24 Maggio 2011

Letizia Comba

Liliana Rampello

Presento qui di seguito i due interventi centrali, di Caterina Spillari e Chiara Zamboni, della giornata di discussione al Circolo della Rosa di Milano (24 maggio 2011), sul pensiero e il lavoro di Letizia Comba, in occasione dell’uscita del suo libro Tessere. Scritti, 1967-2000, il Saggiatore 2011.

Ho avuto occasione di seguire la costruzione del testo dal punto di vista editoriale e di seguirne la pubblicazione affiancando i quattro curatori, Caterina Spillari, Gabriella Baiguera, Alberto Sacchetto e Manuela Vaccari, imparando molte cose.
Sul valore di questa donna, sulla libertà del suo agire e pensare, sulla traccia profonda che la sua esistenza ha lasciato fra le sue allieve/i, i colleghi e non solo. Di tutto questo dà viva testimonianza questo libro, ricchissimo di spunti di riflessione ancora attuali, e di cui consiglio vivamente la lettura, come forma di nuova conoscenza di lei.

I due testi che ora mettiamo in rete sono molto intensi e belli, come capita quando relazioni significative ci hanno segnato.

Intervento di Chiara Zamboni

Tessere è il libro che presento. Si tratta degli scritti di Letizia Comba pubblicati tra il 1967 e il 2000, editi da il Saggiatore nel 2011. Non sono tutti ma quelli scelti dai curatori e cioè Caterina Spillari, Gabriella Baiguera, Alberto Sacchetto e Manuela Vaccari, allievi di Letizia. Leggerlo è stare vicino ad una donna, Letizia, che ha fatto del suo percorso di studio, di lavoro e di ricerca una via di trasformazione sia di sé che delle donne e gli uomini che le stavano vicino.
È un libro che per me personalmente è stato un dono. Non solo mi ha permesso di stare di nuovo accanto a Letizia, per tutto il tempo che l’ho letto e anche dopo per i pensieri, le immagini che il libro ha suscitato. Mi ha dato la possibilità di ascoltarla, di udirne la voce un po’ bassa e ironica attraverso la pagina scritta, di sentirla presente nella sua figura sottile. Ma anche mi ha permesso di apprendere riflessioni e percorsi di Letizia che mi erano sconosciuti. È stato così un modo di incontrarla per altre vie.
Il libro è diviso in tre parti. La prima parte è introdotta da Renato Rozzi, che è uno psicoanalista e psicologo atipico, per una sua ricerca diversa da quella psicologia che oggettiva l’essere umano, e con la quale è sempre entrato in polemica. È stato vicino a Letizia non solo per questo modo diverso di vivere e pensare la psicologia, ma anche perché ha collaborato con lei a Gorizia nell’équipe di Franco Basaglia e poi l’ha ritrovata come collega all’università di Urbino e di Verona.
Questa sezione è dunque dedicata agli scritti attorno alla psicologia, alla famiglia. Si tratta in genere di scritti nel pieno di esperienze in corso: l’avventura di Basaglia e i suoi collaboratori nel riformare radicalmente gli ospedali psichiatrici, la discussione sul limite tra normalità e follia per una critica alla psichiatria prendendo le misure (e le distanze) dagli scritti di Ronald Laing. Scritti da cui si percepisce il dibattito in corso, le lacerazioni, le scoperte attraverso l’esperienza in prima persona nella continua discussione con gli altri.
Significativo uno dei testi, quello in cui Letizia racconta e interpreta i passaggi per chiudere l’ultimo reparto dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. È un testo pubblicato nel 1968 in L’istituzione negata a cura di Basaglia. Il saggio è intitolato C donne: l’ultimo reparto chiuso. Letizia è attenta alla singolarità delle donne rinchiuse, il rapporto tra sé e sé e lo spazio. La difficile presa di coscienza delle infermiere. I tentennamenti nell’uscire. Il che suggerisce quanto sia difficile essere libere, il desiderio diffuso di sicurezza e di protezione. Racconta una vera e propria storia di donne dal luogo carcerario dell’ospedale ad altre forme di esistenza.
Più in generale in questa prima parte si avverte tutta la ricerca di Letizia rivolta a trovare un modo di stare in rapporto a donne e uomini lavorando sulla relazione con loro e mettendo tra parentesi qualsiasi forma di oggettivazione. Una oggettivazione che riemerge facilmente, quando si è in rapporto con i diversi, con i sofferenti, e semplicemente ci si appoggia alle interpretazioni cliniche che ne fanno dei casi.
Si confronta con Ronald Laing in due testi differenti, che sono introduzioni a rispettivi libri di Laing pubblicati in Italia. Qui lei affina la riflessione sulle modalità di stare nella relazione con gli schizofrenici senza cadere nella trappola facile di oggettivarli.
Eppure il linguaggio che lei adopera negli scritti tra il ’68 e il ’77 è secco, descrittivo, ripulito di ogni elemento emotivo e soggettivante. È un linguaggio che sembra ricalcare nella forma proprio quello stile scientifico, tecnico dal quale sul piano di un pensiero d’esperienza stava prendendo le distanze. Seguendola nel percorso degli anni si nota come lo stile di scrittura di Letizia sia ciò che più si modifica. È chiaramente alla ricerca di una scrittura che metta in scacco le trappole di una certa epistemologia. Non si tratta soltanto di porre al centro la relazione tra lei e le degenti, tra lei e gli handicappati, tra lei e la famiglia che genera persone schizofreniche. Si tratta anche di cambiare il modo di parlare di questa relazione. E allora sempre più si appoggia a domande. A punti interrogativi. A questioni lasciate aperte. E questo per sottrarsi al dispositivo soggetto-oggetto sul quale la nostra lingua si appoggia.
