8 Gennaio 2006

La forma dello sguardo: poesia e realtà. Risonanze tra i testi di Anna Santoro e altre voci femminili contemporanee

Mercoledì 8 marzo 2006 al Circolo della rosa di Milano si è discusso di questi temi a partire dal libro di Anna Santoro certincantamenti (Marsilio 2005).
La poesia cosa aggiunge alla politica e all’economia?
Si può farne una pratica politica?
Che misura porta al consumo (-ismo) culturale?
Come riesce ad afferrare la materialità pulsante della vita?
La discussione è stata avviata da Luciana Tavernini, di cui riproduciamo l’intervento introduttivo. Clelia Pallotta ha letto le poesie citate e Anna Santoro ha interloquito con le presenti.

 

di Luciana Tavernini

 


Le riflessioni di oggi sono frutto di una pratica di lettura dei testi che pone in relazione le risonanze che essi provocano in me. Io mi colloco nel “tra testi”, testi che risuonano come voce viva di chi li ha scritti. Questa pratica di mettere in contatto è quella che seguo anche con le persone che conosco, fa nascere del nuovo che poi percorre strade a me ignote, pone in movimento.
Più che con la critica letteraria ha somiglianze con l’alchimia, tanto cara a María Zambrano, o più modestamente col mio modo di cucinare. Utilizzo ciò che ho a disposizione, compreso il tempo e come mi sento e sento in quel momento, e le centinaia di ricette che ho in mente e qualche nuova che cerco al momento, e poi unisco il tutto per creare qualcosa che, a giudicare dal modo con cui i miei annusano e scoperchiano le pentole, se non è già in tavola, risulta gradita. Non si tratta di proporre interpretazioni univoche quanto di accostarsi e di accostare, dicendo le ragioni della vicinanza scoperta perché altri e altre siano spinti a dire le loro.
Le poesie di Anna Santoro mi hanno accompagnato in questi mesi, facendo balenare domande e contatti con quello che udivo negli incontri qui in Libreria e spingendomi a leggere fino in fondo e più a fondo alcuni testi . Mi riferisco a Filosofia e poesia di María Zambrano, a Pro e contro la bomba atomica della sua amica Elsa Morante, a Una filosofa innamorata di Annarosa Buttarelli, a La diferencia sexual en la historia della mia amica e maestra Milagros Rivera y Garretas, a L’aspetto orale della poesia di Ida Travi e al più bel testo che io abbia letto sulla depressione, o meglio malinconia femminile e le sue cause individuate attraverso l’incontro con figure letterarie, e cioè La scrittura del deserto di Wanda Tommasi.
Proprio per la mia passione per la storia vorrei partire da una riflessione sulla memoria che Pina De Luca , nell’introduzione a Filosofia e poesia, trae da Zambrano. “All’origine della memoria c’ è la ricerca di qualcosa di perduto e irrinunciabile […] qualcosa che esige di essere nuovamente guardato.” Guardare di nuovo ha il senso del far rinascere, del restituire pienezza di vita a ciò che si è lasciato passare e si è visto solo a metà. Ridare tempo, far sì che ciò che “fu a malapena vissuto, riacquisti il tempo che gli fu sottratto”.
La memoria produce “una lentezza capace di assecondare la fatica di nascere di cose e pensieri rimasti inespressi o incompiuti per misconoscimento di un tempo che è in sé plurale e diversificato”, perché vi è la necessità di un presente ampio, capace di contenere quel che è stato accantonato nel tempo accelerato di oggi. “Compito del pensiero deve essere accogliere nel proprio presente i tempi disparati che profondamente gli appartengono.”
Anna nella poesia Ti sminuzzo memoria (p. 9) mette in luce il bisogno di nutrirsi di quella parte del passato, quella che non si impone, “mai dominante”, per dare un senso al presente; e il doloroso lavoro del scegliere, l’esitazione tra la memoria dominante, consolatoria direi io, e la migliore, la più cruda e dolorosa, difficile da agghindare, quella che può davvero lenire “il frastuono dei pianti e dei silenzi” .
Perché il dolore è anche ciò che ci fa percepire il reale, come segnalava Artaud, che abbiamo riscoperto nell’emozionante mostra al PAC , appena conclusasi. E di nuovo Anna in A volte è un fruscio lieve (p. 34) lo ha ben presente. Il dolore “un fruscio lieve/ un battito d’ali di farfalla nelle tempie/” mentre lei vive, “badando a scostare dalla testa/ lampi di pensieri/”, le rende presente il corpo e l’intelligenza del reale che comporta. Porta all’ accettazione “dell’essenzialità della vita, colta nelle sue componenti più semplici”, quella che la Bachmann chiama “l’omelia del deserto”. Come ci racconta Wanda Tommasi, quello che salva la protagonista del Libro del deserto è il lasciar affiorare l’elementarità del bisogno, “il mistico congiungersi di inspirare ed espirare, camminare e riposare, l’alleluia della sopravvivenza nel nulla”.10 Così, più gioiosamente, Santoro, consapevole del pericolo di cadere nell’ elegia della sofferenza come se essa fosse l’unica possibilità per arrivare alla conoscenza, in Nulla ci è dato intendere (p. 11) ci presenta l’elementarità della vita nell’erba viva che “ha tepore di polpastrelli/ lungo il corpo”, nell’aria azzurra alle tue spalle. Tutto è sì breve, ma il tempo è lungo dentro di noi.

