo andate a parlare a quella che è l’assessore alla pubblica istruzione di un comune fascista come quello di Salò, una giunta profondamente di destra, abbiamo trovato una donna capace di ascoltarci, questa donna ci ha ascoltate, forse perché io la conosco anche per questioni…

 

LUISA MURARO: Ma no, è la forza del desiderio, stiamo discutendo di questo, perché avevi qualcosa dentro e lei è stata catturata.

 

DELIA: Ampio spazio per tutto quello che era inaspettato, questo per me era inaspettato.

 

SILVIA: Io la ringrazio per avere scritto questo libro, è stupendo. Prenderò soltanto il rapporto che stabilisce la Muraro tra la lingua, le parole e il corpo. La cosa più importante di questo rapporto, questa esperienza del desiderio messo nelle parole, quasi riesce ad andare avanti in quel punto della sessualità femminile quando Freud dice giustamente che lui lascia tutte le porte aperte, e dice: “Che posso dire della donna nonostante gli anni che mi dedico all’analisi? nonostante tutto posso dire soltanto che il rapporto della donna con sua madre mi è talmente oscuro, talmente impossibile apprenderlo che ancora con tutti questi anni non potrei arrivare a dire di più”. Io quando l’ho letto mi sono messa con grande entusiasmo a leggere i suoi libri, e vedo che senza volerlo Luisa prende questo punto che è una preoccupazione perlomeno per tutte noi psicanaliste di Buenos Ayres della scuola lacaniana che ci siamo dedicate anni interi sulla sessualità femminile. In questo desiderio di cui parla Luisa, in questo corpo femminile, in questo corpo che immagina, che si parla, lì c’è la forza del desiderio, diciamo in questo poter parlare. Si parla per poter amare, ma parla perché si ama. In questo libro questo amore concretizzato nelle parole, nella scrittura, nelle fantasie, nell’immaginazione stessa è un apporto alla sessualità femminile oggi. Questo rapporto tra l’immaginazione che è proprio della femminilità e il poter dirlo, è il punto fondamentale.

 

JAIRO DAGHINI: Mi ha molto preso in questo libro un nucleo forte originario di pensiero che è posto fin dall’inizio con molta determinazione, cioè questo evento della “himmat”, che è una citazione della poetessa turca araba, cioè questo anelito verso qualche cosa che è percepito anche se non può essere raggiunto. Io ho sentito questo come un nucleo di pensiero forte originale che permette poi di vivere e di fare l’esperienza di moltissimi eventi e concetti. Per esempio questo anelito verso qualcosa che voglio perseguire anche se non posso raggiungerlo è come concetto il desiderio stesso, un anelito che è il desiderio stesso, che è un fluire di energia che sta proprio alla base del mio essere nel mondo. Questo poi nel corso del libro appare con una grande coerenza in alcuni concetti che ritornano, quello di ripresa, la ripresa come un essere continuamente nell’anelito, che si desideri o no, se si pensa al concetto di desiderio tradizionale, che è un altro desiderio che viene messo dentro, è un desiderio di essere come questo fluire continuo di vita. C’è una idea originale di desiderio, non è più possibile riportarlo al concetto di desiderio che abbiamo usato per molto tempo. Quindi la ripresa è essere continuamente in un desiderio di essere. L’altra cosa che mio ha molto preso di questo libro è che essere in questo anelito ti stabilisce un rapporto diverso col potere. L’essere nel desiderio di essere non significa raggiungere una forma di potere, ma raggiungere una forma di essere, una forza di essere sempre dentro a questo fluire del desiderio. Questo è anche un aspetto originale, forte, del pensiero di Luisa in questo libro. L’altra cosa che mi ha anche molto preso è il ribaltone paolino, che è proprio un modo in cui si è nell’essere senza giocarci il potere, senza passare attraverso i giochi della dialettica, questo poi ci tocca su molti problemi di filosofia. Il ribaltone paolino è un evento che proprio il femminile, Luisa lo dice molto bene, può attuare uscendo da questa assenza della storia, in cui in realtà non è che sia mai scomparso, ma è stata una assenza in cui questo desiderio di essere non ha potuto, cioè era latente ma era lì. La forza di questo concetto che sin dall’inizio con “himmat”, con questo anelito… Volevo dire con forza il piacere che mi ha dato questo libro, la scoperta.