È evidente come lei considerasse il modo, lo stile di parlare di un certo argomento come già la via per far vedere l’essenziale che le stava a cuore. Si prenda in questo senso la seconda parte del libro, intitolata Da bocca a orecchio, introdotta da un colloquio delle curatrici con François Fleury. Fleury è un etnoterapeuta, psicoterapeuta e arteterapeuta svizzero. La sua conoscenza di Letizia risale a quando dirigeva il teatro Onze di Losanna. Ma Fleury la ricorda soprattutto nella sua funzione di docente. Per lei il sapere come la ricerca erano essenziali se in questo coinvolgeva gli studenti. Ora il condividere con loro era possibile se le studentesse e gli studenti si mettevano in gioco, modificando il proprio percorso esistenziale. E questo dipendeva in gran parte da loro. Soltanto una soggettività presa nella sua singolarità possiede la potenzialità di aprirsi ad una trasformazione, se pure sollecitata.
Questa seconda parte porta come titolo Da bocca a orecchio. Si tratta di un’espressione familiare, ricorrente nei discorsi di Letizia Comba. Allude al fatto che un certo genere di sapere trasformativo, in qualche forma iniziatico, può essere comunicato solo da bocca a orecchio. In presenza. La presenza reciproca è la garanzia che la verità di ciò che si dice prenda misura dalla relazione e dal contesto condiviso. È un’idea che ha radici antiche. La troviamo nella Lettera VII di Platone, quando ricordava che i libri, gli scritti possono andare nelle mani di qualsiasi persona, ed essere così travisati, usati per scopi che non sono quelli di chi ha scritto. E che tutto questo può essere evitato ragionando in presenza, ben disposti e attenti agli altri.
È chiaro che Letizia Comba valorizza in questo senso la tradizione delle pratiche sapienziali, nelle quali la trasmissione è orale e implica la trasformazione di entrambe le persone coinvolte nel processo. È molto interessante che in un suo testo interpreti in questo modo la stessa pratica psicoanalitica, dando merito a Freud di aver creato un contesto di questo genere.
Nel far questo – proprio in questa seconda parte – lei incomincia a cambiare lo stile di scrittura e questo per dare spazio ad un sapere che deve preservare e custodire qualcosa di non svelabile del tutto. Un sapere che in parte – anche se solo in parte – ha necessità di restare enigmatico, non tanto per un ossequio sacrale, quanto per poter lasciare spazio a chi legge di compiere un proprio percorso. Volendo cambiare la forma della scrittura, e dunque del pensiero, introduce, come passaggio argomentativo fondamentale, il racconto di miti e leggende, di fiabe. E si guarda bene dal darne una interpretazione. Le lascia piuttosto accanto, ma in posizione centrale, a osservazioni e riflessioni di registro diverso.
Porto un esempio. In diversi testi si interroga sulla figura della madre e del padre. In uno intitolato Tre paia di mani ovvero chi è il padre introduce una leggenda indiana. Il racconto mostra che nel padre i padri sono molti e che un figlio porta già in sé la potenzialità di essere padre e che le genealogie – quella paterne qui, ma si può pensare anche a quelle materne – sono molto più complesse del rapporto con il proprio padre.
Di mio, mi chiedo cosa siano una leggenda, un mito, una fiaba. E mi rispondo: sono come un sogno. Un luogo nel quale è sospeso – non negato – il confine tra realtà e irrealtà, fra razionalità e irrazionalità. E permette perciò che ci apriamo ad una visione che altrimenti non avremmo. Non ci sarebbe possibile concepirla.
È questo ad essere un passaggio molto importante nell’andamento dello stile di pensiero di Letizia Comba. La fiaba, la leggenda, il racconto di un mito sospendono tali confini e perciò fanno vedere di più. È per questo in fondo che all’università di Verona, all’interno degli insegnamenti di Psicologia, aveva preferito scegliere l’insegnamento di Psicologia della letteratura e dell’arte, perché la lasciava molto più libera di dare spazio ad un pensiero immaginativo di questo tipo.
Le radici religiose di Letizia erano valdesi, dunque appartenevano ad una cultura protestante, nella quale le immagini dei santi e di Dio erano sospese, come cancellate. E dunque penso che debba sicuramente aver fatto un percorso notevole di trasformazione interiore per arrivare ad affermare il bisogno che l’anima ha di immagini, di leggende, di narrazioni. Sosteneva che anche il divino ha bisogno di una molteplicità di immagini. Era arrivata a diffidare del monoteismo protestante con il suo amore per il vuoto, per l’ascetismo nei confronti delle immagini. Era il politeismo indiano, la molteplicità di dei della religione indi che le sembrava andare incontro ai bisogni dell’anima.