 

Con l’ultima poesia si presenta un’ulteriore riflessione sul tempo, vicina a quella di Zambrano, un senso del tempo che potremmo dire “estasi del presente”. Come dice Annarosa Buttarelli, mutuandolo da Zambrano, “estasi intesa come stato di continua e necessaria relazione con ciò che è qui e ora così da rendere il tempo incessantemente presente […] verso cui ci si può disporre in una relazione vivente che ricerca senso mentre le cose accadono e mentre le cose parlano: una relazione di ascolto in compresenza.”11 Quello che noi chiamiamo politica del simbolico e che consente di “svolgere uno speciale servizio all’umanità: offrirsi – offrire le proprie letture di ciò che accade”.12
Presente quindi non come “sinonimo di attualità, perché se tutto fosse attualizzato, esaurito nella potenzialità di essere, non ci sarebbe lo spazio per portare alla luce l’invisibile del presente, invisibile che spesso si offre come una possibilità non percepita dal senso comune. Inoltre, nel presente restano e resistono frammenti di altri tempi e tutto si gioca nella capacità di saperli leggere, slittando su un piano non aderente al presente stesso. Questo tipo di slittamento senza sradicamento e senza fuga è ciò che sembrano fare più donne che uomini […]”.13 E’ ciò che ci permette di tenere vivo il rapporto con le giovani e i giovani. Come dice Anna in Alla tua età – amore mio – (p. 78), dedicata a suo figlio e che io, a mia volta, ho inviato al mio, occorre “farsi trafiggere il cuore” nel riconoscere in loro ciò che è rimasto vivo del nostro passato e renderlo perciò ancora vivo.
Infatti, come dice Elsa Morante in Pro e contro la bomba atomica, e come ci ha ricordato in modo appassionato Francesca Comencini14 quando ci ha presentato il suo documentario sulla scrittrice, allo scrittore, al poeta “sta a cuore tutto quanto accade”, e aggiunge “fuorché la letteratura”.15 Interessa il reale.
“Il realismo è uno sguardo ammirato sul mondo che vi si depone senza pretesa di ridurlo a qualcos’altro.”16 Tale ammirazione disinteressata è un essere innamorati del mondo, è un legame amoroso senza che vi sia la violenza del possesso, è cura e attenzione. Questo sguardo innamorato, che a volte ci riempie di felicità perché anche la grazia e l’allegria ci aprono strade di conoscenza, lo ritrovo in Essere felice da parlottare da sola (p. 28) dove “/nulla c’è di nuovo eppure…/forse il sole la luce dietro gli alberi/ quel cane/.
Significa dunque entrare in relazione con la materia “ardosa y creadora”.17 Questa materia che, come ci insegna la medievista María-Milagros Rivera y Garretas18, nella cosmogonia feudale era intesa come materia prima, principio creatore femminile accanto a quello maschile. Questa dottrina, nei secoli XII e XIII, venne chiamata dei due infiniti19. Pur condannata come eresia, essa continuò a vivere nei secoli ad esempio tra le beghine, nel movimento del Libero spirito, in Juan Huss, in Giordano Bruno fino, come sottolinea Milagros, a Clarice Lispector. In Vicino al cuore selvaggio nel 1944 scrive:

