8 Marzo 2008

Bianco rosa verde

TRAUDEL SATTLER: Per stasera abbiamo deciso di non fare nessuna introduzione e nessun riassunto degli articoli. Aspettiamo direttamente i vostri interventi. Io sono qui solo per distribuire il microfono e per gestire gli interventi, più brevi possibili.

 

LILIANA RAMPELLO: Vi dico le mie riflessioni sul numero. Premesso che il numero è molto interessante, è interessante per me in quanto pone una questione che viene fotografata e lascia aperta la necessità di un’invenzione. Quello che a me è sembrato il punto di fondo è esattamente quanto dice Lia Cigarini all’inizio e quanto riprende in un’altra forma e in un’altra lingua Luisa Muraro nell’ultimo pezzo: il fatto di affermare che la questione maschile è lì, è evidente, ed è messa a nudo molto bene da questo numero, ma non è di per sé conflitto, e questo secondo me è un problema. Mi è sembrato il punto politico più importante, e avendo registrato in questo modo il numero, da lì è disceso l’ordine con cui ho letto gli altri interventi. Mi sembra che questo problema ritorni di fatto anche in parte nell’introduzione alle pagine sul lavoro di Giordana, quando lei sottolinea l’insoddisfazione delle donne, e a me è venuto in mente: bene, registrata questa questione che è così evidente, ci sono pratiche? quali sono? come si fa una pratica di conflitto perché la questione maschile diventi conflitto fra i sessi? Vita Cosentino – non lei direttamente ma per il grande lavoro che ha fatto per il bel video “L’amore che non scordo” che è in vendita da noi – ci fa vedere il buono, ciò che esiste, ciò che è possibile, ciò che le donne sanno fare. Lo stesso fa Marina Terragni quando indica la cura di sé e la volontà di guardare il bene invece che di vedere solo il negativo e il male (a parte un riferimento a Foucault su cui non sono d’accordo ma non è importante). La stessa Ida Dominijanni, che pure scrive un bel pezzo su una serie di questioni che arrivano fino all’aborto, ai pacs ecc., indica sostanzialmente come elemento decisivo per il simbolico il taglio: per fare la differenza, nel simbolico, bisogna fare un taglio. Questo è assolutamente vero, lo hanno dimostrato quelle che molti anni fa lo hanno fatto e così ci hanno immesso nel simbolico, ma non mi sembra che dire sic et simpliciter ad altri soggetti che devono fare un taglio sia di per sé l’indicazione di una pratica. Piuttosto è un’indicazione volontaristica: se fate il taglio riuscirete a ottenere certi risultati, se non lo fate sbagliate. Nella stessa logica ho letto le lettere, di Traudel e di Marirì, che erano riferite al numero precedente, “Preti e femministe”: anche loro sanno indicare quanto di positivo è successo a loro dopo la lettura del numero, quindi registrano un cambiamento personale, ma anche questo non mi dice niente sulla possibilità che l’altro cambi oppure su come fa a cambiare l’altro. Ammesso che Traudel e Marirì siano cambiate nel loro anticlericalismo – che peraltro io condivido ampiamente – però il prete non cambia, per semplificare il mio discorso. La stessa cosa leggo nel pezzo di Chiara Pergola. Devo dire invece che della Dobner non ho capito quasi niente ma questo è un limite mio rispetto a Teresa. Allora, io credo che discutere il numero sia discutere su quale pratica del conflitto siamo capaci di mettere in essere, come riusciamo a metterla in essere, dove la mettiamo in essere, e raccogliere i racconti sulle pratiche di conflitto, perché la fotografia della questione maschile è chiara. Qualcosa di più secondo me emerge nelle pagine sul lavoro, probabilmente perché lì il gruppo, con le sue pratiche, ci fa vedere più chiaramente che in realtà fra donne e sindacato il conflitto potrebbe esserci eccome, proprio perché si afferma che il sindacato non è più in grado di rappresentare il lavoro così come le donne lo stanno facendo, come desiderano farlo e via dicendo. La questione ritorna nel pezzo sulla carriera – è un’intervista che fa Oriella – con l’affermazione che l’equilibrismo delle donne tra i vari tempi e tra le varie forme di lavoro è sicuramente una marcia in più. Ma perché questa marcia in più non diventi una fatica, come spesso molte donne registrano, qual è la pratica possibile? E ancora la Zanuso ci presenta un lessico da cui possiamo trarre idea per conflitti possibili, ma lì viene fuori esplicitamente, ad esempio, che c’è conflitto anche sulla lingua: e come si agisce un conflitto nella lingua? Mi ero scritta questi appunti perché come vi ho detto il numero secondo me è molto importante, fotografa una verità che in modo diverso tutte sentono e tutte registrano, ma lascia aperta la questione più importante, su cui io non ho risposta: è una domanda che ripropongo a voi.

 

GIORDANA MASOTTO: Anch’io avevo preso un paio di appunti, per andare avanti sul ragionamento che ha fatto Liliana, e mettere solo quello che per me è una parola oltre, che non risolve nulla, sia chiaro, però dice forse una cosa in più. Lia scrive: “L’inefficacia della politica è da attribuirsi al disfarsi della genealogia maschile e del suo linguaggio, al mancato confronto tra la politica tradizionale e il sapere politico delle donne”. Rimane aperta una domanda che Lia fa alla fine, riportando domande che ci facciamo tra di noi: se gli uomini non prendono atto o non si assumono questo elemento di crisi come crisi loro, perché le donne, lei, non si fanno avanti? Poi, dal pezzo di Ida riportavo un punto, che ha ripreso anche Liliana: il taglio che il femminismo ha fatto all’origine, che è stato significativo per tutte, non chiedeva un riconoscimento ma spostava l’autorità dal patriarcato alla parola pubblica delle donne. Quello che mi interessa sottolineare è proprio questa “parola pubblica delle donne”. Quello che fa la differenza io credo sia proprio questo. Dopo il taglio, nel femminismo le donne sono state autorizzate – si sono autorizzate – a parlare, a pensare, a progettare, a desiderare a partire da sé, quindi creando una frattura con il mondo nel quale erano, eravamo, state allevate. Ma quello che là, nel femminismo, è successo, e in parte è continuato a succedere ma con elementi di crisi, è che i significati nuovi erano elaborati collettivamente. Allora, quello che fa la differenza è la rappresentazione delle esperienze, dei desideri che le donne fanno insieme: solo se le donne fanno insieme questa rappresentazione, la singola diventa soggetto femminile. Cioè non è l’anagrafe, non è la biologia che dice che una donna è soggetto femminile, ma è l’elaborazione collettiva di questa autorizzazione, quindi un dire le parole delle donne a partire dai propri desideri e dalle proprie esperienze. Io penso che questo passaggio sia necessario. Nel gruppo lavoro periodicamente ce lo diciamo (così come abbiamo fatto questo discorso nella politica, quando abbiamo discusso il 50e50): non basta essere donne, perché quello che trasforma le donne in soggetto femminile è che ci sia un’elaborazione collettiva. Allora questa cosa che fa la differenza, in molti luoghi, per esempio nel lavoro, noi verifichiamo che molto spesso è la vera mancanza, perché la cosa che verifichiamo più spesso è la solitudine delle donne. La solitudine non è tanto che le donne vivano profonde contraddizioni che non vengono risolte dal portare sulla scena pubblica attraverso il lavoro la loro intera esistenza, la fantasia che fanno su di sé in quanto donne, l’autorizzarsi, il partire da sé, la realizzazione di sé… ma è il fatto che tutto questo viene vissuto in una mancanza di riferimenti collettivi, che sono quelli che trasformano l’autorizzazione di sé in fatto politico.

 

TRAUDEL SATTLER: Come avete visto le redattrici della rivista e le autrici del numero sono sparse qua e là nel pubblico…

 

VITA COSENTINO: Io volevo interloquire con Lilli. Sono d’accordo sulla questione maschile. Sulla questione che tu hai posto, anche un po’ tirandomi dentro, io ho colto altre cose nel numero, e mi rifaccio a un passaggio del pezzo di Luisa “Le camere e il container”, quando dice: lì è capitato qualche cosa, questa volta la polizia – uomini – non ha fatto come faceva vent’anni fa, ha ascoltato questa donna ecc., e però poi non è questo che viene fuori dai giornali. Lo stesso aspetto viene fuori dall’articolo sull’università di Bologna, dove assistiamo a una realtà quasi impensabile in un’università italiana, che ci fa dire che l’università può essere anche altro: lì c’è un rettore – maschio – che dice parole molto significative sulle Madres. Oppure il pezzo che hai citato, della Comencini, “Le facce di quelli che non fanno notizia ma fanno miracoli”, sul film “L’amore che non scordo”. In tutti e tre gli articoli si vede un taglio rispetto al buonismo, perché non dicono “ci sono le cose buone e poi c’è tutto il resto”, fanno invece una praticabilità di cose che capitano davvero e le rendono dicibili, proprio perché danno loro realtà. A me sembra insomma che troppe cose siano a ridosso, per esempio della “moratoria”…, e invece in questa società che è davvero cambiata ci sia molto anche questo aspetto. Distinguerei nettamente una classe politica maschile – ho cercato di farlo nella mia rubrica, citando anche Alberto Leiss che l’aveva già criticata parecchi numeri fa – dagli uomini che stanno nella società e si muovono diversamente. Non dico solo quelli che esplicitamente stanno riflettendo sul maschile, ma anche quelli che se una donna propone la laurea honoris causa alle Madres de Plaza de Mayo ci stanno e ne fanno una cosa significativa. C’è anche questo aspetto, di un’autonomia femminile che si gioca nella realtà.