Arrivo così all’ultima parte del libro, intitolata Relazioni viventi. Sono stata intervistata da Caterina Spillari e da Gabriella Baiguera che hanno poi dato forma alla nostra conversazione in modo che facesse da introduzione a questa parte. Le coordinate di questa sezione sono innanzitutto il rapporto che Letizia Comba è andata creando con le sue allieve e allievi – più donne che uomini -, in secondo luogo il rapporto con Diotima, comunità di filosofia femminile dell’università di Verona.
I testi di questa parte ruotano attorno all’attenzione per la biografia di singole donne, per la loro posizione nel mondo, vista nella prospettiva soggettiva. Si tratta di Paolina Leopardi, della figlia di Cesare Lombroso, di Teresa Noce, e di altre figure femminili ascoltate con grande finezza attraverso le lettere, i diari, che sono un genere di scrittura che dà forma alla soggettività. Si nota in Letizia uno sguardo sulla politicità di tale trasformazione femminile, di come si modifica il rapporto con il sociale.
Devo dire che mi aspettavo, prendendo in mano il libro, che in questa sezione, quella che raccoglie gli scritti di Letizia nel periodo in cui la frequentavo a Verona, ci fosse questa attenzione alle figure femminili viste a partire da ciò che loro stesse dicevano di sé e del mondo che le circondava. Quello che mi ha sorpreso, invece, leggendo l’intera raccolta dei suo scritti, è che l’attenzione per l’esperienza femminile l’ha sempre coinvolta. Non è nata, come io ingenuamente credevo, dallo scambio con le sue allieve e con le donne di Diotima. Ha radici molto più antiche, che coincidono con il ’68 e l’inizio del femminismo. Non a caso, ad esempio, già dai primi testi pubblicati su Quaderni piacentini pone al centro la figura della madre come la questione che il movimento femminista ha bisogno di discutere, chiarire, fare proprio. E sulla madre, le madri, lei come madre, le figure mitiche delle madri torna e ritorna sollecitando una indagine e un ragionamento politici. Naturalmente di una politica che ha a che fare con la polis e che cresce con la consapevolezza simbolica.
Di sé come maestra e del suo rapporto con le allieve e del percorso che questo implica Letizia scrive soprattutto nell’introduzione a La materia dell’anima, che qui ritroviamo. E vorrei attirare l’attenzione sul fatto che, quando parlava di un percorso dell’anima, si teneva alla larga da ogni forma di sentimentalismo, emotivo e superficiale. Lo si vede anche da come parla con grande stima di Diotima, la comunità di filosofe guidata da Luisa Muraro. Scrive che la sua stima va al fatto che si tratta di una comunità che suscita un appello continuo, una continua messa in discussione. E che all’intimismo e alla psicologia contrappone la politica delle donne e la filosofia.
È a questo punto molto interessante per me ritornare sul dissidio che si è aperto tra Letizia e la comunità di Diotima all’interno di uno spazio di grande vicinanza. È stato un dissidio che ha riguardato la possibilità o meno di nominare l’obbedienza come pratica possibile della politica delle donne. Il presupposto che tale pratica sia politica dipende dal fatto che nel rapporto maestra e allieva l’obbedienza è un gesto che rende libere dalla stretta del simbolico dominante. Non solo affidarsi ad una donna, ma obbedire alla misura che ti suggerisce, ti rende libera nei confronti delle regole implicite del contesto sociale già ordinato. È una pratica che deriva dalla mistica, dai percorsi sapienziali, e che lei riteneva dovesse rimanere in quei contesti e non sconfinare nella politica.
Letizia, aprendo la polemica e citando Simone Weil, scrive che esiste un’obbedienza che porta alla schiavitù come anche una che rende liberi. L’obbedienza che rende liberi è tale in quanto implica modificazione, trasformazione personale. A questo punto lei pone – ci pone a Diotima – quella questione che trovo tuttora molto interessante e delicata. Sostanzialmente consiste in questo. La politica delle donne chiede un’obbedienza ad un’altra donna per avere libertà nei confronti del simbolico dominante, va bene, ma se non c’è una trasformazione interiore, un percorso soggettivo verso qualcosa che non sappiamo, verso un movimento infinito, può risultare banalmente una nuova etica, che vincola con nuove norme, diverse da quelle dell’ordine simbolico dato, certo, ma sempre comunque norme che si ammantano della forza dei valori etici. Dei vincoli normativi. Mentre è implicito in questo ragionamento che una pratica, come quella dell’obbedienza nel rapporto maestra allieva, abbia valore in quanto spinge ad una nuova dimensione di sé tutta da scoprire. Altrimenti questa pratica, come tutte le altre pratiche susseguitesi nella politica delle donne, finiscono per essere norme esteriori date all’agire, non implicano un dibattimento tra sé e sé, un divenire altri.
Trovo vera questa questione. Può avvenire che le pratiche politiche delle donne diventino normative, vincolanti solo esteriormente, mentre ciò che caratterizza tale movimento nelle diverse sue forme è la modificazione di sé in un percorso di autocoscienza. C’è una linea sottile che divide un piano dall’altro, una linea a volte difficile da individuare, ma – è questa la mia risposta a Letizia – vale la pena correre il rischio.
E ora è un peccato non poter continuare questa polemica con lei. È doloroso.