LUISA MURARO: Jairo avrebbe così dato la risposta a Mirella, perché lei dice che c’è contraddizione, c’è ambiguità, allora lui indica che forse allora c’è un’altra idea del desiderio. Io credo di sì. Lui poi cita giustamente la poetessa mistica: so bene che Jairo non ha indulgenze verso le tematiche religiose e non c’è nessuna contraddizione perché in verità i mistici e le mistiche sono gli unici e le uniche che veramente escono dalla tematica religiosa dal verso giusto, tutti gli altri ne usciamo malamente, poi ci torniamo, la religione è tutto un andirivieni… E comunque, in effetti anche se io l’ho appresa questa cosa che dici tu, che me la attribuisci, me la prendo, l’accetto, viene proprio dalla frequentazione delle scrittrici mistiche, viene dalla frequentazione laica della scrittura mistica femminile e anche maschile.

MARINA TERRAGNI: Questo libro di Luisa ho avuto il privilegio di leggerlo in bozza. A marzo addirittura, tanto tempo fa, e mi vien da dire che non me lo ricordo più, ma dicendo questo avrei dovuto ripassarlo, ma è diventato carne della mia carne, l’ho metabolizzato, digerito, ed è vero quello che diceva il signore che mi ha preceduto, secondo me è l’intuizione centrale, che ne ha dato più energia, se vogliamo mettere questo termine new age. In particolare vorrei aggiungere qualcosa su questo desiderio che io ho cominciato a pensare come un desiderio di qualcosa che a volte non so cos’è eppure lo so benissimo, quindi è un desiderio di qualcosa che io so che c’è, so che esiste, ho la fede, la certezza assoluta che c’è quello che io sto cercando e d’altro canto non lo vedo, quindi questo desiderio si muove in questo modo. Adesso però volevo fare la giornalista se permetti, Luisa, e farti una domanda in chiave strapop, super pop, che è questa: c’è in particolare negli Stati Uniti ma anche qui (persino la mia parrucchiera l’altro giorno leggeva “The sincret”) tutta una vulgata di pensiero veramente super popolare… “The sincret” è una vera e propria serie di libri, è diventata una collana che sostanzialmente dice proprio questo: tu puoi avere ciò che desideri, puoi essere ciò che sei purché tu abbia consapevolezza e chiarezza su quello che stai perseguendo. Allora, dato che sono sicura che Luisa non sprezza affatto di essere, come dire, pane anche per un pubblico più ampio, volevo chiedere se anche lei conosce questa corrente, questa moda e in che relazione pone la sua riflessione con questa roba che si vende nei Supermarket.

 

LUISA MURARO: Tu mi hai appreso una cosa che però non mi sorprende, perché io sono stata una estimatrice e ho difeso anche in dotti convegni i romanzi rosa non a causa degli autori dei romanzi rosa ma delle lettrici e l’ho portato come argomento per dire che ogni libro in qualche maniera viene rifatto da chi lo legge. Le donne lettrici appassionate di romanzi rosa spesso perché non avevano strumenti o tempo o altro per accedere a una letteratura più… hanno pensato, sentito amorosamente dando così alimento attraverso della scadente letteratura a qualcosa di autentico e di grande. Io ho già discusso con Lia e con altre su questo punto, non si può fare una politica delle donne se non accettiamo che si parli d’amore, perché le donne non rinunciano alla cosa dell’amore. Allora adesso qui avremmo un filone, vediamo se dura, se avrà un pubblico così, un filone di questo tipo e cioè che un qualcosa di autentico e di vero ma che era sentito come latitante o assente o ricacciato via dalla cultura dominante è riuscito ad entrarci per una strada minore, dal basso. Naturalmente la qualità della faccenda dipende da chi legge questa cosa, poi o forse anche subito si pone a donne come Marina e come me il problema del riscatto di questa cosa: non siamo arrivate in tempo per riscattare la grandezza delle lettrici dei mediocri romanzetti rosa, siamo arrivate in tempo forse per riscattare la grandezza, se c’è, se la sentiamo, dell’approccio a questa cosa qui. Tu hai detto “bisogna sapere chiaramente quello che si vuole”: questa declinazione volontaristica non mi convince molto, è in verità come invece ha detto Jairo, bisogna attingere al desiderio di essere che è dentro a qualsiasi desiderio, anche il più trito e banale, tra quelle che sono le risorse mai esauribili, anche perché non sono mai possedibili, non sono mai possesso. Comunque mi informerò, io vivo molto lontana dai Supermarket.