 

LIA CIGARINI: Nel mio testo ho parlato di questione maschile non perché pensi non ci siano uomini che tutto sommato agiscono bene nella politica e nella società. Io la chiamo “questione”, così come si parlava della questione femminile, della questione meridionale, della questione cattolica. Cioè non c’è una presa di coscienza degli uomini come uomini in rapporto alle donne. Quindi, Vita, è questo il problema. Ci sono inizi di cambiamento perché ci sono dei gruppi, ma si tratta di gruppi: nella società non è senso comune che ci sia una presa di coscienza degli uomini, come dicono i giornali, “in quanto uomini”. È una mera questione, come si dice. Naturalmente senza questa presa di coscienza, Lilli, non è possibile un reale conflitto, perché viene rimandato a dei ritardi: che la società italiana sarebbe in ritardo, che il modello sarebbe quello dell’integrazione delle donne e forse si riuscirà a farlo… Non c’è una presa di coscienza di parzialità degli uomini, e di confronto con le donne, tant’è che non c’è un confronto politico sulla pratica delle donne. Io vorrei chiarire questo: che l’esistenza di una questione maschile vuol dire che manca questa presa di coscienza.

 

LILIANA RAMPELLO: Io però volevo appunto dire, sulla presa di coscienza maschile, che se noi non vogliamo descrivere ciò che esiste – sulla descrizione possiamo essere molto d’accordo, in forme diverse ognuna di noi forse lo ha già anche detto, in altri momenti – il problema è che non vedo come, se non all’interno di una pratica di conflitto, può sorgere questa coscienza.

 

LIA CIGARINI: Abbiamo metà del femminismo e del movimento delle donne che dice che c’è il patriarcato, quindi dire che gli uomini sono alla frutta è un cambiamento di prospettiva politica. Incominciamo a dirlo. Perché il conflitto e le invenzioni politiche nascono quando tu ti sposti giustamente e ti collochi in modo da parlare con significato. Allora, dove invece di fare leva su una forza femminile che esiste, sia pratica che simbolica, ci si presenta come vittime, è già qualcosa dire che siamo di fronte a uno sgretolamento della struttura simbolica maschile, che non c’è trasmissione simbolica tra padri e figli, tra varie generazioni di uomini. Non si tratta di inventarsi dei conflitti. Abbiamo un conflitto interno al movimento delle donne. Se tu dici “non c’è affatto il patriarcato, c’è addirittura una questione maschile, le donne hanno disfatto il patriarcato e il problema è che questi prendano coscienza che il patriarcato, con la sua struttura simbolica, non c’è più”, già per dire questo ti scontrerai con un mucchio di donne prima di confliggere con gli uomini.

 

GIORDANA MASOTTO: Visto che è stato ripreso il discorso, io penso che in questa situazione generale di crisi, che è certamente una crisi dei valori maschili, quello che succede è che anche da parte delle donne, proprio perché come dicevo prima non c’è una assunzione di soggetto femminile in quanto soggetto politico collettivo, c’è una sorta di sogno di grande neutro che coinvolge entrambi, uomini e donne. Penso che ci sia questo nel modello che tende a dire “c’è ancora un po’ di aggiustamenti da fare, ci sono ancora ostacoli da superare…”, come dire: c’è una sorta di perfezione da portare avanti, però il cammino è intrapreso, verso un neutro in cui né gli uomini né le donne hanno più bisogno, necessità, di definirsi in quanto uomini e in quanto donne, portatrici e portatori di soggettività diverse. Allora, l’affermazione di queste due soggettività nel sociale è quello che potrebbe creare non so se il conflitto, certamente anche un conflitto, certamente una proficua dialettica. Quello che succede nella versione “pari opportunità”, è che ritengono – e questo lo si sente anche nei discorsi, nei giornali, in molte donne – superato, veterofemminista, il riferimento a sé in quanto donne, perché il passo fondamentale è già stato fatto e quindi si tratta solo di fare qualche aggiustamento. Come se il problema fosse di creare un unico grande neutro che ci rappresenta in quanto cittadine e cittadini, non so come chiamarlo perché non esiste una desinenza neutra, che sarebbe il nuovo soggetto sociale, in cui tutto viene mescolato ma in cui si cancellano le diversità. Allora, io penso che il problema di fondo sia creare delle vere soggettività politiche.

 

CLARA JOURDAN: Solo una cosa. La questione maschile era già stata nominata, il fatto è che non viene mai assunta. È stata nominata nello stesso momento in cui è stata nominata la fine del patriarcato, non a caso, per cui sono d’accordo con Lia che sia legata alla fine del patriarcato. C’è stato un numero di Via Dogana, nel 1995, intitolato “La questione maschile” e il numero successivo era intitolato “La fine del patriarcato”. Però mentre il discorso della fine del patriarcato è stato ripreso, discusso, c’è chi dice che non è finito… ecc., la questione maschile è restata sempre in sospeso, e questo appunto per mancanza di interlocuzione da parte degli uomini. Quindi è come se fosse sempre una novità la questione maschile.

 

MARISA GUARNERI: Volevo dire che sono visceralmente d’accordo con Lia, mi viene dal profondo. Perché penso che sia proprio così, che gli uomini sono alla frutta, e lo vedo dal mio osservatorio, la Casa delle donne (parto sempre da lì, ma è la mia quotidianità). Nel senso che questa libertà delle donne produce disastri. Il problema è che poi le donne, anche quando sono consapevoli dei rischi che corrono, sono indecise. Questa è la cosa che noi verifichiamo nei colloqui [con le donne maltrattate] e che secondo me succede anche in politica. Cioè, che pur sapendo il rischio che corrono, sono indecise, non se la sentono fino in fondo di allontanarsi, o perché vogliono vincere – il famoso vecchio discorso: non lo vogliono mollare questo conflitto, anche se sono perseguitate, per cui vanno avanti a confliggere anche a loro danno – oppure non ne hanno le forze. Allora per trasposizione mi sembra che effettivamente il vero conflitto sia con le donne che non hanno la forza di dire che siamo in questa situazione, perché ne hanno vantaggio, per certi versi, o perché non hanno coraggio o perché vogliono vincere sullo stesso terreno. Che poi si perde sempre, come si vede anche in questa tornata elettorale: vedo tante donne arrabbiate perché non sono state messe in lista… Effettivamente è questa la questione, del considerare solo uomini gli uomini, però anche da parte delle donne.

 

STEFANIA GIANNOTTI: Tu sei visceralmente d’accordo con Lia e io sono visceralmente d’accordo con te. Nominare la questione maschile sicuramente è un discorso rivolto agli uomini ma secondo me è anche altrettanto importante che è rivolto alle donne della politica, perché le smuove… almeno lo speriamo! Mi ricordo una riunione di tempo fa dove c’erano appunto donne della politica, delle pari opportunità ecc., a un certo punto mi sono detta: ma che cosa bisogna fare? Forse – ho detto a Lia – bisogna insultarle. Bisogna smettere di farle venire qua e far finta che c’è un conflitto, perché poi questo conflitto è sempre annacquato. Ecco, il fatto di nominare la questione maschile così come è nominata nell’ultimo numero di Via Dogana secondo me è la speranza che il conflitto si apra, prima con le donne; subito direi, perché non possono evitare ancora una volta questa questione. Cioè non possono non capire che per quanto riguarda almeno noi non c’è più l’asseverazione di una politica che nomina la questione femminile, ancora una volta, che non c’è, non nominando quella maschile. Se no devono dire perché. Se no devono dire esplicitamente un desiderio, un potere, un qualche cosa, non possono continuare a far finta di venire qui a cercare un accordo con una politica che è altra, profondamente altra. Insomma, nominare questa questione secondo me è fondamentale. Se non si apre con le donne questo conflitto non si può aprire neanche con gli uomini.

 

SILVIA MOTTA: Su quello che poneva Liliana, che manca un’articolazione su come poi fare a portare avanti le cose di cui si parla qui, a me pare che dal numero vengano fuori due tracce di lavoro. Una è il discorso dello schivare, che riporta a questa faccenda della questione maschile. Io credo che uscire dal rapporto malato a cui ci vorrebbe ricondurre la politica maschile, gli uomini, il patriarcato, sottrarsi a questo rapporto sia un lavoro, non sia molto semplice. Ed è già una politica. Allora forse bisognerebbe capire qui cosa vuol dire fare una politica dello schivamento, lo chiamerei così. Un esempio: sottrarsi alle sirene; un sacco di gente cade nella trappola di stare a discutere, a perdere tempo della sua vita su sciocchezze e cattiverie sull’aborto. Schivare queste cose può voler dire che bisogna farci un pensiero per riuscire a intervenire in qualche maniera. Spesso è già una risposta il silenzio, ma magari bisognerebbe farlo diventare un silenzio che parla un po’ di più, tipo che quando dicono cose sull’aborto che noi sappiamo non essere vere, facciamo un comunicato con scritto bello in grande il testo che avevamo scritto dieci anni fa, e basta, però lo facciamo pubblicare su tutti i giornali. Cioè un silenzio che riesce a riportare che c’è stata una voce. Comunque, la prima traccia che io vedo in questo numero è andare a fondo su cosa significa schivare. E l’altra è cosa significa contemporaneamente dare voce. Perché se è vero che i valori maschili e il patriarcato sono alla frutta – sono pienamente d’accordo, sono veramente allo sbando, lo vediamo proprio in tutte le situazioni, come una mancanza di coerenza, di riferimenti, è veramente una situazione un po’ sbandata – dall’altra, da parte nostra, come donne, credo che quello che possiamo fare è proprio questo discorso del dare voce alle cose nuove. Un esempio: le riflessioni sul lavoro sono un dar voce a quello che sta accadendo nell’ambito del lavoro che necessita proprio di starci sopra, cioè di parlarne, di capirci qualcosa, di confrontarsi, perché non è mai stato fatto prima e perché c’è una situazione completamente nuova. Quindi vedo due piani di lavoro piuttosto complicati, che però ci sono, forse bisognerebbe capire di più cosa significa in pratica tradurre in una politica l’una e l’altra cosa. La seconda, il dare voce, c’è abbastanza, qua: l’importanza della narrazione, che è da lì che viene l’elaborazione, è una parte di questo discorso. Trovo meno suggerimenti sullo slalom, lo schivamento.