Intervento di Caterina Spillari

Vorrei raccontarvi le vicende che riguardano la lavorazione di questo libro di cui, con Manuela Gabriella e Alberto, mi sono presa cura, non solo per non dimenticare, ma anche per il desiderio di ritrovare e di ritrovarsi in una relazione che, almeno per me, ha lasciato un segno profondo, e per il desiderio di rimettere in movimento pezzi importanti del lavoro di ricerca e trasmissione praticato da Letizia.

Direi che non si poteva non fare: Letizia aveva lavorato negli ultimi 10 anni sulla trasmissione nelle genealogie femminili – con una progressione continua di pensiero e di oggetti di ricerca, ma la questione della trasmissione rimaneva il nodo, sia che ci si occupasse di donne più o meno note sia che ci si occupasse delle “grandi Signore” del mito come Kali o Inanna-.
Si era occupata di come avvicinare queste “antenate” (come le chiamava lei), le interessava incontrarle per cogliere in questo incontro “i movimenti nostri e loro”, per vedere, nei rapidi movimenti delle diverse epoche, vicinanze e distanze, trasformazioni e scostamenti, per nutrire e articolare il nostro sguardo su di noi e la nostra storia.
Le loro parole erano il luogo del nostro incontro, lo spazio possibile per pensare e sentire la relazione che volevamo aprire e nutrire.
Di parole dense e autorevoli Letizia ce ne ha lasciate molte, scritte, registrate, appuntate da lei o da chi la ascoltava, parole pubbliche e parole private.
Ci ha lasciato una “materia dell’anima” (è il titolo del suo ultimo libro e mi sembra una metafora appropriata per nominare la qualità delle parole ci ha lasciato) per continuare la relazione con lei e offrire ad altre/altri la possibilità di incontrarla
Non si poteva non fare perché, almeno per me, c’era un desiderio forte di vivificare quella qualità di pensiero che Letizia offriva e che chiedeva di praticare.
Riprendere in mano i suoi scritti, riorganizzarli, contestualizzarli, mi ha consentito di ritrovarla nei grandi temi sui quali lavorava e soprattutto nel suo metodo di ricerca rigoroso rispetto all’andamento del pensiero e attento al proprio sentire.
Mi ha consentito di ritrovarmi in una relazione magistrale fortemente autorevole, che mi ha lasciato, tra le molte cose importanti (e impegnative), la possibilità di avvicinarmi al sapere con uno sguardo nuovo, uno sguardo che consente di allargare il contesto della conoscenza anche verso territori interiori, senza l’urgenza di chiudere, senza la necessità di definire, ma rimanendo aperta e disponibile a nuove evocazioni. Diceva che è molto più interessante una buona domanda che una risposta risolutiva.