 

GIORDANA MASOTTO: Qualcuno prima, forse Donatella, ha detto “è difficile per me individuare il desiderio”. Io in tanti momenti della mia vita sono d’accordo con questa affermazione e pensandoci ritengo che nella mia esistenza (non ne voglio fare una presa di posizione teorica, è una testimonianza), solo nello scambio di parola che chiamiamo politico con le altre donne identifico un desiderio, cioè per me questa dimensione è vitale. È che solo tanti anni fa nei gruppi di autocoscienza ho cominciato a poter avere parola e quindi a cominciare appunto ad approcciarmi a una dimensione di desiderio, di pensarmi e di pensare al mondo, di dare parole a questo, solo nello scambio di parola con le altre ho visto la forza che questa cosa poteva avere. Ci sono state fasi alterne nella mia vita in questo scambio di parole, però posso certamente dire che in questo c’è una dimensione che diventa politica. Io non sono una artista né santa, però ho sempre una reazione di ammirazione, di invidia buona, di adesione emotiva, perché sento lì una capacità anche individuale, in dialettica con il mondo e con gli altri però con una forza come dire anche solitaria in qualche modo. Per me politica vuol dire appunto poter dar voce a un desiderio altro, quello che riesci anche a immaginare, ed è solo con lo scambio con le altre donne.

 

LAURA MINGUZZI: Volevo riprendere il discorso molto energico di Jairo perché è una cosa che avevo pensato anch’io. Questo dell’essere, che arriva all’improvviso. Cioè all’improvviso uno sente l’insoddisfazione del desiderio che gli dà insoddisfazione. Pare un paradosso, perché il desiderio dovrebbe finalmente trovarsi ad agire. No. Cioè ti rende insoddisfatta, che è un po’ la differenza tra la cosa e la parola. Una volta che hai questa sensazione, questa condizione interiore – ed è una cosa che avviene in solitudine, non tanto nella relazione con le altre donne, e più nel profondo – ti dà come una specie di illuminazione che ti fa sentire più distaccata dalle cose, quindi anche dal potere, dal denaro, ci sei ma anche se non ci sei è lo stesso. Quindi ti pone più sull’essere che su l’esserci ma nello stesso tempo ti lega più fortemente alla realtà perché ti toglie degli schemi illusori, ti toglie qualcosa della nostra idea del desiderio legato alle cose che nascondono la realtà vera, quella che conta, e quindi rende anche più efficace la parola, la presa sulla realtà, e si pone come diceva Jairo, subito in un rapporto diverso con il potere e con quello che, dove sei, crea appunto queste due differenze di essere realtà e di percepire la realtà. Ho trovato nel libro di Luisa questa cosa molto forte, che io avevo percepito e che lui ha espresso molto bene.

 

