11 Dicembre 2015

FEDE NELL’INVISIBILE

di Antonietta Lelario


Séraphine de Senlis
, Artista senza rivali di katia Ricci, Luciana Tufani Ed. 2015

Empatia relazionale

Del saggio di Katia Ricci io vorrei qui riprendere solo alcuni nodi. Uno è la relazione fra Katia e il personaggio Séraphine. Katia la fa vivere davanti ai nostri occhi, la segue nelle sue fughe in campagna, ne immagina paure, desideri seguendola con affetto, partecipazione, empatia. Non nasconde il proprio sguardo e tuttavia non c’è schiacciamento dell’una sull’altra. Potremmo chiamarla un’empatia relazionale. Noi vediamo l’una, Séraphine, e sentiamo la voce dell’altra, Katia, che si rende visibile attraverso il lavoro dell’immaginazione e le domande che si pone, ma non occupa tutto lo spazio. Non so dirlo diversamente, ma mi sembra un approdo scritto importante per quella pratica di insegnamento, che tutte e due abbiamo fatto per anni e di cui abbiamo discusso tanto nel movimento di autoriforma. Noi abbiamo sperimentato ogni giorno che non si può far amare ciò che si insegna se non lo si ama per prime, ma amare non vuol dire schiacciarsi sul soggetto indagato, anzi occorre dare spazio alla sua complessità, come allo sguardo di coloro a cui ci rivolgiamo.

Facile a dirsi, più difficile praticarlo, più difficile ancora é far vivere questa posizione nella scrittura saggistica.

C’è dietro questo approdo l’esperienza che amare non vuol dire farsi assorbire o assorbire l’altro da sé, c’è l’importanza data alla singolarità, c’è il sospetto che conoscere per identificazione serva solo a conoscere se stessi, e nemmeno. Eppure eppure…

Eppure

Se possiamo farci domande, se possiamo immaginare è perché dietro ogni esperienza singolare, anche lontana nel tempo, c’è qualcosa, che emerge dalla sua opera, dalla sua vita, che fuoriesce dalla storia e ci interroga personalmente. Nel caso di Séraphine che cosa è? Perché io, dopo aver letto il libro, ho continuato a pensare a questa donna come ad una figura che mi diceva qualcosa di più?

La domanda di Katia

C’è una domanda che Katia si fa e attraversa tutto il saggio: dove trova la forza questa donna che vive in tali condizioni di svantaggio analfabeta, sgraziata, povera, costretta a vivere in condizione servile, senza consenso intorno, a parte la parentesi dell’incontro col critico e sua sorella, dove trovò l’audacia per credere che ciò che vedeva andasse detto, per trovare un suo linguaggio, per inseguire il suo sogno di grandezza?

La domanda di Virginia Woolf

Ricorderete che è la stessa domanda che Virginia Woolf si faceva all’inizio del 1900 sia immaginando la vita della sorella di Shakespeare, se fosse esistita e avesse voluto fare l’attrice come lui, sia immaginando un’eventuale pittrice, sua contemporanea: “oggi una donna che vuole scrivere ha molti esempi illustri alle spalle per attingere coraggio, ma una donna che volesse scrivere musica o che volesse dipingere?” Gli anni su cui si interroga V W sono proprio gli anni in cui Séraphine comincia a dipingere.

Ostacoli diversi?

È una domanda che oggi si pone forse con ancora maggiore forza che in passato, anche se gli ostacoli sono di natura molto diversa. Molto diversa? ricordiamo le parole di Virginia Woolf quando a proposito dell’ipotetica sorella di Shakespeare dice l’impossibilità di fare l’attrice, ma soprattutto -aggiunge- “lo sguardo di irrisione da cui sarebbe stata circondata le avrebbe tolto ogni fiducia in se stessa e il rancore ne avrebbe deturpato la voce, distraendola dal suo cammino!” Il rischio di perdere fiducia e di lasciar deturpare ciascuna la propria voce mi sembra ancora attuale.