Questi i perché che hanno mosso il libro
Vi racconto il come

Nel 2002, un anno dopo la pubblicazione postuma della “Materia dell’Anima” con il gruppo che si era dedicato alla lavorazione di questo libro, ci eravamo dette di voler pubblicare alcuni lavori di Letizia. Ci era chiaro che lo volevamo fare, ma non sapevamo il come né esattamente il cosa.
Con Manuela avevamo iniziato a trascrivere gli appunti dell’ultimo corso di Letizia all’Università (corso sulla discesa agli inferi di Inanna) e a sbobinare le lezioni che erano state registrate.
Ci sembrava logico partire da lì, perché Letizia era riuscita a portare in aula temi che ci riguardavano profondamente, ed era riuscita a toccarci non solo intellettualmente – questa era una delle doti di Letizia – elaborandoli con un rigore e un’attenzione che ci liberava da ogni “sbigottimento e autobiografismo”, per avvicinarci al senso degli archetipi che si mostravano nel mito, alle loro rappresentazioni, facendoli risuonare in ognuno di noi.
Questa era la caratteristica della sua trasmissione in presenza, che però nella riscrittura degli appunti si diluiva togliendo spessore al nostro progetto di pubblicazione che fu accantonato.

Tra le carte dell’Università di Letizia io avevo una lista (stilata da lei qualche mese prima di morire) di tutte le sue pubblicazioni, ma ci sembrava improbabile recuperarle tutte per pensare di ri/pubblicarle in un unico volume: alcuni erano scritti pubblicati molti anni fa da amministrazioni comunali, altri erano atti di convegni pubblicati da case editrici che non esistono più.
L’occasione ci si è ripresentata 4 anni fa, quando Anna Valeria mi ha telefonato per dirmi che le avrebbe fatto piacere affidarmi i faldoni dei lavori di Letizia.
Manuela è andata a prenderli: nei faldoni c’era una copia di tutte le pubblicazioni; Alberto fece una serie di lavori di controllo e verifica rispetto alla bibliografia che avevo io e alle case editrici che potevano essere interessate alla ri/pubblicazione di questi scritti, poi è arrivato l’intervento di Gabriella che ci ha aperto il ponte con il Saggiatore
E’ iniziata così la lavorazione del volume, che non ci ha implicate solo su un fare.
E’ stato un lavoro complesso e non sempre fluido sia dal punto di vista della costruzione del libro che dal punto di vista delle relazioni tra le persone coinvolte.
Il primo problema che si è posto è stato come organizzare gli scritti di Letizia: affrontare la questione dell’organizzazione significava confrontarci sul senso di questo libro.
Un ordine cronologico degli scritti ci sembrava banale e compilativo, toglieva spessore alla complessità del pensiero, un ordine tematico rischiava di non restituire i legami e la coerenza che teneva insieme studi apparentemente molto distanti tra loro. Ha messo ordine l’aiuto di Lilli, e si è scelto di lavorare per costellazioni: un tema centrale che si articola, si apre mostrando legami, tracciando l’andamento dei pensieri, mostrando le evoluzioni e le trasformazioni degli oggetti di ricerca.
Tre sono state le costellazioni individuate, che sono diventate le tre parti del libro, dentro le quali andava ora scelto cosa mettere e con che ordine. Un punto di svolta è stato il suggerimento di Francoise Fleury di incontrare persone legate a Letizia per intervistarle rispetto ad una delle tre costellazioni. Le interviste nel libro sono poi diventate racconti: i racconti degli incontri che ci hanno orientati nell’organizzazione delle costellazioni e le introducono accompagnando il lettore nella lettura.
Chi nominava Letizia rispetto a quei temi? Chi era disponibile in termini di pensiero e di tempo per farsi coinvolgere?
Per la prima costellazione – Gettare lontano le chiavi – che raccoglie gli scritti su antipsichiatria e studi sulla famiglia abbiamo coinvolto Renato Rozzi.
Per motivi organizzativi l’incontro con Renato è avvenuto solo “per telefono”: gli abbiamo raccontato il progetto, gli abbiamo chiesto che ci parlasse di Letizia nell’equipe di Basaglia. Ci ha risposto con un lungo fax che non abbiamo rielaborato per la densità e la bellezza con cui tratteggia il ritratto di una giovane Letizia, unica donna, non medico, in un’equipe di medici. Renato ci racconta come lei stava in quel contesto, e come il suo modo di stare vi incidesse significativamente
Per la seconda costellazione – Da bocca a orecchio – che raccoglie gli scritti del periodo di Urbino e i testi sulla relazione maestro allievo, abbiamo incontrato Francoise Fleury che cha lavorato con Letizia all’università di Urbino ed è stato testimone del suo modo particolare di stare con gli allievi, con lei ha portato avanti sperimentazioni relative a nuove tecniche di trasmissione del sapere e l’ha accompagnata nelle riflessioni sulla trasmissione del sapere tradizionale.
Per la terza costellazione – Relazioni viventi – abbiamo incontrato Chiara Zamboni che ci ha parlato di Letizia rispetto al lavoro con Diotima e all’originalità con cui abitava il contesto universitario di Verona. Contesto non facile per Letizia, all’interno di un dipartimento (allora era l'”Istituto di Psicologia”) spesso lontano e dissonante rispetto ai suoi oggetti e alle modalità di ricerca. Letizia a volte si arrabbiava, ma le arrabbiature erano però spesso accompagnate da un grande senso dell’ironia rispetto a ciò che accadeva, ironia che segnava la sua distanza dalle posizioni intellettuali dei colleghi.
Il racconto di questi testimoni ha orientato la configurazione delle tre costellazioni in termini di scelta dei tesi e della loro organizzazione.