MARIA CASTIGLIONI: Ricordo un testo di qualche anno fa, intitolato “La posizione isterica e la necessità della mediazione”, e così riprendendo un po’ anche il mio cammino personale trovo di essere attualmente un po’ meno isterica e più mediatrice; quindi tutto questo pensiero che è stato portato avanti collettivamente negli anni cui faceva riferimento la Giordana penso ci abbia proprio permesso una modalità di stare nel mondo, di essere presenti, completamente diversa o comunque fortemente diversa, in quanto l’altra non è più né la complice né la rivale e non è neanche l’alleata. È stato un attraversamento per me nella solitudine, nella differenziazione, nel riuscire a distinguermi dall’altra, nel non avere più queste tentazioni di fusionalità con le altre, cose molto belle. La Luisa parla dell’io o della danza dell’io: era anche una danza fusionale, ci si stava molto bene. Gli io non erano poi così distinti in questa danza, c’era molto il senso dell’isteria, dello stare con la madre tutte insieme in quel unico corpo, in questo corpo mistico che potrebbe essere per analogia quello della chiesa: il corpo mistico del femminismo io l’ho vissuto molto e mi ha dato moltissimo. Dopo di che la separazione dall’altra non è stata cosa facile perché vuol dire centratura su di te, la tolleranza della solitudine, il conflitto; anche tutto il pensiero che è stato fatto sul conflitto tra donne mi ha dato tantissimo. Adesso la domanda che volevo rivolgere a Luisa (a lei che ha scritto questa cosa molto importante) è: perché, attraversate tutte queste tappe ecc., io ho la sensazione che la mia parola sia ancora incompiuta? Non dovrebbe essere così, perché? Quello che diceva Jairo prima è molto interessante, dava l’idea del continuo divenire; io potrei accontentarmi del fatto che la mia parola la sento incompiuta perché sono, come diceva Foucault, un divenire donna, e siamo in continuo divenire e va bene così. Comunque mi fermo qui, su questo interrogativo.
L’altra cosa che volevo chiedere a Luisa è: quando lei dice che la realtà si lascia interpellare dal desiderio, allora io mi chiedo come il mercato si lascia interpellare dal desiderio, ma non il desiderio consumistico, accumulativo, piratesco, rapace, dell’avidità del consumatore. Non quello. Quello che mi interessa capire nella tua teorizzazione, dal tuo punto di vista, è come è possibile che il mercato capitalistico si possa rendere sensibile a un desiderio diverso.

 

LUISA MURARO: Le domande dice Grazia che sono belle. Sulla seconda voglio riflettere, e può darsi che qui qualcuna ci abbia già pensato. Invece: perché adesso la mia parola la sento incompiuta? Io dico semplicemente: qui – e anche questo l’ha evocato Jairo – è la questione della ripresa, la capacità della ripresa. Alzarsi la mattina e ri-assumere l’essenziale di quello che hai guadagnato per tradurlo in qualche cosa di prosaico, adesso è la cosa della tua vita quotidiana. La ripresa è proprio dell’essenziale, della grande cosa che è accaduta, ti alzi la mattina e dici: adesso si va a vivere questo. Non hai saturato la incompiutezza della cosa però impedisci a questa incompiutezza di parola di trasformarsi in insoddisfazione e amarezza. Ecco, ed è lì che entrano le altre grandi qualità che sono la determinazione, la volontà, la fedeltà, la costanza, la forza, la forza che non è appunto eccitazione…

 

TERESA: Io sono una poetessa che è impazzita, che ha fatto 29 anni di psicanalisi… Adesso sto scrivendo delle poesie che sto mettendo insieme a dei quadri di pittori, e non avrei mai comprato questo libro perché c’è scritto “la felicità” e io sono contenta di stare al mondo, non sono felice perché essere felici secondo me è un…, la contentezza ha un limite, una misura. Adesso lo leggerò. E poi l’idea del mercato, io non mi compro più niente perché non ho più voglia di farlo e penso che molta parte del mercato sia che la gente si sfoga a comprare dei desideri insensati.

 

TRAUDEL SATTLER: Prima si parlava della ripresa: a me è piaciuta moltissimo questa idea della mediazione come ripresa, non come una conciliazione delle cose date. Forse è quello che la Marina intendeva con energia, con lo slancio che anch’io ho sentito leggendo questo libro. Mi sono sentita molto invitata per tantissime situazioni della mia vita, a partire, ripartire. Mi è piaciuta anche molto la citazione che facevi all’inizio, che paragonava la mediazione riuscita a una consacrazione, a una festa ecc.: “Adesso sono uno scolaro”, “adesso sono…” E io dopo aver letto il libro sono quella che ha letto questo libro, non posso più far finta di non averlo letto.

 

LUCY: Due parole per la Muraro che conosco da tanto tempo ma che non conosco affatto. Il desiderio come parola e anche come concetto mi piace tantissimo perché il desiderio è vita e penso quante volte l’assurdo desidera di diventare concreto e viceversa, di quanto la scienza amerebbe essere filosofia e filosofia la scienza. Ora mio mi chiedo: questa persona che da tanto tempo conosco e non conosco affatto che è la Luisa Muraro, desidera forse Lucy che sono io essere Luisa Muraro? E desidera forse Luisa Muraro essere Lucy? È una domanda che questa sera non potevo fare a meno di pormi. Grazie.