 

FAUSTA: Non sono mai venuta e non ho mai letto il vostro giornale. So che c’è un articolo di Ida Dominijanni che mi avrebbe moltissimo interessato, però non ho fatto in tempo a leggerlo e me ne dispiace perché probabilmente sarei riuscita a entrare nel merito della questione molto meglio. Volevo sapere come questo gruppo di donne che mette a fuoco la questione femminile, come si rapporta poi alla politica. Si rapporta bene, suppongo, se la Ida Dominijanni scrive sul giornalino. Perché ridete?

 

LUISA MURARO: Questione femminile o maschile?

 

FAUSTA: Questione femminile, suppongo.

 

LUISA MURARO: Come, supponi? Qui abbiamo parlato della questione maschile…

 

FAUSTA: No, no… Sì, sì, credo sia chiara la cosa.

 

LUISA MURARO: No, non è chiara.

 

ANTONELLA NAPPI: Per politica, stai parlando della politica degli uomini. Ma qui stiamo discutendo che non equivale alla politica. Era per chiarire il problema, che è un po’ grosso.

 

FAUSTA: Non ho capito, allora. Però continuo un attimo, tanto penso che se vi prendo cinque minuti non succede niente, no? Il problema è se può essere per voi una cosa a cui avete pensato, certamente ci avete pensato, ma se la rifiutate o no, quote rosa o non quote rosa, e in che numero. Cioè, voi sapete che alcuni partiti si propongono l’inserimento del 50 percento, che poi viene eluso… Però a questo proposito, so di una esperienza norvegese fatta nel 2006, quindi recentissima, dal governo di centrosinistra che ha introdotto non al governo ma per esempio nei consigli di amministrazione delle fabbriche, il 40 percento delle donne, e questo sembra stia veramente facendo la rivoluzione in Norvegia, creando una serie di grossi problemi. Naturalmente poi si ribalterà, suppongo, a livello politico, cioè l’elezione del 40 percento delle donne all’interno del parlamento. Queste per voi sono cose importanti o no? Sono cose a cui bisogna tendere, che bisogna assolutamente cercare di raggiungere o no? Ecco, vorrei un chiarimento. O sono completamente fuori dalla vostra discussione, per cui chiudo la parentesi e basta.

 

LUISA MURARO: Della Norvegia si è parlato anche per un’altra ragione, e cioè che la Norvegia ha dovuto introdurre le quote a vantaggio degli uomini, perché in molte situazioni gli uomini vanno in minoranza catastrofica. Quindi la questione l’avremmo impostata in questi termini, che in realtà quote di qua o quote di là la perfetta parità non si raggiunge tra i sessi. Perché c’è una asimmetria che fa sì che quando si avvantaggiano, come hanno fatto seriamente, ma da oltre vent’anni, in Norvegia dove le donne in parlamento sono…

 

FAUSTA: …il 17 percento.

 

LUISA MURARO: Se le donne norvegesi sono il 17 percento in parlamento (visto che lei è così bene informata), abbiamo paura per gli uomini e per la democrazia parlamentare che le donne stiano sdegnando i parlamenti e dunque che le cose stiano andando in una direzione dove sarebbe suicida per le donne svenarsi per andare in una istituzione che le norvegesi che hanno tutte le facilitazioni di questo mondo rifuggono a gambe levate. Questa è la nostra posizione. Cioè la questione cerchiamo di vederla in modo che le donne non siano le eterne crocerossine della prima guerra mondiale, che andavano a soccorrere le baracche e le guerre insensate e i poveracci che in queste guerre insensate perdevano gambe, braccia e testa. La posizione che più o meno abbiamo è un disincanto verso questi miraggi di parità, che quando ci si arriva vicino si rovescia e il problema diventano gli uomini, come già sono dal punto di vista della scolarizzazione, come è noto; miraggi di parità che quando vanno bene le cose si scopre che siamo lì a fare appunto le crocerossine.

 

FAUSTA: L’alternativa?

 

LUISA MURARO: Lungo tutto il pensiero politico del secolo appena passato – un secolo che ha posto tantissimi e drammatici problemi, che ha visto il fallimento della borghesia con la prima guerra mondiale e il nazifascismo, e il fallimento, per molte qui forse più doloroso, dei progetti di comunismo – ci sono stati alcuni spiriti lucidi, donne e uomini, i quali e le quali hanno capito che il grave problema era di tendere alla conquista del potere e che la questione era invece, ed è, e molte di noi qui sono d’accordo con questo, di disfare la macchina del potere, e disfarla attraverso pratiche che sono di carattere simbolico. Del resto, lo stesso capitale sa benissimo l’enorme valore del fatto simbolico, anzi ne ha fatto ormai il suo gioco, perché di reale, di sostanziale, il capitalismo odierno ha ben poco ed è molto invece una costruzione simbolica. In parte con le carte truccate ma in parte no. L’enorme importanza che ha la comunicazione, la pubblicità, mostra l’enorme importanza che il potere economico, che di sostanziale ha sempre meno, dà alla cosa. Quando c’è stato un problema gravissimo che si è posto negli Stati Uniti, il “Wall Street Journal” è uscito con un titolo in prima pagina: “La fiducia, un bene che non si compra”, perché c’erano imprese che avevano perso la fiducia degli investitori e questo aveva provocato crolli a catena, e quindi attirava l’attenzione dei pensatori e degli operatori sul fatto della fiducia. La fiducia è una delle cose su cui noi stiamo lavorando e abbiamo lavorato, e le pratiche politiche nostre sono di questo tenore. Cioè noi seguiamo una nobile e inascoltata tradizione del catastrofico XX secolo di disfare i dispositivi del potere, e perciò siamo orientate a NON portare credito al potere. Il potere ha tre volte più potere per il credito che ha avuto, che continua a avere, e dunque la nostra politica delle donne è proprio fatta per disfarlo, e disfarlo in concreto, anche nelle situazioni in cui siamo. Quindi, non accreditare il potere con i nostri desideri di arrivare anche noi ad avere la nostra bricioletta di potere. I movimenti comunisti, generosissimi, che si sono spesi ecc., avevano questa impostazione teoricamente e praticamente sbagliata che dovevano conquistare il potere, e sono finiti nel disastro che conosciamo.

 

ANTONELLA NAPPI: Però rimane sempre da chiarire meglio i termini delle questioni. Che ci sia un desiderio di riconoscersi tutti quanti in un discorso, in un funzionamento, in un mondo… io direi che è proprio vero. Cioè continuiamo a incocciare in un bisogno che hanno le persone di riconoscersi comunità, di riconoscersi in valori e discorsi. E dunque, chiarire che non c’è un modo solo di fare le cose, che non ci sono valori acquisiti giusti e buoni per tutti quanti, ma c’è conflitto sul modo di far le cose, sui valori, sui desideri, sulle capacità, sulle necessità… è ancora molto da fare. Io sento che i discorsi astratti, teorici, sono meno chiari che entrare nel merito di tante questioni. Allora, il fatto che ci sia una politica degli uomini e una politica delle donne è sempre da raccontare, documentare e commentare. Perché non è così chiaro per tutti. Mi riconoscevo molto nel discorso di Silvia, non so entrare nel merito neanch’io, però noto che molte donne – o nella pratica di vita per metà tutte le donne – continuiamo a pensare e a riconoscerci in un mondo solo, che fa schifo ma che non viene esplicitamente contraddetto con pratiche diverse anche teorizzate e documentate. Insomma, è esile chi racconta e fa presenti altre necessità da quelle vigenti. Ecco, io trovo che nella velocità, nella tecnologia, nella sanità, insomma in cose che sono completamente da criticare, ci si tenda ancora a riconoscere e dunque si continua a inseguire una politica degli uomini che fa schifo, perché non è chiaro quali alternative. Siccome appunto c’è un desiderio di riconoscimento, il disfare il potere, il fare ciascuno una piccola cosa, il non avere visibilità evidentemente nuoce. E dunque un problema c’è.

