2 Aprile 2025

Il femminismo di Grazia Livi

di Luciana Tavernini


Intervento presentato all’incontro Le lettere del mio nome. In ricordo di Grazia Livi del 29 marzo 2025 al Circolo della rosa-Libreria delle donne di Milano, promosso da Elena Petrassi.


Nel 2012 Graziella Bernabò mi fece conoscere personalmente Grazia Livi. Provavo per lei una grande riconoscenza per avermi introdotto con mano esperta e leggera alla lettura di tantissime autrici del Novecento con le sue brevi e dense biografie di grandi scrittrici dove si intrecciavano vita e opere, dove lei stessa si metteva in gioco e, con una scrittura limpida e precisa, tersa e tesa, come diceva Marisa Bulgheroni, riusciva a mostrare il rapporto tra una donna e la creazione letteraria, partendo da piccoli particolari per andare al centro della vita. Ha saputo mostrare scacchi e scatti di resistenza, lacci e invenzioni di libertà delle donne e questo ha permesso a tante di noi di conoscersi meglio, di sentire che un’altra capiva le nostre emozioni e le rappresentava.

Desiderai subito creare una serata al Circolo della rosa sul suo lavoro. Scelsi con lei di costruire un dialogo con Laura Lepetit, che era diventata sua editrice dal 1991, dopo la pubblicazione nel 1984 da Garzanti del libro Da una stanza all’altra. Finalmente, dopo alcuni spostamenti di data in attesa della bella stagione per suoi problemi di salute, il 13 maggio 2013 vi riuscimmo. Con grande disponibilità, ironia e acutezza percorremmo diverse tappe della sua vita. Qui accennerò a episodi e riflessioni sulla sua presa di coscienza come donna e il suo femminismo.

Grazia proveniva da una colta famiglia fiorentina che le aveva permesso di laurearsi ma che rispetto alle donne aveva una visione patriarcale. A questo proposto ci raccontò di come suo padre, professore universitario, figlio e nipote di professori universitari, rivolgendosi ai due figli maschi, che divennero economisti, dicesse “Voi seguirete la mia strada” come difatti fecero. E poi guardando le figlie con leggero compatimento: “E voi farete le mie segretarie”. Infatti le fece studiare anche stenografia, cosa peraltro utile quando diventerà giornalista.

La madre, donna bella, spiritosa e salottiera era “Tutta una lode del padre”, diceva continuamente “L’ha detto il babbo” e proponeva per le figlie l’unico modello femminile che aveva conosciuto. Grazia però aggiunse: “Le madri vanno perdonate perché i tempi erano davvero brutti”. Con questo commento sottolineava la necessità di non incolpare le madri dei danni patriarcali. Oggi noi diremmo che è necessario redimere la relazione con la madre, non tanto perdonarla considerando le tremende difficoltà ad agire diversamente da come fecero. Già qui possiamo cogliere un aspetto del suo femminismo: guardare con curiosità e comprensione le donne e con ironia gli uomini, osservando i loro comportamenti e soprattutto sapere riconciliarsi con la madre.

Appena sposata visse a Londra dove si descrisse come “ragazza inconsapevole del vivere, che era stata una brava studentessa e una brava fanciulla nel pieno del patriarcato”. Fu una delle primissime a leggere Simone de Beauvoir, non ancora tradotto in italiano. “Leggevo per un feeling per le cose interessanti ma il mondo delle donne non esisteva. Esistevano le solitarie appassionate della parola scritta, come me.”

Su richiesta della Società delle letterate scrisse per la serie Parole pensate come era giunta alla pubblicazione del suo primo libro Gli scapoli di Londra.1

«Fui colpita dalle abitudini riservate alle persone colte, dalla cautela delle conversazioni, dal ritmo ordinato della grande città, dove si intrecciavano i riti e le solitudini. Ero pronta a colorare quel che vedevo con descrizioni umoristiche. Osservavo tutto e ridevo di tutto. Un amico giornalista mi disse: “Capisci così bene questo mondo… perché non provi a scriverne?” E mi dette l’indirizzo del suo settimanale prestigioso. La mia istintività allora era spontanea, non ancora appesantita dalla consapevolezza. Tutto pareva possibile. Scrissi, come giocando, e poco dopo vidi l’articolo pubblicato, persino con rilievo. Il sottotitolo era Vita di Londra. Mi furono chiesti altri articoli, ero piena di incredulo stupore. Tuttavia li mandai, ed ebbero una piccola eco, pari all’allegra naturalezza con cui erano stati scritti.

Quando tornai in Italia ero già una ragazza diversa. Il problema, molto grosso allora per una donna, era quello di una identità in fieri in un mondo quasi privo di uscite: il mondo patriarcale. Pianificai di diventare indipendente facendo la giornalista. Era scomparsa l’allegria. La responsabilità piena di conflitti si era insinuata nella vivace incoscienza della ragazza che voleva diventare una persona, secondo se stessa. Avrei potuto mantenermi scrivendo per i giornali.» Infatti divenne inviata per importanti riviste di quel periodo come Il mondo, L’europeo, Epoca, La nazione per cui fece anche diverse interviste di cui ricordò in particolare quelle a Rubinstein e a Giacometti.