 

“Ma dov’era in fondo dei conti la loro divinità? Persino nelle più deboli c’era l’ombra di quella conoscenza che non si acquisisce con l’intelligenza. L’intelligenza delle cose cieche. La forza della pietra che, cadendo, ne spinge un’altra che finisce per cadere nel mare e ammazzare un pesce. A volte quella stessa forza la si trovava nelle donne che erano semplicemente madri e mogli, timide femmine del maschio, come la zia, come Armanda. Eppure quella forza, quell’unità nella debolezza… Oh, forse stava esagerando, forse la divinità delle donne non era specifica, consisteva solo nel fatto che esistevano. Sì, sì, ecco la verità: loro esistevano più degli altri, erano il simbolo della cosa nella cosa stessa. E la donna era proprio il mistero, scoprì. C’era in tutte loro, una qualità da materia prima, qualcosa che poteva anche definirsi ma che non si realizzava mai perché la sua essenza stessa era quella di <<diventare>>. Non era forse attraverso di lei che si univa il passato al futuro e a tutti i tempi?”20

 

Dal XIV secolo con l’Umanesimo e più intensamente nel XVI secolo con i tribunali dell’ Inquisizione, il principio femminile, materia prima, venne sottomesso a quello maschile, fino a sparire, non nella vita né nella strada perché il mondo non può sussistere. I due infiniti furono ridotti a uno solo. Tale annientamento giunse al suo culmine nel XX secolo con i totalitarismi, che cercarono di sradicare o rendere insignificanti tutte le differenze. Il nazismo fu un esempio estremo del “regime o politica dell’uno”.
Fu nel XVI secolo che si inaugurò una linea storica e politica che concentrava l’energia umana nell’agire attivamente, che valorizzava l’autonomia, il non dipendere da nulla, mentre disprezzava la passività, la ricettività, il lasciarsi dare.
Invece l’adesione innamorata alla realtà trasforma il poeta nello spazio vuoto in cui le cose si depongono nel loro essere materia, in cui l’altro da sé può manifestarsi.
“Si tratta di tornare alla realtà sommersa da tutto ciò che viene costruito a colpi di “io” e di “voler essere”, istanze che si sono tradotte nella storia in modo da renderla catastrofica quando non sanguinaria.”21
Penso qui a una poesia di Anna Avanza piedi di piombo (p. 60) che mostra come la decisione della volontà fa avanzare e massacrare, senza sapersi fermare, senza pensiero.
Compito di chi fa poesia è lottare contro l’irrealtà (uso un termine di Elsa Morante), testimoniando la realtà, “perennemente viva, accesa, attuale”,22 in cui anche la morte è un movimento della vita. E’ l’elementare paura dell’esistenza che porta all’evasione da se stessi, all’assuefazione all’irrealtà, alla disintegrazione della coscienza umana. Le bombe e i campi di sterminio sono dunque la manifestazione del disastro avvenuto prima nella coscienza.
Proprio perché partecipa alla vicenda angosciosa dei suoi contemporanei e ne ha condiviso rischi e paure, il poeta (e qui uso il neutro maschile per rispetto a Morante e Zambrano) può mostrare i comportamenti di chi è assuefatto all’irrealtà e fissare in faccia i mostri da essi generati.
Penso qui alla poesia Aleggia una cupezza intorno alle persone intelligenti (p. 18) che ci presenta tre tipi di persone immerse nell’irrealtà del cinismo, del benessere, della stupidità che ignora. Una poesia a me particolarmente cara perché mi ha aiutato a capire la verità delle osservazioni di mia figlia sui suoi compagni e compagne di scuola e sul pericolo che lei stessa correva.

