28 Febbraio 2018

Cercare la madre per trovare se stesse

di Giordana Masotto


Questo testo è nato in occasione della presentazione alla Libreria delle donne di Milano del libro di Colette Shammah
In compagnia della tua assenza (La nave di Teseo editore, 2018) in cui l’autrice attraversa la vita della madre Sophie che non c’è più e dialoga con lei. Dalla sedicenne ebrea di Aleppo che viene mandata sola a Parigi a studiare nell’Europa minacciosa del 1938/40, alla donna colta e indomita, esile come un «tratto calligrafico giapponese», madre di quattro femmine, che approda a Milano.

Io e Colette ci ritroviamo qui oggi dopo tanti anni perché questo luogo, la Libreria delle donne, ha un senso speciale che riassumo così: se continuiamo a cercare noi stesse le nostre strade passano da qui.

Colette Shammah si è presa l’impegno di raccontare la vita di una donna. Come scriveva Carolyn Heilbrun alla fine degli anni ’80 in Scrivere la vita di una donna, rendere visibile la vita delle donne «è una impresa femminista». Si tratta di trasformare le vite in storie perché «non sono le vite a fornire i modelli ma le storie». È un altro modo per creare simbolico. È un lavoro politicamente importante, come ci ha detto Virginia Woolf novant’anni fa (Una stanza tutta per sé). Per questa via possiamo anche – come dice Heilbrun con una libertà che a me piace – risignificare la parola potere: «Il potere è la capacità di prendere parte a un discorso dal quale dipende l’azione e il diritto di essere ascoltati.»

Tu, Colette, ti sei presa la libertà di guardare alla vita di tua madre. E di farlo, inevitabilmente, con i tuoi occhi e con il tuo sentire. Un bel regalo che fai a tua madre: «No, non volevo che il mondo ti dimenticasse, che cancellasse il tuo nome.» Onori lei e ti prendi la tua bella libertà, di esserci tu, tutta intera nella storia di tua madre. Questa è l’impresa che ci interessa.

Ci vuole coraggio per esserci in presenza della madre. Colette ce lo dice: di fronte a lei «ero sempre in bilico tra menzogna e chiusura.» Eppure, essere vista dalla madre è un passo obbligato: «Alla mia età, avevo ancora bisogno di essere vista da te. Peggio: di essere vista tout-court. Saperlo era stancante. Per questo dopo la tua morte ho ritenuto che fosse arrivato il momento di uscire allo scoperto e di rivelare chi ero veramente.»

I dispositivi per costruire e preservare la propria identità sono uno dei fili rossi che attraversano tutto il libro. Scopriamo ad esempio la fascinazione di Zekìye, la madre di Sophie, per una figura leggendaria di donna, un’antenata della Spagna del Cinquecento, ai tempi dell’Inquisizione: «Zekìye era affascinata da quella donna che aveva vissuto contemporaneamente due esistenze in due mondi diversi, una da esibire e l’altra da proteggere e nascondere, una donna che aveva due nomi, anzi tre: Hannah di nascita; Beatriz, imposto dall’Inquisizione; Gracia, scelto da lei.»

Anche la giovanissima Sophie si misura con la propria madre: «Ma non avrebbe mai smesso di stupirsi di come sua madre cambiava in presenza dei nonni paterni: sembrava diventare meno sicura di sé, più mite e arrendevole. Una cosa che non le piaceva. Da grande, avrebbe cercato di non fare come lei: non si sarebbe mai lasciata sottomettere.» Decisioni perseguite con fermezza anche quando la forza non c’è ancora: «Lei teneva le gambe rigide e dritte come un soldato. Molto dritte. Questo le dava una certa sicurezza. Si sentiva meno sola perché era salda sui piedi.»

Quando quella forza cresce la Sophie adulta è diventata «una donna dalle mille qualità, attraente e manipolatrice. Un’affascinante piovra piena di desideri.» Alla figlia non resta che invidiare «la tua forza di volontà, la tua precisione di desideri».

Fuga? Conflitto? Oppure la scelta di inabissarsi in una clandestinità che è un modo per convivere con le proprie fragilità sentendosi anche forti? O addirittura la consapevole strategia di Penelope per tessere in segretezza le proprie tele quando il contesto prende il sopravvento? Elaborare la fragilità o l’onnipotenza materna rimane un paradigma fondamentale per affrontare le disparità tra donne.

Ma c’è un altro aspetto di questo libro che mi preme sottolineare. Si scrive sempre nella lingua materna che, come scrive Luisa Muraro ne L’anima del corpo, «è lingua endogena e relazionale, parlante da dentro, trovata con altri, risorsa di un’interiorità non isolata, che si potenzia nello scambio con altre e altri, mediatrice di distanze che altrimenti si popolano di macchine e mostri».

Eppure Colette scrive e pensa in italiano – come ha deciso crescendo – benché la lingua dello scambio familiare, la prima lingua, sia sempre stata il francese. Questo contraddice la natura unica della lingua materna? No davvero. Perché il cuore del discorso sulla lingua materna è che è lingua soggettivante, cioè quella che ti mette in grado di rigenerare l’esperienza. È la lingua che sprofonda dentro quando cresciamo, ma rimane a disposizione e la possiamo recuperare dentro di noi. È la lingua dell’arte e delle relazioni. Quella che ti consente di riarticolare il rapporto tra pensiero e parola. Ha scritto María Zambrano: «vivere umanamente è andar nascendo, continuare a nascere.»

Non si può rinunciare all’inesauribile nascere. La lingua materna dentro di noi ci consente di continuare a farlo e a stare così nel mondo. Qualunque essa sia e comunque si trasformi: ricordo che da giovane mi piaceva andare all’estero per sentirmi più libera e proprio la lingua straniera mi sfidava a scoprire chi ero e fin dove volevo spingermi.

Un’ultima osservazione. A sorpresa l’autrice scrive: «Ritorno nel presente, all’hotel Westin Palace dove ogni mattina vado a ritrovarti, scrivendo.» Che meraviglia! Il luogo per ritrovare la madre – e dunque se stesse – è uscire dalla casa, dal tuo luogo, per poter cercare al di là del già detto della tua vita. Ti crei spazio fuori, in quel luogo insieme stanziale e di passaggio, esposto e misterioso che è la hall di un albergo.

Questa è l’altra lezione che la figlia impara dalla madre Sophie, nomade, mai profuga: «Aveva innata la capacità di sentirsi pronta e a casa ovunque. E di abitare a pieno titolo la sua realtà.» Una lezione che per Sophie viene da lontano: «Il rabbino aveva spiegato che per andarsene da un luogo era indispensabile aver assimilato il concetto di libertà, mentre per scappare non c’era bisogno di elaborare un sapere, poiché malgrado le apparenze la coscienza non si modificava e non avveniva alcun cambiamento.»

L’abbiamo imparato: la stanza tutta per sé ce l’abbiamo dentro e ce la portiamo nel mondo. Il cerchio si chiude: siamo tornate al qui e ora, radicate ed esposte, ad attraversare le nostre differenze.

(www.libreriadelledonne.it, 28 febbraio 2018)

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