 

LUISA MURARO: Non starai mica parlando di quello che ho detto io? Io ho detto disfare il potere, non ho detto riconoscersi nelle piccole cose e finire nell’invisibilità. Sono io una donna invisibile forse? Io parlo per disfare il potere in modo che quello che è intelligente e giusto, ben fatto, faccia luce intorno a sé. Mentre questo finché e dove valgono le macchine del potere, sappiamo bene che si dà solo se c’è un interesse preciso di chi nei rapporti di forza vince. Disfare il potere non è ritrarsi nella marginalità. Si tratta di fare scommesse: io scommetto per una politica del simbolico, e la scommessa mi preoccupo anche di vincerla passo passo. A quelle che aspirano a una piccola quota di potere, come sta avvenendo anche nella corsa elettorale in corso, dico, come abbiamo sempre detto: se ti piace, se ti gratifica, se ne hai bisogno, lo dici, io ti sosterrò, molte di noi ti sosterranno. Rosi Bindi, per esempio, molte di noi la sostengono, perché lei è limpida su questo, è netta, non cincischia, dice che vuole andare lì per difendere il sistema di sanità così com’è in Italia e quindi le diamo credito, siamo d’accordo e molte la votano, molte sono andate anche alle primarie a suo tempo per darle questo sostegno. Dunque si tratta di essere cristalline, di fare passo passo – dal film “L’amore che non scordo” alla rivista “Via Dogana” all’andare in televisione quando pensiamo ne valga la pena – su una scommessa in grande. La scommessa in grande è di disfare la macchina del potere che sta massacrando l’umanità e le cose giuste che tanta, tanta gente sente, vive e propone. È una scommessa, certo. Gli altri scommettevano su conquistare il potere e hanno perduto tutto, perché sono diventati peggio della macchina del potere per riuscire a conquistare il potere, più stolidi e più tutto, noi abbiamo la scommessa di questa politica del simbolico e la facciamo. Quindi sono d’accordo, Antonella, con quello che hai detto sul fatto che ci sono vari modi di vedere le cose, ma se una donna viene a dirmi “voglio anch’io la mia particella di potere”, io mi sento di poterle dire quello che le ho detto: non ha una visione del mondo, sta cadendo in un giochetto, in una trappola. Certamente se mi dice “ma io ho bisogno, per me, di quella cosa lì, e la voglio per queste e queste ragioni e ti chiedo di sostenermi”, io la sostengo. L’abbiamo sempre detto, del resto. Ma non è “visione del mondo” che una voglia le quote rosa. Una che vuole le quote rosa è chiaro che sta, come dire, autoingannandosi o è stata ingannata su una questione di parità, fa la figura di una miseria simbolica nei confronti di un mondo maschile dove tanti sono sempre più convinti che c’è nella differenza femminile qualcosa di molto importante, e quindi chiedere quote rosa per sé è proprio miseria simbolica. Io lo devo dire, e penso che anche tu lo debba dire, non puoi indorarla come “tanti modi di vivere il mondo”, con tutto il rispetto che si deve a tutti quanti e a tutte le idee; ma il rispetto che si deve a un’idea è anche di confrontarsi apertamente e chiaramente.

 

FAUSTA: Io credo che il potere di fare le leggi sia una cosa fondamentale, in tutti i sensi.

 

LIA CIGARINI: Io sarei contenta stasera se si riuscisse a parlare del punto posto anche da Marisa, cioè l’incertezza. È chiaro che se si parla di una questione maschile, cioè di una crisi di civiltà e della necessità di un salto di civiltà, cerchiamo di interrogare noi stesse sulla incertezza femminile di assumersi il mondo. Perché questo è il punto della questione. Dove ci collochiamo noi? Se parliamo di una questione maschile è chiaro che è un’assunzione di una centralità del pensiero e in certo qual modo anche della pratica politica delle donne. Io noto una reticenza, Marisa parlava di incertezza, Giordana di una non volontà collettiva, di assumersi questa (uso una parola che di solito non mi piace) responsabilità del mondo, perché se dicia che c’è un crollo di civiltà è chiaro che devi essere disponibile ad assumerti il mondo. Allora a me piacerebbe oggi vedere quali sono le ragioni dell’incertezza, della reticenza. Io finivo il mio testo dicendo: Lui è in queste condizioni, ma lei dove si colloca, cosa dice in questa situazione? Sono d’accordo con Silvia quando ha detto che il gesto iniziale del femminismo è stato quello di schivare, di mettersi da un’altra parte, altrove, e parlare altrimenti. Questa azione che hanno fatto le donne ha disfatto il patriarcato; a questo punto, certo bisogna schivare le stupidaggini – quello sempre, e io trovo invece che ci sia una reattività sulla 194 eccessiva e ci si dovrebbe occupare d’altro – però adesso siamo al centro, questo è il punto. A me piace parlare di pratica politica, però capisco anche c’è reticenza. Come dire? Assumersi il mondo fa anche paura. Presentarsi come vittime è sempre una posizione di comodo, rassicurante. Possiamo stasera, che siamo qui in tante, e anche impegnate da tempo, vedere se – e sono d’accordo con Giordana – collettivamente riusciamo a formulare qualcosa?

 

MANUELA ULIVI: Hai parlato di paura mentre io stavo pensando proprio lo stesso. Magari dico una sciocchezza, la dico nel mio piccolo dell’esperienza che nasce sempre dalla Casa delle donne. Ho come l’impressione che parlare di questione maschile faccia paura alle donne perché mi vedo quasi la donna che ho davanti quando faccio la mia attività, come quella che si preoccupa della questione maschile. Cioè, messo a nudo un maschio, in tutte le sue povertà, in tutte le sue mancanze, non riesce a fare il passo successivo, di prenderne atto e di buttare a mare anche una certa esperienza. È come se volesse assumersi lei stessa quella questione, come una onnipotenza, non so come dirlo; tutto ritorna a noi, anche la persona di cui tu non ti dovresti più occupare, che ti ha fatto del male. Ti poni il problema: “Se io faccio tutti questi passi, lui dove va, che cosa fa, sarà capace?” Come se ci spaventassimo della questione maschile, cioè di un’incapacità messa a nudo dalla nostra capacità di assumerci certe situazioni e di prenderci anche la libertà.

 

VITA COSENTINO: Siccome è stata ricordata prima da Silvia e poi ripresa la questione del separatismo, del gesto di allora, mi è tornato in mente che oggi sul “Manifesto” c’era un bellissimo inserto (secondo me) con un pezzo di Chiara Zamboni che ritornava su quella questione per dire: è vero, è più di dieci anni che abbiamo detto “non è più così”, però quel muro c’è ancora (ve lo dico con parole molto più semplici). Lei ipotizzava che quel muro è anche che dobbiamo fare i conti con un risentimento maschile legato alla vicenda del separatismo. Volevo mettere anche questo nel dibattito, perché mi sembra faccia parte del problema.

 

EMANUELA MARIOTTO: Sul discorso del disfare il potere, io ho avuto un’esperienza, ormai di un po’ di anni fa però mi sembra sempre valida, quando facevo pratica della differenza in sindacato, con un gruppo di insegnanti, insieme a Giulia Ghilardini e altre, dove cercavamo appunto di fare un discorso di soggetti liberi, nel sindacato; non ce ne importava granché di tutte le logiche che c’erano, le spartizioni tra i partiti… Noi prescindevano da questo e facevamo un discorso nostro di libertà. Certo, il potere sindacale è un po’ diverso dal potere economico, dal potere politico, però io di questo ho esperienza. La mossa che era stata fatta nei nostri confronti era, da un lato, di contrapporci il coordinamento delle donne, e dall’altro di farci entrare negli organismi dirigenti, che è una classica mossa di inclusione. Noi abbiamo rifiutato, abbiamo detto: noi stiamo qui però facciamo un nostro percorso. Poi l’esperienza si è conclusa, secondo me anche con errori nostri, probabilmente, però chi ci indeboliva in realtà non era il conflitto con i maschi del sindacato, erano le donne del sindacato, che avevano una paura tremenda. Nel momento in cui ci affermavamo in maniera libera con i nostri desideri, con le nostre intenzioni, con i nostri progetti, queste si ritiravano, scappavano: “Eh, ma l’organizzazione… non si può… bisogna tener conto di questo, di quello…”. Allora, è vero che c’è la questione degli uomini, anche loro si ritirano, pur di non assumersi la parzialità scappano, si defilano, però le prime con cui inevitabilmente si entra in conflitto sono proprio le altre donne.

 

LILIANA RAMPELLO: Solo una precisazione sulla questione del prima le donne o prima gli uomini: se c’è presa di coscienza, in un uomo o in una donna, bene; se non c’è, per me si equivalgono. Non è che prima devo confliggere con una donna che non ha coscienza e dopo con un uomo. Non riesco bene a capire questa specie di gerarchia che poi di fatto non si dà mai nella realtà, nelle cose che viviamo. Quello che mi è venuto in mente, invece, ascoltando Silvia e Giordana, è un’altra cosa. Giordana parlava di una mancanza di riferimenti collettivi, di una solitudine per questo, Silvia indicava quello che secondo lei già c’è – e sono d’accordo soprattutto nelle pagine del lavoro, non a caso – su quali strategie possibili. Entrambe mi hanno fatto vedere come a noi manchi probabilmente uno specchio. Intendo per specchio la necessità che abbiamo oggi non solo di disfare il dispositivo del potere, perché una società femminile forte c’è, un protagonismo sociale femminile c’è: forse quello che abbiamo di fronte è un po’ più sfuggente, perché il dispositivo da disfare è il dispositivo della comunicazione. Se ogni volta che diciamo A veniamo poi tradotte in B, e se ogni volta che si deve raccontare A si sta raccontando con le parole di B, quello che c’è di vero, di importante, quello in cui un’altra può trovare il proprio specchio e quindi anche la propria forza, viene distrutto. Allora, io sono assolutamente convinta che il patriarcato è finito, ma ritengo che dal punto di vista della comunicazione siamo in un momento molto ma molto più drammatico perché sento molto più forte un pensiero unico, in questo disfacimento. Anni fa c’erano in effetti più linguaggi in circolazione, e meno traduzioni immediate e uniche. Quindi credo che un terreno di conflitto vero e reale con donne e uomini sia quello della comunicazione pubblica.