 

Credo che per Anna la condizione di chi vive nel cosiddetto Sud del mondo, in particolare dei bambine e bambine, sia quello che per Elsa furono la bomba atomica e i campi di sterminio.
Mi riferisco a Piccola figlia di mio figlio (p. 58), dove l’amore per una bimba non ancora pensata diviene veicolo per la non accettazione di bambini con altri destini che non siano amorosi.
Non si tratta, per preservare i buoni sentimenti o piacere alle anime bennate, di travisare la tragedia reale della vita. Si commetterebbe – dice Morante – quello che il Vangelo dichiara il peggior delitto, il peccato contro lo spirito. “Il movimento reale della vita è segnato dagli incontri e dalle opposizioni, dagli accoppiamenti e dalle stragi.”23
“Per quanto, lungo il corso della sua esistenza, possa accadere al poeta, come ad ogni uomo, di essere ridotto dalla sventura alla nuda misura dell’orrore, fino alla certezza che questo orrore resterà ormai legge della sua mente, non è detto che questa sarà l’ultima risposta del suo destino. Se la sua coscienza non sarà discesa nell’irrealtà, ma anzi l’orrore stesso gli diventerà una risposta reale (poesia), nel punto in cui segnerà le sue parole sulla carta, lui compirà un atto di ottimismo.” 24 Qui Morante racconta la storia di Miklós Radnóti, un giovane poeta ebreo ungherese, grazioso e allegro, che piaceva alle ragazze. Portato in un campo di sterminio, ha continuato a scrivere poesie, fino all’ultima quando, sull’orlo della fossa dove è stato ucciso, dice: Ora la morte è un fiore di pazienza. Lì l’hanno trovata insieme ai suoi resti. “E così ci è rimasta, miracolosamente, la prova, che pure dentro la macchina “perfetta” della disintegrazione, che lo annientava fisicamente, la sua coscienza reale rimaneva integra. E’ morto nel 1944. Ma io, – confessa Morante – solo da poco tempo ho saputo che era esistito. E la scoperta che questo ragazzo ha potuto esistere sulla Terra, per me è stata una notizia piena di allegria. L’avventura di questo ragazzo assassinato è uno scandalo inaudito per la burocrazia organizzata dei lager, e delle bombe atomiche. Scandalo non per l’assassinio, che è nel loro sistema. Ma per la testimonianza postuma di realtà (l’allegria della notizia) che è contro il loro sistema.”25
Questo bisogno di testimoniare l’aspetto tragico della realtà lo sento in poesie come Un po’ mi annienta (p. 31), dove da un lato viene mostrato è il senso di annientamento di fronte alla cattiveria dilagante, che ha occhi freddi, mani rattrappite su corpi luccicanti di monete, e dall’altro l’accoramento e il disgusto per aver superato la soglia della vivibilità con distacco. Insomma Santoro sa cogliere il sentire che ci permette di non assuefarci. In Ci sono bambine e bambini (p. 68), questi vengono descritti per ciò che non hanno mai potuto fare. Piccole cose che dovrebbero appartenere ad ogni infanzia: sputare la pappa in faccia a mamma e papà, avere qualcuno che li vezzeggi e pensi ai mostri che li spaventano, e che invece abbiamo condannati. E in contrapposizione pone signori che brindano in coppe d’oro e fanno il broncio, lasciandosi cadere in lenzuola di miele. “Questa è la verità”, ripete due volte: vi è dunque una connessione che ci coinvolge.
Infatti chi fa poesia – dice Morante – “è destinato a smascherare gli imbrogli.” E continua: “E una poesia, una volta partita, non si ferma più, ma corre e si moltiplica, arrivando da tutte le parti, fin dove il poeta stesso non se lo sarebbe aspettato”. Il poeta, infatti, “per sua natura ha bisogno degli altri, specie dei diversi da lui. Senza gli altri è un uomo disgraziato”.26 Credo che questo abbia spinto Anna a farsi promotrice della carovana dei poeti contro la guerra.27
Fare politica significa anche confliggere, un conflitto sì relazionale, che non distrugge l’altro, ma un conflitto che fa paura a molte di noi. Nell’ultimo incontro con Chiara Zamboni,28 si è messa in luce una motivazione di questa paura: l’evocazione della potenza materna e il corrispondente senso di annichilimento provato da neonate, quando la madre non rispondeva ai nostri bisogni. Da qui la rabbia come sentimento che esprime la ribellione alla paura dell’annichilimento, come se chi è in conflitto con noi potesse negarci totalmente. Si diceva dell’ “eccesso dell’eccesso”, di certe reazioni femminili che portano alla pietrificazione o alla fuga. Io in quell’occasione ho segnalato una pratica che mi consente di tenerla a bada e cioè il mettere in poesia ciò che si muove dentro di me.
In molte poesie di Anna ho ritrovato la capacità di fare i conti con la rabbia, perché non la si inchioda in un’ univoca interpretazione e neppure si lascia al non detto il potere di ampliarsi fino a schiacciare e scacciare l’altro.
Per esempio in Vivono – a volte vorremmo farne a meno (p. 14) dall’antagonismo così forte “che le dita si spezzano di ghiaccio/ con crepitii secchi e netti/” si passa alla confusione nel ventre “tra chicchi di grano semi di passiflora/ azzurrata mattoni roventi di dolore/” fino alla pietas che strazia.