 

LEONILDE CARABBA: Io volevo dire due cose. Una, che propongo di fare un gruppo sul desiderio. Io vengo raramente perché il mio desiderio d’artista mi prende interamente ma se si fa un gruppo sul desiderio troverò il tempo. La seconda cosa è che nella mia vita spesso l’aspetto materiale della vita è stato una frustrazione, adesso invece la mattina non posso dire che mi alzo, salto giù dal letto e faccio prima tutte le cose pratiche così me le sono tolte di torno, ma le faccio a gran carriera correndo come un cavallo al galoppo e ringrazio sempre moltissimo la mia gatta perché mi toglie il problema di cosa fare per prima perché prima cucino il nasello per la mia gatta. E la forza del desiderio è proprio essere riuscita a amare anche le cose materiali della vita. Per esempio rispetto al desiderio non posso desiderare di pagare l’affitto ma però desidero fare una grande installazione e allora per fare la grande installazione quando faccio il progetto per trovarmi uno sponsor ci metto dentro anche l’affitto e così buona notte è fatta anche questa.

 

JAIRO: Nel libro di Luisa fra i molti eventi e molti concetti c’è anche la posizione di quello difficilissimo di realtà. Non è facile trattarlo, nel libro è presente con una certa forza anche se non è trattato direttamente ma è presente in alcune spie, in alcune strutture che Luisa apre, nell’opposizione tra mercato e sovramercato, tra questo anelito che è il flusso del desidero della vita e così via e le strutture di potere che l’hanno frenato. Cosa è il reale? Il reale forse, e sarebbe interessante da approfondire, è questo anelito di desiderio che fa desiderare di essere, forse è questo il reale. E invece le grandi situazioni di mercato (anch’io sono solidale con lei che non ha più voglia di comperare niente), tutto questo mondo – la domanda che lei ha posto sul capitalismo – forse è una grande astrazione messa dentro nel reale contro la quale noi lottiamo disperatamente da molto tempo, una grande astrazione che procede come una assiomatica di ordini, di potere ecc. ecc. e che è saltata dentro nel reale, ma il reale probabilmente è questa energia, questo flusso, questo scorrere delle cose, questo anelito che malgrado il fatto che non possa eliminare il capitale continua a porsi. Io vorrei questo come problematica, ed è un problema che concerne noi oggi quando ci sembriamo presi e annientati completamente dentro il reale dell’astrazione. Ecco, il libro della Luisa propone di pensare di vivere un altro reale, un altro desiderio e lo dice, e ce lo pone.

 

CORRADO LEVI: A me piace sottolineare, Luisa, una cosa del tuo libro che mi ha colpito molto, che da un lato può essere preso come un manuale di ottimismo, una esortazione alla felicità con quasi delle parole chiave, quelle che sono state dette. Dall’altro contemporaneamente un qualche cosa che oscilla, che si disfa continuamente, che si cerca, si trova e si dissolve. Io trovo che questa duplicità, questo aspetto, come dire (una parola molto grossa), normativo, diciamo così, dell’essere, del desiderio, del comportamento e la sua instabilità invece, il suo dubbio, come si diceva prima di cercare la parola. E questo mi pare una qualità eccelsa perché bisogna tentare l’impossibile di dire le cose anche in positivo e poi c’è da dire che si disfano subito. Io credo che questo libro sia molto interessante come è condotto per questa duplicità che è un valore. Grazie.

 

BIANCA BOTTERO: Molto brevemente mi riallaccio a quello che ha detto Corrado perché questo libro io l’ho vissuto come un’opera d’arte, cioè ha uno sguardo; è importantissimo il linguaggio di questo libro perché è quello che permette questo farsi disfarsi, poi tornare indietro nel tempo poi tornare avanti, veramente è un modo molto artistico di rileggere la storia, di rileggere gli esempi. E tutte le cose che sono state dette che mi piacciono moltissimo, come questo capitalismo che sembra un Moby Dick, un fantasma nel quale siamo dentro del tutto irreale rispetto al quale cerchiamo di restare ma che ci sfugge, queste sono sensazioni appunto che si hanno di fronte a un’opera d’arte, come di fronte a un quadro, per cui esprimere dei ragionamenti troppo fermi su queste cose risulta difficile.