 

MARISA GUARNERI: Stiamo cercando di fare delle riunioni alla Casa delle donne maltrattate per riflettere sul cambiamento nella relazione con le donne che accogliamo. Io comincio a pensarla come una “pratica politica del colloquio”: delle cose sono cambiate, stanno cambiando, nel nostro modo di accogliere, negli strumenti che utilizziamo, e ci stiamo riflettendo. E non a caso da un po’ di tempo a questa parte, cioè da quando abbiamo cominciato con le donne a fare il lavoro di rendersi consapevoli degli elementi di rischio (di cui ho già parlato) e quindi di avere in mano degli strumenti, non di aspettarli da altri, per dire “questo è il momento di allontanarsi”, perché si creano queste condizioni, io lo posso verificare, uno più uno più uno dice “andare”. Questo però non succede. Cioè, non è che non succede… Per esempio, c’è stata una donna, che infatti mi ha un po’ spiazzato, che dopo una serie di colloqui con Maria Grazia e con un’altra nostra psicologa che si chiama Gabriella, un bel giorno è venuta lì e ha detto: “Adesso basta, ho deciso, vado”. Lei da sola con tre bambini: mi ha preso un colpo! Questione risolta, è andata bene, però lei ha fatto una svolta, dopo anni e anni. In altre situazioni in vece ti dicono “hai ragione” però tengono una relazione, a mo’ di punchingball, per cui a volte si avvicina a volte si allontana però non cambia, non c’è lo spostamento. Altro momento, questo dell’indecisione, cioè del capire come stanno le cose, però del non riuscire a prendere la decisione. Se ne parlava anche l’altra volta rispetto al discorso del pro-choice che dicevi tu Lia, che prendere una decisione è un passaggio importante; non è facile dire chi ti legittima a prenderla. Io dico “l’altra donna ti legittima, noi…” A me sembra che le donne ti chiedano una garanzia, che nel momento in cui prendono una decisione comunque tu le copri, sei tu la soluzione, in qualche maniera. Mi sembra che questo succeda anche nella politica delle donne, cioè la pratica politica della differenza piace, ma apparentemente non ti dà la garanzia, perché ti chiede di spostarti in un’altra posizione. Ho fatto due o tre dibattiti sull’aborto, parlando di depenalizzazione me ne sono resa conto: tu chiedi uno spostamento che è troppo insicuro. Stiamo discutendo proprio su questa questione. Non so quanto di quello che dico potrà essere utilizzato, ma nel momento in cui apri un discorso di sostegno alla decisione, devi avere già in mente il progetto, cioè devi costruire insieme a lei la soluzione. Quello che dicevi tu delle strategie. L’ultima cosa che volevo dire è riguardo alle donne delle istituzioni: relazionarsi e confliggere nello stesso momento è una cosa complessa da fare, anche se molto fruttuosa, porta tanto di esperienza e anche di valore di sé, però bisogna avere tanta attenzione, è un lavoro, una fatica.

 

LUISA MURARO: Stamattina alla scuola di scrittura si è parlato di questo di Via Dogana e ho scoperto l’esistenza di una rabbia femminile, logorata e logorante per chi la porta, nel risentimento di donne dovuto all’acquiescenza – perché sono isolate, sole, non hanno idea di come poter fare, per tanti motivi – verso strutture, volontà, decisioni di uomini. Infatti c’è stata una specie di reazione irritata al discorso della Cigarini, soprattutto all’ultima domanda, che tra l’altro era fatta da me a Lia, mentre era anche interessante un’altra posizione di chi pensava che tirar fuori la questione maschile sia un modo per evitare la grande incertezza femminile. Ascoltando, sia questa mattina sia qui stasera, io mi sento di spiegare qual è il mio atteggiamento. Siccome noi ragioniamo, lavoriamo, pratichiamo per conto delle donne, e le donne sono tutta l’umanità, a parte quella maschile, e hanno interessi, volontà, desideri disparati e via dicendo, è chiaro che le donne impaurite, le donne rabbiose, le donne che soggiacciono, le donne che si isolano, quelle che non hanno veramente collegamenti, sono questa umanità, e quindi la politica che facciamo – fare la rivista Via Dogana ecc. – è per forza estremamente buia, lenta e gravata da incertezza, dal non vedere, dal non risolvere, dal non darci tutte le soddisfazioni che vorremmo. Per forza di cose, perché si tratta di far muovere qualcosa che è in movimento – noi vediamo giusto, si sta muovendo – ma non in una maniera solare, come un bell’esercito nel campo di battaglia alle prime luci dell’alba che avanza o come la gloriosa fila degli ebrei con il loro Mosé sul mar Rosso che si apre… No, è una cosa che sfugge, come dire?, anche a noi: leggiamo, vediamo, riconosciamo, andiamo a tentoni, e secondo me siamo andate molto avanti in tante situazioni differenti. Oggi ricevevo un messaggio dall’Argentina, da Buenos Aires: delle analiste volevano riunirsi e chiamavano i colleghi per ripensare la psicoanalisi perché tante cose sono cambiate, una delle cose che dicevano era il femminismo della differenza, e mettevano tutte le questioni che bisogna porre. Il lavoro che si fa e che ha riscontri che arrivano ogni tanto è fatalmente gravato da un punto di domanda, enigma, insomma una rinuncia al trionfalismo, all’appariscenza… che non pesa se intanto una sta facendo delle cose e vede che camminano, perché queste cose poi camminano. Mi sentivo di dire questo, perché prendiamo una giusta misura delle aspettative: le mie aspettative sono grandissime, ma proprio perché sono grandissime sono anche realistiche, e si tratta di guadagnare un terreno… Intendiamoci bene: quando sento, leggendo un documento di Antonella – ascolto volentieri Antonella, ha scritto anche un bellissimo testo per Via Dogana – che lei soffre di questo mondo per via della follia antiecologica e per via dei consumi, degli sprechi ecc., allora io devo precisare che la politica che ci fa arrivare qui riguarda la libertà femminile, né più né meno. Se la libertà femminile salverà l’equilibrio ecologico del mondo, ben venga, se farà finire le guerre, ben venga, ma si tratta – ed è una cosa direi quasi ascetica – di sapere che si tratta della libertà femminile, della libertà del comune delle donne, la vicina di casa, la collega, la sindacalista ecc., e poi le nostre amiche del Burkina Faso, le donne del Burkina Faso che ho visto ecc. L’umanità femminile, la sua libertà, nelle forme originali, proprie, non emancipazioniste, valorizzanti, le uniche possibili perché ci sia libertà, non ci sia assimilazione delle donne, cancellazione del sesso femminile e omologazione tutti a una specie di neutro maschile. Se servirà al mondo, bene, ma la politica che facciamo noi è quella lì, e non si muove come si muovono le altre cose che abbiamo forse visto capitare – d’altra parte adesso diciamo pure che non si muove niente se non per fare guai. Quel canto “Perché è un bravo ragazzo…” viene dalla sinfonia di Beethoven per Wellington che ha vinto, e si sentono le trombe in lontananza: la battaglia di Waterloo è finita e abbiamo vinto. Questa musica di vittoria io la sento su cose non appariscenti ma dove vedo che si guadagna terreno. Lo so che c’è da contrastare enormemente una serie di cose: il testo di Giordana che introduce le pagine sul lavoro – che contraddice un po’ il suo intervento in cui diceva di un’aspirazione al neutro – parla chiaro, di sorde resistenze. Queste cose non sono di una grandiosità… Mi ricorderò sempre quella volta che sono andata a trovare Romana Guarnieri, verso la fine della sua vita, e lei in base a un giornale che aveva in mano – pretesco, immagino – mi guarda e mi fa: “Voi avete vinto”. E io: “Cosa dici?”. “Ma sì, guarda qui”. E mi legge una cosa che fa capire che… Lei mi aveva sempre sentita, non mi aveva neanche tanto sostenuta perché era piuttosto per l’emancipazione, ma a un certo momento aveva capito una cosa in più e quindi stava attenta, era una storica, era una che sapeva leggere i segni delle cose.