Risposta di Katia

Secondo me il merito di Katia è di non aver dato una risposta esaustiva a questa domanda e di aver invece cercato e lasciato molte tracce. Nel rapporto con la natura la giovane Séraphine aveva fatto l’esperienza di sentirsi libera, aveva provato quell’amore per la bellezza che l’accompagnerà per tutta la vita, aveva avuto la gioia di non sentirsi giudicata, aveva lì potuto proiettare il suo sogno di un’epoca incontaminata, il paradiso terrestre per esempio, così come aveva potuto proiettare fuori di sé le angosce, gli incubi, le paure. Per tutta la vita l’aveva sostenuta la relazione con la sua madonnina e con il suo angelo custode con cui aveva avuto una relazione quasi mistica, dice Katia. Che cosa quindi l’ha aiutata? il desiderio di libertà, l’amore, la funzione terapeutica del dirsi, la fede in qualcuno che la proteggeva e le chiedeva di dare il meglio di sé, come l’angelo custode, il sentirsi collocata in un disegno più grande che la trascendeva e le parlava attraverso la voce della Madonna? Sono tutti fili convincenti e plausibili che concorrono l’uno con l’altro a costruire la complessità della vita di Séraphine e che possiamo riconoscere nelle nostre vite pur così diverse.

Relazione mistica

Certo le parole che Katia attribuisce all’artista quando guarda la sua opera e quasi non crede di essere stata lei a farla e ringrazia la sua Madonnina sono commoventi. Io ho trovato commovente questo abbandono ad un disegno più grande di cui si sentiva parte e a cui contribuiva dando corpo al proprio sguardo attraverso le immagini. Appunto lei voleva contribuire al disegno.

Il suo modo di aver fede non si esaurisce nell’abbandono ad una volontà superiore, si nutre invece del desiderio di trovare la propria voce, di “non lasciare che gli ostacoli la uccidano o la distorcano”. Il rapporto col divino le dà fede in sé stessa. Di questa fede, di questa relazione mistica, si nutrì il suo talento. Detto in parole semplici non è più “Sia fatta la tua volontà”, ma “Io contribuisco a fare la tua volontà, Tu mi dai fede in me stessa”. Viene da pensare ad Etty Hillesum quando dice che non siamo noi a dipendere da Dio, ma è Dio a dipendere da noi per la sua esistenza nel mondo(cito a memoria).

 

Il di più che intravvediamo

La fede, è venuto in mente a me, è un’esperienza relegata nella religione e invece se é fede nel di più che intravvediamo intride e dà senso a tutta la nostra vita. Fiducia, affidamento non a caso hanno la stessa radice. Quando è in gioco qualcosa di più importante che passa attraverso di noi ma non si riduce al nostro io, che ci faccia da orizzonte o ci parli dalla parte più segreta di noi stesse -e non è un caso che S Weil e Etty Hillesum siano diventate per noi così importanti- abbiamo bisogno che ci sostenga la fede. Tutto il nostro equilibrio ne dipende. Quale che siano i termini che chi non è religioso può trovare per questo “di più” che i credenti chiamano Dio: mistero, cosmo, vita, deve fare i conti con una dimensione spirituale che fa parte integrante della nostra esperienza. È una dimensione che tiene continuamente in equilibrio l’essere con il desiderio di quel di più, con la possibilità di essere altro da ciò che siamo. Naturalmente quando dico Dio penso ad un’immagine che é cambiata radicalmente nel ‘900 e sta cambiando ancora oggi: perfino il suo sesso è in discussione. Non a caso, credo, Seraphine ha percepito il disegno divino attraverso una figura femminile.

La forza: l’autenticità della voce

La forza viene dal desiderio di non cancellare questo aspetto spirituale, dal sentire che quando il contatto con la parte più profonda di noi rimane aperto noi crediamo alla nostra voce, la sentiamo vera e questo nessuno può togliercelo. La fede è la cosa più difficile da estirpare.

E tuttavia, notavamo proprio con Katia, il legame con la profondità di noi stesse non è solo rassicurante fonte di forza, è anche fonte di turbamento per la sua radicalità. Il mistero può presentare anche un fondo oscuro. Collegarvisi aiuta a trovare la propria voce, ma può anche turbare, come forse è stato per Séraphine. Tenerne conto può favorire il dialogo di ciascuno con sé, può aiutare a trovare l’altro da sé che ci abita, può alimentare il desiderio dell’impossibile, ma può anche ubriacarci se pensiamo di andare a coincidenza.


(Incontro al Circolo della rosa, Milano, 11 novembre 2015)

 

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