28 Ottobre 2017

Il mio paese adesso sono due


Presentazione del libro di
Liliana Di Ponte e Daniela Simi, Il mio paese adesso sono due, Ed. ETS, 2017 a cura di Laura Minguzzi, della Comunità di Storia vivente.

Nell’introduzione Catia Sonetti (direttrice dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Livorno) definisce le due autrici “raccoglitrici sensibili di racconti.” Le storie che raccontano sono di venti badanti provenienti da tredici paesi diversi di età comprese fra i ventisei e i settantuno anni, «Vengono da lontano per riparare i buchi del nostro welfare». Il territorio è quello di Lucca e provincia. Gli incontri sono stati organizzati con l’aiuto di varie mediazioni spesso informali, come amiche, conoscenti o la Caritas. Tutte le donne intervistate sono state contente che qualcuno/a potesse interessarsi alle loro vite. Le domande erano semplici e dirette. Perché sei qui? Cosa ti ha spinto a partire? Chi hai lasciato per venire qui? Come vivi nella nostra città? Che progetti hai?

Il termine “badante”: l’Accademia della Crusca ha accolto nel 2002 il nuovo termine che in origine indicava il lavoro di chi accudiva animali bisognosi di cure continue come vacche e vitelli. Sta proprio in quella necessità del sempre, in quest’avverbio (ho pensato subito che in amore si dice “ti amerò per sempre”), lo spartiacque fra tutto ciò che non siamo più in grado di assicurare e coloro che lo garantiscono per noi. Nelle ricerche che ho consultato nel sito di In genere si usa il termine “assistenti familiari” o “lavoratrici domestiche”.

L’Italia è il paese con il più alto numero di lavoratrici domestiche e di cura. Ci sono circa 900.000 lavoratrici domestiche quasi totalmente straniere. Le due autrici, che non sono specialiste di metodologia di raccolta di testimonianze orali, hanno scoperto a loro spese che le confidenze più significative sono arrivate quando l’intervista era finita e il registratore spento «perché nonostante tutto lo strumento inibisce». Ma l’ascolto sensibile messo a disposizione da Liliana e Daniela ha fatto sì che l’intervistata si aprisse fiduciosa. Una qualità rara e preziosa quella dell’ascolto attento. Anche nella comunità di Storia vivente ricordo che Marirì Martinengo chiese che non si registrasse per esercitare il massimo di ascolto e attenzione alle parole dell’altra, valorizzando la presenza, la parola in presenza, la fiducia nell’ascolto dell’altra. La percezione colloca questo lavoro prezioso di cura o manutenzione della vita in un passato molto remoto, quasi secolare, cioè prima della fine della famiglia patriarcale. C’è una generale svalutazione e non riconoscimento di questo lavoro soprattutto femminile.

Mi ha colpito la scelta linguista delle autrici, cioè si citano fedelmente frasi delle donne intervistate che s’inventano parole che suonano molto espressive, per esempio “la manchezza”. Soma dello Sri Lanka dice: «Quando torno a casa, sento la manchezza…», «Qui mi manca “mi respiro” perché qui mi sento proprio strinta vita», oppure parlano un misto fra la lingua d’origine e l’italiano, come Ramona che in Ritratto di signora definisce il rapporto con l’assistita “un tribolo”.

Il libro è diviso in sette parti con una breve introduzione e una cartina geografica del mondo con le rotte di provenienza che conducono queste donne dai luoghi più disparati al territorio di Lucca (Albania, Ecuador, Bulgaria, Senegal, Romania, Ucraina, Filippine, Brasile, Russia, Sri Lanka, Perù, Marocco ecc.). Le autrici hanno scelto un metodo molto efficace scomponendo e ricomponendo i racconti in base a tematiche simili e inserendo brani autobiografici. Quella del racconto mi è sembrata una scelta felice; in Francia è appena uscito un libro di racconti di badanti che Guido Lagomasino mi ha consigliato.

Particolarmente toccante anche la scelta di introdurre ogni capitolo con una poesia di una poetessa straniera su tematiche di migrazione. Natalia Bondarenko scrive:

Mi prendi in giro tu

per come parlo la tua lingua,

per come sfuggo alle sue regole

per come la maltratto (per forza

di cose), ma è soltanto

un fatto di abitudine, trasmesso

da madre a figlia, dal seno al sangue,

dalla radice all’albero che combatte

la sete e non muore […].