 

CARLA (?): Allora facciamo un po’ di provocazione. Mi fa piacere aver sentito qua di nuovo dire che il patriarcato è finito, perché io nella vita di tutti i giorni non me ne sono assolutamente accorta. Mi sembra anzi che oggi ci sia un attacco abbastanza furioso nei confronti delle nostre libertà, e noi qui diciamo che abbiamo fatto dei passi avanti. L’età media che c’è qui dentro è abbastanza elevata, in corteo oggi non c’erano tante ragazzine giovani. [PROTESTE] Mi fa piacere sentir parlare del simbolico. Attenzione: il simbolico è quello dove anche ci hanno cacciato tante volte e che tante volte ci ha fregato. Quindi quando si sente parlare della donna che chiede la garanzia, attenzione! Quante altre volte la donna ha chiesto la garanzia? Un tempo le chiedeva all’uomo, meno male che oggi le chiede a un’altra donna, che probabilmente sente più vicina a sé, ma stiamo attenti a non cadere di nuovo in quella che è una libertà richiesta ma senza assunzione di responsabilità. La paura credo che ci sia, moltissimo, ma secondo me la prima paura che tante volte a me pare di riscontrare in giro è quella di assumersi la responsabilità come individuo e quindi di entrare eventualmente in conflitto con l’altra donna piuttosto che in non conflitto con un uomo, e quindi di portare avanti un discorso fatto su contenuti pratici. Io credo che sia lì che dobbiamo andare: se vogliamo parlare di libertà femminile, non esiste libertà che viene concessa, perché se viene concessa, nel momento in cui siamo un po’ più fragili, come in questo momento, alé, succede di nuovo di tutto. Se un personaggio oggi è uscito con delle boutade è perché se l’è potuto permettere, perché il clima pensava che fosse così. Ogni tanto, ciclicamente, mi capita di assistere a dibattiti, compro Via Dogana, facevo parte di collettivi… ma stiamo attente a non parlarci tanto tra di noi perché così riteniamo che andiamo avanti. Guardiamoci un po’ intorno, altrimenti diventiamo un piccolo clan chiuso. Non so quante di voi abbiano visto l’attacco fortissimo che attraverso tutta la pubblicità delle ore pomeridiane viene fatto in televisione alle bambine, come venga di nuovo in maniera pesantissima istillata la differenza di genere…

 

MARIA GRAZIA NENCIONI: Disfare il potere esistente, nel senso in cui dice Luisa, mi entusiasma, mi va bene, ma ci sono anche altre strategie. Per esempio le donne di Ferrara – io vengo da Ferrara – dicono: “Sì, va benissimo disfare, però profittiamo anche delle occasioni che ci si offrono, entriamo negli organismi, facciamo quello che dobbiamo fare, con spregiudicatezza, e poi cambiamo dall’interno quello che vogliamo”. Queste sono tecniche di diversificazione. Quello che diceva la signora, che siamo in una stanza di intellettuali: io non voglio essere una élite, né di testa né di quattrini, io voglio essere nella realtà. Rivoluzionare l’esistente trovando le maniere possibili, e non fissandomi sul simbolico, ecco. Il simbolico mi va molto bene ma non mi ci voglio fissare.

 

ANNA MARIA RIGONI: Io sono sicura che il patriarcato sia finito, non mi pongo assolutamente nessun dubbio. Insieme al patriarcato è finita anche una modalità maschile per tenere sotto controllo un’aggressività maschile che negli ultimi tempi si è mostrata in modo selvaggio, secondo me, e che alle donne fa paura. Quindi credo che una delle paure che hanno le donne quando parlano della fine del patriarcato è: dove va questa aggressività, che si mostra sia nella Casa delle donne maltrattate ma anche per esempio nei luoghi tradizionali del potere. Io mi chiedo se un certo numero di anni fa quando il patriarcato c’era si sarebbe verificata la scena di sputarsi addosso in parlamento, che mi sembra un atto di selvaggeria terribile. L’altra paura riguarda le donne che hanno anche figli maschi: dove fa a finire questa aggressività, come fare a costruire un mondo nel quale loro possono esistere e trovare la strada giusta senza sentirsi preda di queste bande aggressive. Vedo per esempio mio figlio che adesso ha tredici anni, è grande, grosso, enorme, è cresciuto tutto d’un botto e mi chiedo: lui è sempre lì coi giochini e sfoga la sua aggressività lì, poi è un buono, ma cosa ne facciamo? Come facciamo a costruire insieme una società nella quale ci sia un posto nel quale si possa convivere insieme?

 

ANNINA ALDERUCCIO: Volevo riprendere la domanda di Lia sull’incertezza. Questa incertezza, titubanza, questa… non so se reticenza, mi piace di più pensare che è una tremebondità femminile di fronte ad alcune consapevolezze. Io allora vorrei parlare della mia. Faccio la psicanalista, non ho mai avuto uomini che venissero a chiedermi aiuto, ultimamente ne ho e mi piacciono. Prima non li potevo proprio sopportare, infatti non arrivava nessuno. Capivano. Avevo solo donne. Mi ricordo il primo che è arrivato, mi sono detta: adesso come faccio? Invece adesso mi piacciono. Il fatto che ci sia una questione maschile me li fa avvicinare, me li rende umani; si umanizzano rispetto alla mia possibilità di avvicinarli. Certo è un osservatorio privilegiato perché quelli chiedono aiuto. Allora mi viene in mente la domanda di Lia (di fine articolo di Via Dogana), che conclude: “aspetto che si facciano avanti”. Io mi sono detta: “gli uomini”. Si fanno avanti perché vengono, bussano, prima però non venivano perché a me sembrava proprio una cosa impossibile avvicinarli. Poi io faccio anche un gruppo, di cui qualche volta ho parlato qui, con degli psicanalisti, tipo quelli dell’Argentina che citava Luisa: è un gruppo misto, faticosissimo, sono sei-sette anni ormai che ci incontriamo mensilmente. Però ho scoperto una cosa in questo gruppo, forse per il fatto che c’è questa questione maschile di cui sono perfettamente consapevole: loro hanno bisogno che io ci sia per parlare. Ho visto che parlare senza di me o parlare con me – intendo dire con me e altre donne che sono lì – fa la differenza. Questo mi conforta, perché mi sembra che quando parlo io loro non sono così interessati alla mia parola però sono interessati alla mia presenza, al mio ascolto interessato, critico anche. Quando divento tremebonda? Quando penso: adesso è il momento del riconoscimento reciproco. Nel senso in cui lo dice la Dominijanni, cioè: adesso ci trasformiamo entrambi. Lì si chiude tutto. Io lo sento come uno sbilanciamento mio eccessivo. Quando mi impegno in questa fantasia, che adesso finalmente ci trasformiamo insieme per questo famoso mondo unico che entrambi abitiamo, per questo desiderio a cui faceva riferimento Antonella, lì io mi perdo, perché mi svuoto di un’energia che loro non sono pronti a scambiare con me. È forse lì l’incertezza femminile. Cioè questo desiderio proprio sfinente di scambio. Forse in questa lentezza dobbiamo accontentarci del fatto che c’è necessità di essere ascoltati, non nella forza della loro parola ma nella titubanza della loro parola.

 

SILVIA (?): Ho sentito parlare di analisti argentini, mi sono sentita chiamata in causaperché sono argentina. Prendendo l’aspetto del simbolico dal posizionamento della donna, riflettendo e agendo insieme, credo che il momento storico attuale sia un momento fondamentale. Perché, come diceva Freud, gli uomini sono – siamo – fortemente omosessuali, nel senso che non vogliamo niente di diverso da noi stessi: il narcisismo degli uomini è così, per questo la funzione della donna è dividere gli uomini tra loro. Dividere nel senso buono della parola. Grazie a questo si evitano le guerre. Mi veniva in mente Lisistrata. In questo momento nella società attuale questa funzione della donna – che non deve rimanere fissa in un punto: le donne, le parole e il denaro devono circolare, perché se no si ammala o il gruppo familiare o la società come comunità allargata – penso che veramente stia diventando una posizione molto interessante. Possiamo trasformarci in un referente in questa perdita in cui si sono persi questi uomini, con il potere.

 

PIERA BOSOTTI: Sono d’accordo con l’intervento che ha fatto Anna Maria. Mi è piaciuto il finale dell’articolo di Lia, per un motivo; era difficile, secondo me, questo articolo, e anche la discussione, però a un certo punto come sempre c’è un elemento che ti fa capire come stanno le cose: la citazione dal film “La valle di Elah”. Io credo che chi l’ha visto possa dire una volta uscita dal cinema che gli uomini sono straconsapevoli del disastro simbolico che hanno messo in atto, che è in atto. Perché nel film il padre scopre che il figlio non era diventato cattivo per la guerra in Iraq, lo era già, che non c’era stata trasmissione nemmeno di quei valori assolutamente americani come l’onore ecc. Un film molto bello da questo punto di vista. E poi c’è la poliziotta che in effetti l’aiuta, diciamo così, nel cammino, lascia che lui spieghi la storia di Davide e Golia ecc. Dopo questa immagine del film e la discussione di questa sera, che è stata sicuramente molto interessante, io penso che molti uomini siano consapevoli del disastro simbolico che li circonda. In questa campagna elettorale, che seguo anche poco perché è di una tale noia, ogni giorno c’è qualcosa che ci rimanda a un disastro sempre più grande, da Diliberto che lascia il posto per un operaio a Veltroni che non c’entra niente con un vecchio partito glorioso, sconfitto, il Partito Comunista. Uomini che non hanno saputo nemmeno trasmettersi all’interno, in fondo, della stessa area, delle stesse relazioni, immagino anche familiari, amicali… Questa è l’impossibilità di lasciare un’eredità significativa. Mentre non trovo che noi siamo in un momento di così tanta debolezza. Tutte le volte c’è qualcuna che viene qui e dice “siamo vittime, siamo deboli”: è una specie di disprezzo per chi si trova davvero in situazioni come nel caso raccontato da Luisa alla fine di Via Dogana – una donna viene stuprata da un operaio durante il turno di pausa e non c’è un giornale che dice come l’hanno presa i compagni. Sarà anche complicato, ma è anche semplice non aderire a questa miseria. Mi sembra che tante donne non vedono se non vogliono vedere, così come gli uomini non vedono se non vogliono vedere. Film come “La valle di Elah” e molti altri sono stati abbastanza significativi. Quando ho visto il film di Wilma Labate sulla sconfitta della classe operaia a Torino, siamo uscite con un’angoscia senza fine, io ho anche pianto… Sembrava che il mondo fosse finito. Non è come nel film della Comencini dove c’è anche una ricostruzione, un desiderio di rivedere facce che non si vedono più o di parlare di un lavoro che è stato emarginato. Il film della Labate è veramente tipico di tante o poche donne che ci sono in giro, di identificarsi con sconfitte che non dico che non le riguardino – non sono così cinica, tutto ci riguarda – ma non ci riguardano così da vicino.