L’editore Sansoni – nella persona del suo nuovo proprietario, Federico Gentile – iniziò una collana di libri d’esperienza vissuta, e le chiese di pubblicare i suoi articoli inglesi e nel 1958 uscì Gli Scapoli di Londra, recensito da Montale e che vinse il Bagutta Tre Signore, l’anno in cui vinse Italo Calvino.

Credo si capisca come lo scrivere diventasse allora il suo lavoro per emanciparsi ma la passione per lo scrivere prese corpo nella scrittura dei racconti. Ci disse: “Il racconto mi incanta. Ho scoperto Katherine Mansfield, grande maestra, stupenda esaltatrice della vita minima, della vita del sentire, delle emozioni, con una stupenda sensibilità femminea”. E poi aggiunse: “Scrivo tutto quello che si annida dentro il non detto di una persona. Nella mia grande famiglia nessuno si interessava a sapere la verità, fin da bambina credevo importante capire la verità e dirla, non solo i fatti”.

E poi continuò: “Scrivevo in modo narrativo ancora tradizionale. Ero stata spinta a scrivere da Anna Banti, grande figura di donna, ma non obbedivo a degli incitamenti. Quello che sentivo è ben detto da Carla Lonzi nel Secondo Manifesto di Rivolta femminile Io dico io del 1977”. Nell’incontro lo citò leggendolo direttamente: “Chi ha detto che l’ideologia è anche la mia avventura? / Avventura e ideologia sono incompatibili / La mia avventura sono io”. E aggiunse: “È l’indicazione più bella della singolarità, della potenzialità che una deve riconoscersi, tirar fuori, amare, è il percorso di una persona se è fedele alla propria singolarità per tutta la vita”.

Del femminismo temeva diventasse un’ideologia e invece valorizzò l’importanza della singolarità a partire da se stessa per poi valorizzarla anche rispetto alle scrittrici da lei scelte.

L’incontro con Virginia Woolf nacque grazie ad Anna Banti che dirigeva la parte letteraria della rivista Paragone, dove Livi pubblicava qualche recensione.

Grazia ci raccontò: “Banti mi telefonò dicendomi che sentiva che ero sulla stessa lunghezza d’onda di Virginia Woolf e mi chiese di scrivere un saggio su di lei entro un mese. Non sapevo le regole per scrivere un saggio e gli uomini a cui mi rivolgevo erano sbrigativi, ma scrivere questo saggio mi ha fatto scoprire, uso una parola femminista, la sorellanza perché via via che leggevo la Woolf capivo benissimo, non tanto la lingua ma chi era e che anch’io provavo quello che lei scriveva, sentivo la gioia di ritrovarmi. Ho letto tutto e ho scritto il saggio. Ho provato grande soddisfazione perché Banti mi disse Bellissimo e lo mise in apertura della rivista. Era una cosa incoraggiante ma io percepivo con forza come noi eravamo intrappolate nella subordinazione come donne agli uomini”.

Dal saggio su Woolf successivamente le venne in mente di collocare nella stanza di lavoro altre scrittrici per scrivere della loro vita. La stanza metafora per dire il bisogno di entrare all’interno di una vita, per dare un tocco di empatia. Era incantata da tutte le scrittrici scelte: Woolf per la vicinanza interiore straordinaria; Austen assoluta per non aver bisogno d’altro dentro la sua routine; Dickinson monaca dell’assoluto; Percoto, sua scoperta ridotta in una cartella polverosa nell’archivio di Udine, con una vita quotidiana molto difficile ma donna molto forte; di Mansfield abbiamo già detto, Anaïs Nin donna che giocava col suo aspetto e sapeva giocare con l’amore, cosa che Grazia non sapeva fare ma che l’affascinava. Ci disse: “Ho sentito per tutte latente fiducia, tenerezza, partecipazione per i destini”.

Con Da una stanza all’altra del 1984 inizia un percorso, che continuerà soprattutto con Le lettere del mio nome e Narrare è un destino, di presa di coscienza femminista, o meglio, come precisò, di sviluppo di “una piega della sensibilità che andava verso la condizione reale delle donne e che mi faceva bramare per una chiarezza di rapporti. […] Sono donna, mi riconosco in loro, ho l’istinto di scavare in loro, ne sento la dolorosità che poi ho sentito anche negli uomini”.

Grazia Livi con queste parole ci mostra come ci si possa aprire empaticamente alla differenza maschile quando e perché, partendo da sé, si resta fedeli al proprio essere donna.


1 https://www.societadelleletterate.it/2015/01/6926/


(www.libreriadelledonne.it, 2 aprile 2025)

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