 

MARIANNA MOLLER: Io volevo rispondere a quanto diceva Maria su questa specie di conflitto che appare tra il desiderio nostro di persone e quello del mercato capitalistico. Pensavo, osservando il lavoro che faccio che è comunicare prodotti perché vengano venduti, che in realtà il mercato è come se desiderasse ardentemente inserirsi nel nostro desiderio, quello più profondo; quindi è come se ci fosse un dialogo perché il mercato osserva, si modifica, per inserirsi, per occupare, a volte violentemente però vuole andare proprio lì dove c’è il nostro desiderio, cerca il nostro desiderio. Il marketing parte dall’osservazione dei desideri e quindi penso che il nostro desiderio possa influenzare il mercato nell’essere osservato dal mercato, perché il mercato vuole proprio il nostro desiderio, se ne vuole impossessare, si conforma ad esso a volte. Questa è la mia osservazione dall’altra parte, come si relazionano, c’è un desiderio del mercato di essere nel nostro desiderio per sopravvivere perché sennò non ha vita.

 

TERESA: Il dirigente della mia agenzia del denaro vuole sempre farmi impiegare il denaro e io gli regalo una poesia.

 

LUISA MURARO: Ho ascoltato tantissime cose belle, anche molto generose e vi ringrazio, io accetto tutto perché naturalmente… no, naturalmente no, una volta mi schermivo e invece ho imparato che chi sono io non lo so bene, quindi quello che la gente dice di me o del mio lavoro è qualcosa che io posso benissimo non sapere. Ci sono cose che una non sa.
Quello che ha detto Marianna è molto profondo. Il mercato inventa molto meno di quello che sembra, in effetti. Quando è venuta qui Naomi Klein, ricordo che con Piera Bosotti e altre volevamo spiegarle l’idea del simbolico perché queste lotte dei no global si vedeva che stavano andando male, anche lei lo vedeva, anche lei infatti diceva “quella sarà l’ultima manifestazione”, però dopo si immaginava che con la rete sarebbe andata…, insomma anche lei percepiva che la mancata dimensione del simbolico faceva sì che questa politica si immiseriva e comunque finiva dentro a tutte le trappole che già erano precostituite o man mano preparate. Allora le abbiamo spiegato – mi ricordo proprio che si parlava di quelle scarpe che avevano la firma Nike che lei naturalmente diceva “naike” – che il ragazzo che si mette su queste scarpe ha realizzato un suo desiderio, quella roba lì è il desiderio con cui l’hanno raggiunto, perché con la forza della sua immaginazione lui con il paio delle scarpe Nike ecc. ecc. Lei è stata molto attenta a sentire. Può l’enormità del desiderio provocare una metamorfosi del mercato delle merci in altro da sé? Ecco, questa sembra essere la domanda che sul terreno della politica in senso convenzionale, almeno per me, si converte in un’altra questione, ma parallela, perfettamente parallela – e vorrei che ne parlassimo il 9 dicembre, è già in programma “Il potere e la politica non sono la stessa cosa”, che è l’ultimo libro di Diotima e lì c’è la questione, io la pongo ma anche altre. La questione è questa: è possibile che là dove ci sono i rapporti di forza trasformarli dal loro stesso interno con la forza e con la pratica della relazione in vere relazioni? È possibile questa alchimia? Perché in quel libro diciamo che la scacchiera è una sola e ci sono due giochi in corso: uno meno appariscente è quello delle relazioni e dell’amore e del cercare la qualità della vita ecc., e ci sono tantissime donne là dentro. L’altro gioco è quello dei rapporti di forza del potere ed è quella che viene chiamata convenzionalmente politica ma che invece politica non è, politica assolutamente non è. Lì c’è questa questione, parallela, mi è venuta da pensare grazie a Marianna in seguito alla questione di Maria.
Sul gruppo del desiderio non sono favorevole, ne sappiamo abbastanza perché lo trasformeremmo in un oggetto, invece è una cosa molto pratica; certamente gli antichi che avevano i misteri iniziatici riuscivano con queste loro pratiche a tracciare dei percorsi in cui le persone potevano ritrovare quel desiderio di essere, quell’anelito profondo, ma noi non abbiamo queste pratiche, io credo che dobbiamo navigare con il sottinteso, e ogni tanto si esplicita qualcosa.