 

PAOLA MAMMANI: Una cosa brevissima, rispetto alla lettura di segni di cui è diffusa la realtà: i segni a volte sono essenziali, piccoli, ma credo sia invece potentissimo il lavoro fatto dalle donne. Oggi al telegiornale una signora immagino potentissima, che è in India al grosso convegno di donne che vengono da tutto il mondo, mezzo milione, patrocinio di Kofi Annan, dice: “È inutile che una donna prenda il potere se si comporta esattamente come un uomo”. Otto mesi fa Lia e Luisa lo hanno detto per noi, qui, facendo la mappatura delle donne che prendono il potere. Queste cose vanno, vanno proprio.

 

ANTONELLA NAPPI: Devo dire che io capisco poco. Avrei bisogno che del patriarcatomorto o sopravvissuto si dicesse nel merito, cosa si sta intendendo. Anche il simbolico distrutto, dire nel merito. Lia diceva: il padre non sa più cosa dire al figlio. Ecco. Se no non c’è abbastanza comunicazione. Secondo me chiedere la distribuzione del potere o pretenderla, dividerlo in tanti piccoli poteri, dividere anche quelli in tanti poteri più piccoli… questo mi dice di più che disfare il potere. E questo dividere il potere, tutto sommato è anche il gesto che fanno le donne, di scagliarsi contro chi vuole attaccare la loro libertà di mettere al mondo o non mettere al mondo. Io vedo che anche loro dicono: distribuiamoli i poteri, rivendicano il piccolo potere della loro pancia.

 

LUISA MURARO: Non è piccolo, è enorme!

 

ANTONELLA NAPPI: Va bene, piccolo o grande…

 

LUISA MURARO: Eh, no! Non la puoi risolvere così.

 

ANTONELLA NAPPI: Non so, allora non vi capisco e non mi capite.

 

MARIA BENVENUTI: Volevo solamente dire ad Antonella, sul merito, o alla signora che ha parlato di rischio delle élite intellettuali, che io sono arrivata in Libreria tre anni e mezzo fa e questo rischio un po’ lo sentivo, poi partecipando alle attività e soprattutto nel gruppo lavoro, io che sono più giovane – diceva la signora: non ci sono le giovani – in realtà questa cosa del simbolico e del supporto di quelle più adulte, nel merito e nel concreto, io l’ho sentita. Ed è lì, nelle cose del lavoro, penso che come dice Lia si giocheranno i conflitti più forti e più dirompenti.

 

ANTONELLA NAPPI: Volevo continuare a dire quello che stavo dicendo. Io sostengo che disfare il potere vuol dire distribuire tanti piccoli poteri a ciascuno, e che la questione del patriarcato è di non potersi confrontare, avere il terrore del piccolo potere di ciascuno. Sul simbolico, volevo dire che sia maschi che femmine, attualmente ancora, sono fortemente accomunati dalla sicurezza che scienza e tecnologia li portano avanti. Sta per cadere anche questo elemento, però guardate che l’idiozia dell’unirsi tra uomini ha continuato a rilanciare l’astrazione, la spersonalizzazione, il non rapportarsi con gli altri e con il piccolo potere di ciascuno, tramite la scienza e la tecnologia, e questo ancora coinvolge molto anche le presenti, se ci pensano bene.

 

MARIANGELA MIANITI: Barak Obama della moglie ha detto: “Non si candida a presidente degli Stati Uniti perché è troppo intelligente”. Questa secondo me è una risposta fantastica.

 

LIA CIGARINI: Poche stasera sono intervenute sulla questione politica posta, se si vuole assumersi il mondo oppure si preferisce o posizionarsi come le discriminate, le vittime, o stare nel separatismo, cioè la costruzione per quelle che sono qui di una società parallela dove si sta con agio. Io credo che se si continua a evitare questa questione, con interventi che sono stati anche intelligenti, non ne usciamo politicamente. Qualcuna ha detto che ci hanno confinato nel simbolico – cosa assolutamente paradossale, secondo me – oppure che siamo un’élite e quindi come tutte le élite destinate a soccombere a come è cambiata la comunicazione ecc. Io sono convinta che un pensiero, che è quello della differenza e che è anche una pratica politica, non riesce a essere lingua corrente per due ragioni. La prima è sicuramente quella che diceva Stefania, cioè questa… mi verrebbe da dire zavorra ma è troppo forte, delle donne che supportano l’inclusione nel mondo maschile, per cui quella è la lingua corrente sui media, la discriminazione e la richiesta di inclusione. E quindi, anche se a me interessa la politica e non le disquisizioni, mi trovo sempre di fronte a questo problema. Non è che noi siamo un pensiero di élite, se guardo il mondo, la società, mi sembra che le donne tendono a volere difendere la propria differenza e invece mi trovo con questa sbarra di chi invece dice l’inclusione. E quindi difficilmente diventiamo lingua corrente. E poi sempre – l’ultimo intervento di Antonella – questa cosa estenuante del potere, che non se ne viene fuori: “il grande potere diciamo no, però vogliamo i piccoli poteri”. Poi chi dice che ci sono segnali estremamente negativi… Per stare al concreto, hanno chiesto a un gruppo adolescenti, bambini e bambine dai dodici ai quindici anni, se avrebbero voluto essere nati/e dell’altro sesso: sei su dieci maschi hanno detto che avrebbero voluto nascere femmine, nessuna femmina ha detto che avrebbe voluto nascere maschio. Allora crollano tutte le cose che anche stasera si dicono, si direbbe che la crisi della trasmissione simbolica c’è davvero, perché evidentemente questi adolescenti avevano dei padri scassati, mentre quelle femmine forse avevano delle madri che hanno trasmesso loro qualcosa. Su questo punto bisogna continuare a discutere perché si sbanda continuamente. Io insisto, se qualche uomo ha dichiarato la crisi di civiltà, ha detto che l’Italia è ridotta a poltiglia, evidentemente è una questione maschile: io credo sia poltiglia non per quelle cose che scrivono i giornali, ma perché non c’è una presa di coscienza maschile, non c’è una soggettività di uomini che prenda atto che c’è una sessualità, un simbolico, un modo di relazionarsi, un modo di lavorare, un modo di pensare differente. Ecco, riusciamo a stringere su questo punto, oppure no, continuiamo a divagare? Lo so che è difficile un riferimento, un muoversi collettivo, ritengo che però ci siano dei baluginamenti in questo senso. A me sembrava importante dire “questione maschile” come un modo drastico di dire “non c’è più il patriarcato”: siamo d’accordo oppure no, io sto fantasticando? Però lo dicono gli stessi uomini. Anch’io sono convinta che la trasmissione simbolica tra donne sia un filo, non sia certo chissà quale struttura, però secondo me alcune citazioni, che pure nella loro confusione fanno anche le giovani donne, di ripetere il gesto del femminismo originario, e anche questo radicale mutamento del rapporto madre-figlia, mostrano che un filo ci sia. Il problema è sempre l’agire politico. Nonostante la barriera che fanno le parità ecc., potremmo essere presenti molto di più sui media: io ho un problema di parola, quindi non andrò mai alla televisione, però ci potresti andare, perché ti invitano. Insomma, il filo simbolico di trasmissione c’è, c’è un pensiero e c’è una riflessione collettiva – è già due, tre, quattro volte che qui si incontrano cento persone -, abbiamo relazioni con donne collocate in modo diverso che fanno un riferimento alla Libreria… Qualcosa c’è. Non sono d’accordo, Antonella, sulla spartizione dei piccoli poteri, perché le donne ne hanno uno grandissimo, da cui lo scomposto comportamento attuale degli uomini: quello di far nascere non c’è dubbio che sia un enorme potere, non un piccolo. Se siamo confuse anche su questo…

 

ANTONELLA NAPPI: Per piccolo, io intendo: soggettivo.

 

LIA CIGARINI: Ma non è solo soggettivo! È la cosa demografica, è l’economia, è la questione dell’immigrazione: fai o non fai i figli! È quasi tutto, se gli si dà valore.