La relazione tra noi curatori, proprio perché la cura del volume consisteva nel selezionare e mettere ordine, non è stata sempre in discesa. Eravamo legati da un lavoro comune, ma sul quale ognuno investiva desideri e fantasie proprie, ricordi ed emozioni a volte distanti tra loro: del resto selezionare (non tutte le pubblicazioni potevano entrare nel volume) e ri/organizzare significava attribuire significati e a volte i nostri sguardi erano diversi a seconda di come gli scritti di Letizia risuonavano in noi, ma soprattutto per come erano state diverse le nostre relazioni con lei: erano relazioni viventi, perché mai giocate sull’oggetto del sapere ma su come questo risuonava in noi, e così ognuno aveva tessuto con lei un proprio incontro.
Sottolineo con un sorriso questo aspetto: la presenza di Letizia ha spesso portato scompiglio, nelle storie personali e nei contesti di lavoro, perché spostava qualcosa dentro, perché mostrava possibilità altre (a volte scomode), perché rompeva gli andamenti lineari e ci costringeva a uscire dai luoghi comuni, che sono sempre molto rassicuranti.
Ha portato scompiglio anche tra noi coinvolti nel libro: ci eravamo illuse che bastasse essere mosse da un grande affetto verso Letizia e da un compito in comune che la riguardava per tenerci insieme.Viceversa, proprio perché stavamo facendo qualcosa che ci riguardava profondamente, non è stato facile trovare e stare nelle mediazioni.

Il libro è uscito e mi sono domandata come sono riuscita a stare nel lavoro che ci eravamo date.
Condivido con voi la risposta possibile, perché questo mi permette di toccare un altro aspetto che caratterizzava la modalità di lavoro di Letizia
Durante la revisione delle bozze del libro ho fatto un sogno: Letizia tornava da un lungo viaggio e mi portava in dono due fustini di detersivo.
Per me, un aiuto significativo nel lavoro di cura del volume, è stato il ri/sintonizzarmi su uno degli insegnamenti forti di Letizia, quello che riguarda il fare pulizia, il liberarsi dall’inutile, il ripulirsi del troppo (pensieri e emozioni): lo sforzo che lei richiedeva non era quello di aggiungere, ma di togliere tutto quello che non ti consente di…
Il rigore di Letizia, nominato anche nel libro e che si sente nei suoi scritti, consisteva proprio in questo esercizio di pulizia; ho ritrovato nei miei appunti queste parole sue che mi sembrano molto pertinenti: “liberarsi dalle associazione meccaniche e dalle fantasie riempitive per mantenersi lucidi e attenti, e continuare così quella collana iniziata prima di me e destinata a proseguire oltre me, di cui siamo semplici anelli, indispensabili come ogni altro per la trasmissione di sangue e di parola”

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