Partono col sostegno della famiglia che spera in benefici, ma a volte con l’ostilità di uno o più parenti. Ma in ogni caso giocano un ruolo da protagoniste in quel contesto, un ruolo attivo che spezza la visione di donna che accetta il proprio destino e dà vita a nuovi possibili orizzonti. È un riposizionarsi nel mondo. Diventano soggetti che portano reddito a tutta la famiglia. La difficoltà maggiore è rappresentata dalla lingua. «Non capire le cose, non comprendere le richieste crea disagio, è una barriera». Usano soprattutto la TV per imparare o in alcuni casi le stesse assistite o parenti, una ha la figlia maestra, insegnano loro l’italiano. Io ho avuto la netta impressione di vedere attraverso il racconto di queste vite pararsi davanti ai miei occhi lo svolgersi della storia europea, e non solo, dopo la caduta del muro di Berlino e soprattutto le ultime vicende delle guerre di confine in Georgia e in Ucraina dove c’è di mezzo la questione della Nato. Nelle parole di due giovani amiche, Galina e Tamara, partite appena ventenni dalla Georgia, si comprende la crisi economica e politica di questo paese dopo l’intervento della Russia del 2008 per impedire l’ingresso di questa repubblica nella Nato. Così come per l’Ucraina sappiamo che la questione dell’accettazione in Europa è causa del conflitto permanente nelle regioni del Donbass, confinanti con la Russia, che vogliono l’indipendenza e continuare a gravitare nell’orbita della Russia. Oltre l’Europa ho conosciuto le vicende della guerra civile nello Sri Lanka nei racconti dei badanti, una giovane coppia di quel paese che ha lavorato e abitato presso i miei suoceri per alcuni anni, accompagnandoli verso la morte.

Il titolo esplicita la caduta del senso di appartenenza, lo stare in bilico, un equilibrismo faticoso ma che può portare a scelte di libertà o a ricadute nello sradicamento sofferente se non si lavora sul senso del lavoro, sulle implicazioni e le potenzialità innovative di questa particolare esperienza relazionale.

Qui in Libreria abbiamo ascoltato un esempio portato da un’artista, Donatella Franchi, del tipo di lavoro simbolico che aiuta a dare un senso alla relazione fra badante, assistita e parente dell’assistita – in questo caso la madre centenaria di Donatella – la relazione madre e figlia e le diverse badanti con cui nel tempo Donatella ha costruito una relazione, facendo emergere la creatività nascosta di ognuna di loro e scoprendone gli aspetti umani, le storie familiari, la realtà politica del paese di provenienza, tessendo una rete di significati che ha riscattato e sollevato dalla pura materialità contrattuale il lavoro di cura («Donne con le ali», non a caso, s’intitola il suo lavoro creativo fatto di poesie, installazioni, libri d’artista).

Difficoltà di accasarsi nella lingua, nel paese di adozione, dovuta forse al fatto di avere ancora in mente il modello di famiglia ideale che non esiste più. Molte delle testimonianze ritengono che valga la pena affrontare i rischi, i pericoli del Gran Viaggio (le mafie degli intermediari, delle agenzie)! Ne parlano Galina dalla Georgia, Anastasia dall’Ucraina, Flor dalla Bulgaria: c’è il pericolo di essere derubate durante il viaggio di ritorno, ma ne vale la pena soprattutto per i figli. Dalle macerie nascono nuove scelte di vita oltre il machismo e le violenze dei mariti che bevono. Ma la prima vera trasformazione investe loro stesse. In un articolo su Italiaoggi ho letto recentemente della difficoltà del ritorno perché soprattutto nei paesi dell’Est c’è la continua richiesta di reddito e le badanti sono una fonte sicura. Rivestendo il ruolo di capofamiglia non riescono a sottrarsi alle richieste. Anche Paula dell’Ecuador dice: «Sono stata tentata dai soldi pensando che qui incontravo il paradiso… però non è così, è duro. Mi mancano tanto i miei figli… Oggi per me non c’è motivo per restare…». Ma dov’è allora la libertà femminile? Anche nell’impostazione, nella struttura del welfare italiano c’è ancora una forma mentis legata alla vecchia famiglia tradizionale. Non si vedono i cambiamenti? Ranija, filippina, racconta invece di una felice esperienza. Gestisce da tre anni un bed & breakfast, perché lei dice di sé che pensa positivo e ha affrontato l’ignoto con questo pensare positivo. Anche Vera, albanese, si è felicemente stabilita in Italia e Tamara ha un lavoro regolare in una casa di cura di suore e un ottimo rapporto con loro ed è soddisfatta della sua scelta di vita.

Nella recensione di questo libro, in Leggendaria n° 123 dal titolo La catena internazionale della cura, la giornalista Francesca Caminoli pone questa domanda: perché le autrici del libro s’interrogano sul confine poroso tra privato e pubblico, sulle famiglie e sui modelli di welfare?

Anche le ricerche pubblicate di recente come Viaggio nel lavoro di cura di Sara Picchi, Ediesse 2016, rilevano il carattere usurante e complesso di questo lavoro in quanto non esiste mansionario e si distingue solo fra assistito/a autosufficiente o non autosufficiente… Un progetto di ricerca del Comune di Milano del gruppo CuraMI, condotto da Soleterre e dall’Istituto di Ricerca Sociale (IRS) nel 2015, ha tracciato un percorso sperimentale con un gruppo di una quarantina di donne. Un lavoro di parola di decontaminazione dal lavoro totalizzante al fine di migliorare la vita e la relazione con le/i pazienti attraverso uno scambio di parola e di auto aiuto. La sperimentazione è stata guidata da una psicologa, un’antropologa e una consulente del lavoro. Guadagnare tempo per sé, alla fine questa è stata la conclusione, migliora anche la relazione con l’assistita/o. Il punto di vista adottato era dalla parte delle lavoratrici e non come di solito succede dalla parte della famiglia italiana che richiede garanzie del servizio prestato.

Libreria delle donne – mercoledì 27 settembre 2017

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