 

LUISA MURARO: Ho ascoltato la donna della difficoltà di parola, che ha lungamente parlato e fluidamente, e secondo me c’è una distinzione che bisogna introdurre: è vero che il pensiero della differenza non è lingua corrente, ma non è lingua corrente delle minoranze parlanti. Il pensiero della differenza è la cosa che le donne e gli uomini ordinari sanno, dicono, significano tutto il tempo. Allora bisogna distinguere i discorsi dei parlanti e i discorsi di quelli che non sono ufficialmente parlanti, che sono la stragrande maggioranza. Bastava salire su un tram, ascoltare i discorsi che c’erano oggi; visto che è l’otto marzo, era tutto un… scherzi, frecciate tra maschi, femmine, maschio con maschio: “Ah, io le donne le amo”, “Vai vai tu che ami le donne!”, con le donne lì che ghignavano ecc. Questa era l’obiezione che volevo fare prima a Giordana quando diceva che si va verso il neutro. I discorsi parlanti del magro panorama di pensiero politico oggi sul mercato delle parole sono magri discorsi. Il panorama si vivacizza per i comportamenti un po’ patologici di certi uomini, quelli della camera quando è caduto il governo Prodi, quelli del direttore del “Foglio”: sono scompostezze patologiche interessanti perché si va fuori di quei magri discorsi; oppure anche gli evitamenti dei due capi delle formazioni politiche maggiori in lotta – “Non parliamo dell’aborto”, si mettono d’accordo – e via dicendo. Ma c’è tutto il resto. La politica delle donne si chiama anche così – io la chiamo sempre così, essendo che ci sono uomini e donne che la fanno, comunque si può cambiare il nome – perché ha ha che fare con l’attenzione, l’ascolto, le pratiche, le letture, di quegli altri, di quelle altre, come il film che hanno fatto “Maestre comuni”. La mia lunga perorazione era per dire: portiamoci con l’attenzione e la passione politica a quel livello, che è quello di più grande verità e realtà, rispetto agli scenari che oggigiorno sono in effetti miseri. Se no abbiamo una veduta sfalsata. A Lia che dice “parliamo di questa incertezza”: va bene, possiamo parlare della sua difficoltà di presa di parola per cui lei parla qui e non parla là. Parliamo di questo? Non mi sembra interessante. Quindi non so di quali incertezze… Certo che ci sono donne che davanti a me vorrei vedere più signore, ma non c’è niente da fare. La strada è quella: lenta, dove l’importante è tenere grande il paesaggio e l’occhio acuto sui particolari delle cose che cambiano. Perché il discorso stesso di Lia è finito con la storia dei bambini che dicono: i maschi e le femmine. Questo è il discorso corrente, e parla chiaro. Non c’è niente da fare. Solo che io devo stare là dove girano i magri discorsi, stereotipati e poveri, a continuare a lottare per impedire che prendano il sopravvento e che la società si trovi guidata da quattro ciechi, patologici per giunta, e basta. Allora, bisogna continuare a lavorare e lottare perché il senso comune, il senso comune di donne e uomini che tenta in qualche modo di andare avanti, di rimediare le cose, di far andare insieme uomo donna bambini, di vedere di trovare soluzioni, questo senso comune del valore della differenza femminile possa progredire, possa imporsi, possa parlare, e finalmente avremo una scena politica non così insulsa, così ebete, così irritante e così che gira a vuoto come quella che c’è adesso. Tutti lo dicono: la scena politica si è staccata. Nel senso comune ordinario, in mezzo a fatiche, anche a violenze – perché ogni tanto a qualcuno di questi salta il nervo e ammazza -, in mezzo a queste difficoltà però la cosa si capisce e bisogna continuare a lavorare a quel livello lì. Io di incertezze non ne ho e quindi non posso dire niente. Le incertezze se ci sono sono di quelle che hanno desideri che non riescono a realizzare, e sono qui, in mezzo a noi, hanno desideri, avrebbero voglia di questo, di quello, e non li realizzano. Sai, farle parlare non è tanto facile. Ma non vedo altre incertezze.

 

LIA CIGARINI: Essere più presenti…

 

LUISA MURARO: Essere più presenti dove? Io laddove sensatamente ci sono, sono presente. Per un anno ho continuato a dire: signoria. Signoria del mondo. Il mondo ci chiede di prendere la signoria. Quanto alla tua lettura sul vittimismo, non sono d’accordo. Tant’è vero che dell’otto marzo i giornali hanno finito per parlare anche poco siccome le donne non fanno più del vittimismo e della denuncia il loro registro. Le manifestazioni non sono state fatte all’insegna del vittimismo.

 

TRAUDEL SATTLER: Io e Marina Santini siamo andate alla Statale dove c’era un collettivo femminista di giovani studentesse che ci ha molto sorpreso. Parlavano di differenza, mentre ci aspettavamo un discorso di parità, perché normalmente le ventenni credono nella parità. Invece loro hanno detto: noi non vogliamo essere pari, ci rifacciamo alla differenza. E non c’era neanche una briciola di vittimismo. Avevano invitato anche dei ragazzi, uno diceva “il patriarcato è un relitto”. Questa era la situazione lì, in un’assemblea della Statale.

 

PINUCCIA BARBIERI: Io vorrei parlare del mio desiderio. Ho il desiderio di portare la politica delle relazioni di differenza nei luoghi istituzionali. Allora, cosa faccio? A tutti i convegni, a tutti gli incontri che ci sono, vado, porto i documenti, le riviste, e spesso prendo la parola. Mi è più facile prendere la parola in un contesto conflittuale. Mi va bene parlare davanti a Casati e dire: tu hai detto che ci davi questo e non ce l’hai dato. Mi va bene parlare davanti alla Censi, dire : tu hai promesso e questo non l’hai fatto. Quindi ci sono desideri diversi. Il mio è quello di confrontarmi, anzi aprire brecce in quei luoghi lì.

 

ANNINA ALDERUCCIO: Io avevo capito, nella parola “incertezza” che è venuta fuori da Marisa e da Lia, una situazione di questo genere: come mai, rispetto a una forza femminile che è lì da vedere dappertutto, ci sono cadute di alcune donne in una incapacità di calcolare il prezzo per un’inclusione a tutti i costi? Inclusione nel rapporto in cui pur sono effettivamente sacrificate, inclusione dentro un parlamento che poi non permette di esprimere alcunché… Questo mi sembrava il discorso a cui Lia faceva riferimento. Secondo me è interessante, non perché ponga una divisione tra donne che si sentono vittime e donne che si sentono invece signore quantomeno della propria esistenza, ma perché quel modo lì succede anche a me – prima lo dicevo: quando ho l’aspettativa dello scambio mi succede di sentire una forza che se ne va – e d’altra parte se succede alla mia compagna di banco della vita toglie anche a me un po’ di forza. In questo senso mi interessa interrogarmi sulla questione. Francamente anche in quel gruppo a cui mi riferivo prima, mentre posso accettare che a un certo punto mi sono sbilanciata troppo rispetto a uno scambio impossibile – perché oggi si può solo definire la propria distanza, tra uomo e donna – mi pesa trovare invece le donne posizionate lì e ritrovarmi magari solo con quella a fianco con cui posso parlare. Questo porta legna e alimento a qualcosa che poi indebolisce tutte noi.

 

MARINA TERRAGNI: Sul vittimismo ho cominciato stamattina alle dieci con Lia, poi oggi pomeriggio sono andata a Verona a una kermesse del comune dove c’erano, oltre a me, una giapponese, una iraniana, una ragazza non vedente e una sportiva in carrozzella, a significare le pari opportunità. Quando ho parlato e ho detto che mi rifiutavo vederla così, che c’era forza, che appunto i ragazzini vorrebbero essere donne, lo scrivono nei temi… che il problema semmai è che ho un figlio maschio e sono preoccupata per lui, c’è stata una vera liberazione nella sala, dove c’erano signore anche anziane, che venivano lì per l’otto marzo, le quali hanno una percezione precisa della forza e della capacità di vincere femminile. Il problema è che chi prende la parola, anche forse le giovani ragazze dei centri sociali romani, trovano già confezionate le cose da dire. La mia sensazione è questa. Perché per tutti c’è la liberazione di potersi avvicinare al senso comune delle cose, che è questo, che le donne si sentono fortissime. Però chi prende la parola non lo raffigura, e non capisco perché. Forse perché ha paura di dirlo.

 

EMANUELA MARIOTTO: Io ho seguito tutto il dibattito della rete regionale che si era creata in internet sulla 194 e ho questa valutazione: in realtà i linguaggi si mescolano molto. C’è lo schema del vittimismo ma c’è anche moltissimo un discorso di libertà e di differenza femminile. Il fatto è che spesso vanno insieme, non si capisce come, nello stesso volantino. Ad esempio, c’è un sito di un gruppo di ragazze che mi ha fatto molto ridere perché, credo in polemica con “Usciamo dal silenzio”, si sono chiamate Maistatezitte: mi è piaciuto tanto perché dava il senso di qualcosa di vivo, di libero. Quindi il problema è il lavoro sul linguaggio: può accadere che delle donne si descrivano in termini di vittime quando vittime non lo sono per niente. Il rapporto di linguaggio con l’altra è fondamentale, cioè se l’altra è libera e ti contagia, è un attimo, perché è uno spostamento simbolico rapidissimo, non è che richiede tempo, avviene così, come una scintilla.

 

MARISA GUARNERI: Un conto è che le donne siano vittime, un conto è avere uno schema di riferimento del vittimismo, e questo viene fuori tantissimo. Anche perché proprio in questa fase di crisi degli uomini, che ci sia il vittimismo delle donne è una soluzione. Mantiene la situazione com’è: apparentemente, ma è una forma interpretativa.

 

MARINA TERRAGNI: Ne parlavamo alla trasmissione Fahrenheit, c’è un’inchiesta Censis sull’immaginario televisivo sulle donne dove veniva fuori che nel 38 percento dei casi la donna è raffigurata secondo immagini di moda e bellezza, poi ci sono percentuali più piccole per tutto il resto, e ribalza intorno al 30 percento l’immaginario di donne ferite, schiacciate, violentate, vessate. Secondo me, dato che sono due estremi di uno sguardo maschile che ti ammette o così o colà, è proprio una questione di coraggio, di dire le cose come stanno. Una sbaglia a aver paura, perché le “donne comuni” capiscono al volo. Non è che capiscono: è così, e tu glielo rappresenti. Certo che se dici invece: ci picchiano, ci menano… È anche vero che ci picchiano e ci menano, ma non ci fanno però male come ce lo facevano una volta, perché non hanno più la forza di farlo. Secondo me c’è proprio paura a dirlo.

 

TRAUDEL SATTLER: La cena è pronta! Grazie a tutte e a tutti.

Print Friendly, PDF & Email