Mi complimento con Corrado e lo ringrazio per la finezza di lettura – non è la prima volta che la noto – quando parla di duplicità e instabilità. Perché in effetti bisogna che io regga: questo libro è alla fine un percorso per cui ho guadagnato una modalità di scrittura, in questa modalità di scrittura bisogna che io possa reggere quello che lì è detto e io in certi momenti mi sento impari nonostante la grande potenza della lingua e nonostante che in effetti – accetto in pieno quello che ha detto Bianca – quel linguaggio è del tipo dell’arte. A questo proposito vorrei fare una piccola critica a Grazia citando Corrado. Io non ho detto che l’arte va oltre il tempo, l’arte lo rallenta, può fermarlo, cioè trasformarlo in un grande presente. Corrado ha detto che ha una forza pari a quella del tempo ed è questo che crea quella mirabile sospensione, questo per me lo ha anche la politica e anche la santità. Queste tre co-modalità possono parlarsi tra di loro e imparare una dall’altra a fare un gioco più ricco. Qui abbiamo avuto delle testimonianze. Diceva Giordana: l’aprirsi di una dimensione politica dove c’è libertà dà una compiutezza che ha, è, una potenza analoga a quella dell’arte. Insomma, come dire, rende felici, detto semplicemente: sempre con quella dimensione che poi ci si alza la mattina e c’è il momento della ripresa.
A Grazia Villa che si chiede “sono io una Teresa fondatrice di nulla?” volevo dire: non tocca a te rispondere. Anche Teresa, la vera Teresa d’Avila andava in giro per la Spagna e si diceva “sono io una fuorviata dalla mia inquietudine”, come le dicevano i suoi confessori e direttori spirituali, “che dovrei invece stare ferma” e andava in giro a fare le sue fondazioni. Non tocca a te quindi sapere se sei una fondatrice di nulla, a te tocca portare questa domanda. Cioè la tua grandezza e la grandezza di quello che fai è commisurata alla forza con cui tu reggi questa domanda, che è la capacità di reggere, non ci sono le conferme; ci sono naturalmente cose che con spirito realistico dobbiamo sapere controllare bene, ma la conferma di fondo che tu stai veramente scommettendo per la cosa che vale la pena di vivere, questa conferma non la trovi. È come volere la conferma che c’è l’aldilà, che c’è Dio, e tutte queste cose: non ci è dato, è la storia famosa del generale, le mediazioni, c’è una cosa che manca, che arriva l’ordine dell’imperatore ecc. Lì in quel punto di Sun Tzu si vede la superiorità del pensiero orientale rispetto a quello occidentale e qui qualcuna l’ha detto, non è la scienza con tutte le sue idee, no! Lo diceva Donatella. Il pensiero orientale ha un punto in cui in verità supera le nostre dimostrazioni dell’esistenza di Dio che ormai hanno fatto il tempo che hanno fatto. La vera grandezza femminile che ho visto accanto a me è proprio quella di non farsi tormentare da questa domanda.
Poi volevo dire che sulla questione della mediazione – ti ringrazio di averla tirata fuori – avrete capito che il primo capitolo e l’ultimo si chiamano. È l’enormità del desiderio, poi è la necessità della mediazione e poi è che la mediazione non è sufficiente. Questa era la tensione che c’era dentro di me, spingere al massimo e poi dire che c’è questa necessità della mediazione e poi scoprire che arriva l’ordine dell’imperatore e tu sai che non puoi obbedire ed è allora che tu dici “ma io…” Ecco. Ed è lì che siamo, non pensate chissà dov’è questo traguardo. Noi siamo lì, queste cose che ho cercato di dire sono quelle che viviamo, non è che ho immaginato altro da quello che ho: ho cercato di leggere con più forza che ho potuto e con più inventiva che ho potuto e con più calma, anche perché non bisogna farsi prendere dall’agitazione quando si scrive.
Con più intensità che ho potuto che cosa ho cercato? Di leggere quello che è stato il percorso della politica delle donne, il mio percorso nella politica delle donne in questi trent’anni, che cosa mi è capitato. E l’ho tradotto in una specie di manuale dell’ottimismo, invece è la fragile vicenda umana che è… Mi avevano rimproverato di aver scritto un libro sul Dio delle donne e mi hanno detto “ma parla di noi” e così ho scritto un libro che è uguale a quell’altro ma parla di noi. Mi chiedono quanto ci ho messo: quasi due anni praticamente, perché c’è stato un crollo, a un certo momento mi sono interrotta per il trasloco della casa e qualcosa è crollato. Allora c’è stato un lavoro di ripresa.