 

Infine vorrei aggiungere qualcosa sul mio modo di leggere poesia. Contrariamente a quello che succede con molti libri che spesso vengono letti e accumulati, oppure di cui si vuole sapere solo quel tanto che basta per parlarne fin che se ne parla, insomma dei libri oggetto di un’industria culturale che li vuole quasi subito obsoleti, un libro di poesia si rivela grazie al suo ripetuto uso.
Si legge adagio, poco per volta, ci si ritorna, non si consuma. Ogni lettura ce ne rivela aspetti nuovi. All’inizio ci colpisce, come ricorda Ida Travi, la musicalità, che ci riporta alla lingua della madre, della nutrice, “lingua peculiare, presimbolica, viva di contatti interni tra corpo e voce”;29 quella che porta con sé il massimo di informazione, proprio dove la parola non è compresa nel suo significato, ma ascoltata nel suo fluire; quella che ci ricorda il piacere immenso del legame col corpovoce materno a cui è impossibile tornare, ma che può riaffiorare proprio con l’ascolto della poesia.
Poi, pian piano, giunge il lampo della rivelazione, quella luce sul reale che non rinuncia all’ombra, luce aurorale appunto. Infatti la poesia è scrittura di trasformazione che accompagna il cambiamento di chi scrive e che intende coinvolgere in un processo analogo chi legge. “Chi scrive e chi legge, nella proposta di María Zambrano, si lega – anzi, è già legato – in un patto di necessità: ‘Quel che si pubblica serve perché qualcuno, uno o tanti, viva tenendo presente ciò che è venuto a conoscere, perché viva in modo diverso dopo averlo conosciuto’. […] Uno o una bastano perché il patto regga e si crei una discontinuità nel procedere, altrimenti lineare, dei pensieri presenti nel mondo.”30
La poesia, permettetemi questo paragone in onore delle nostre cuoche di cui Clelia è un’esimia rappresentante, la poesia è come quelle vecchie padelle nere di ferro per i fritti, quelle che il lungo uso rende insostituibili quando in cucina si vuol fare in modo

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