 

GRAZIA: Volevo ringraziare tantissimo per la serata, prima di concludere ho una suggestione che mi scappa di dire perché per la prima volta nella mia vita conosco una persona che si chiama Jairo, e Jairo è una figura retorica del Vangelo che mette in pratica l’anelito del desiderio. Lui ha la figlia moribonda, va verso Gesù, chiede aiuto, Gesù cincischia e a un certo punto gli altri dicono “ma sbrigati, sta morendo” e la strada è troppo lunga, allora Jairo dice: “Guarda, io sono uno che comanda, i miei soldati se dico andate loro vanno, tu comanda da qua la guarigione di mia figlia”, e torna a casa. Mentre torna a casa gli vengono incontro i servi dicendo: tua figlia è guarita. Quando, a che ora? Era l’ora del desiderio.
La questione del mercato mi è piaciuta tantissimo, ci penserò, perché la domanda che io farei è: il mercato quando si lascia interrogare dal desiderio, dal nostro desiderio che si modifichi? Perché il nostro desiderio è che quello capitalistico non sia così. Ci vuole un altro libro.
Sull’ottimismo, io pensando alle ragazze che incontro mi ero segnata la valutazione che Luisa fa nel suo libro anche delle imprese che falliscono, secondo me è questo il punto in cui c’è ottimismo, con queste parole che mi hanno fatto riflettere: “Ne vale la pena”. Cioè il coraggio di dire che una pena vale, è una specie di paradosso in cui le donne si trovano da sempre ma ne hanno fatto diventare una forza. E vorrei concludere leggendo questo passaggio – è l’unico punto in cui ho sporcato il libro, perché di solito non sottolineo più – dove Luisa dice come è finita, “dopo che il potere, senza faccia e senza parole, freddo e imbestialito, aveva fatto vedere di che cosa fosse capace, con una strage di persone innocenti messa sul nostro conto”. “Male dunque? No, perché a un’impresa si può partecipare in una maniera che, se anche non arrivi al risultato sperato, e al suo posto succedono invece cose amare, non ti senti defraudato e pensi che ne valeva la pena. Forse, si ha questo sentimento quando non si dà importanza al successo personale né gran peso alle proprie scelte, perché, in quello che accade, si riconosce qualcosa di destinato, e nella propria partecipazione, un’elezione prossima al caso.” E qui la parte che mi è piaciuta: “C’è poca scelta, ma una porta si apre. Non è la dedizione a una causa né la militanza in un partito. Il modo di sentire che cerco di descrivere non è estraneo ai reduci di storie di guerra, prigionia e altre avventure storiche finite male. O a quel tipo di donne” – (ecco le mie maestre che incontro tutti i giorni) – “che conducono vite apparentemente modeste, illuminate da un desiderio di grandezza che colloca gli eventi ordinari in un orizzonte più grande. Uscire da una serialità anonima che isolava, partecipare a eventi che possono diventare memorabili, insieme ad altri, altre, contare su di loro e contare per loro: in questa condizione si vive con il sentimento che ne vale la pena” [p. 109]. Ed è questa la felicità. Mi sembra di aver capito.

 

LUISA MURARO – Questa è la strada per diventare personaggi storici.

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