10 Gennaio 2007

Pratiche di libertà nella biografia, non solo artistica, di Emilia Rebuglio

Intervento di Luciana Tavernini

Emozioni in video. Come l’incontro con la sofferenza diventa stimolo a una conoscenza più profonda di sé e a una comunicazione più fine e creativa. Attraverso l’esperienza e i video dell’artista Emilia Rebuglio, realizzati con la collaborazione di Giovanni Parea, vi invitiamo alla scoperta di un modo luminoso di esprimere emozioni.
Introdurranno l’incontro Zina Borgini e Luciana Tavernini. Organizzazione tecnica di Andro Barisone e Roberto Meda.

 

Ho accettato la proposta di Zina di presentare al Circolo alcune opere di E. R., oltre che per la fiducia nell’intuito di Zina, per il piacere intellettuale e sensoriale in senso ampio che i video di quest’artista mi procurano e per l’interesse per la politica delle donne della sua biografia.
In una biografia di una donna, scritta o raccontata a voce, cerco sempre quegli elementi, quelle relazioni che hanno fatto di lei una donna che ha saputo dirci qualcosa di nuovo, oppure che le hanno impedito il pieno svilupparsi delle sue capacità, come ad esempio abbiamo avuto modo di vedere qui al Circolo in occasione della discussione sulla biografia di Antonia Pozzi, Per troppa vita che ho nel sangue, scritta da Graziella Bernabò (Viennepierre, Milano 2004). Insomma cerco pratiche di libertà perché penso che mi possano aiutare a riconoscerle e a rafforzarle in me e nelle donne che incontro.
Non sono una critica di arte contemporanea ma un’appassionata che visita con regolarità musei europei e mostre e partecipa ad eventi artistici; credo nella capacità di percepire l’originalità e il valore da parte di chi si pone di fronte all’opera artistica col desiderio, anzi sentendo l’urgenza di ricevere stimoli per la comprensione più profonda di sé nel mondo attuale.
Del resto voi stesse potrete giudicare il valore delle opere proposte.
Però soprattutto la Libreria delle donne e il Circolo della Rosa non sono gallerie d’arte, anche se è stato progettato da due artisti poliedrici come Stefania Gianotti e Corrado Levi, molte artiste vi fanno riferimento, alcune, come ad esempio Carla Accardi, Valentina Berardinone, Vittoria Chierici, Monica Carrocci ci hanno regalato le loro opere che potete ammirare alle pareti e la vetrina ospita regolarmente delle installazioni come quella di Chiara Pergola, frutto di una performance, svoltasi proprio qui.
Non è una galleria ma principalmente un luogo di pratica e riflessione politica, oltre che di stimolo culturale e piacevole convivialità, come potranno aver modo di apprezzare quelle e quelli che si fermeranno a cena.
Un’artista che riesce ad esprimere il proprio sentire con profondo radicamento in sé e dialogo con l’altro da sé credo abbia trovato una delle forme della libertà che a noi interessano. Per questo intendo rintracciare e provare a descrivervi alcune pratiche di vita messe in atto da Emilia che possono costituire tracce sicuramente per me ma anche per altre donne e forse anche per gli uomini.
Innanzi tutto lei pratica la gratuità e circolarità del dono contro la contabilità del dare/avere tanto presente nella società d’oggi. Sostiene che è necessario dare quello di cui si è capaci senza aspettarsi il ritorno che comunque verrà inaspettato per altre vie.
Vi cito due soli esempi.
Il suo negozio d’arredamento “La Chiave di volta” era sempre aperto per la poeta Merini, che vi si recava spesso, trovandovi ascolto, ammirazione e aiuto. Ci racconterà poi Emilia stessa il ritorno che, ad anni di distanza, gliene è venuto.
Quando lavorava con ragazzi e ragazze con gravi handicap, non solo fisici, al Don Gnocchi per permettere loro di esprimersi sentiva la necessità di un materiale leggero, atossico, facilmente e piacevolmente modellabile, esteticamente bello. Si è dunque applicata a questa ricerca finché ha inventato la “Pietra leggera”, manipolabile come la cartapesta, dall’apparenza del granito, resistente e leggera che, brevettata, è molto utilizzata in architettura in Italia e all’estero.
E proprio il lavoro con le ragazze e i ragazzi del Don Gnocchi ci permette di aprire il discorso sul rapporto con la sofferenza. Chi soffre è in una posizione di bisogno, si presenta come una delle massime espressioni dell’altro da sé con cui entrare in comunicazione. Emilia non sfugge anzi attinge alla relazione materna per trovare le modalità di invenzione dei modi di rapportarsi. Lei dice: “Nessuno ha zero capacità, si tratta solo di trovare le vie per farle esprimere, tenendo conto di ciò che chi abbiamo di fronte può dare, facendo tentativi…” Lei usava il disegno, in alcuni casi il segno, come ci ha raccontato nel caso di una bambina, dove è partita da alcuni punti che dopo giorni e giorni sono diventati linee. E aggiunge: “Lasciare una traccia di sé significa esistere”. Riandando alla nostra prima infanzia, in cui bisognose di tutto, abbiamo scoperto il mondo, guidate dall’invenzione del sapere materno, possiamo ora affrontare la sofferenza dell’altro. Non mi dilungherò a parlarvi di questa capacità inventiva di gesti e parole che sanno dire oltre e più a fondo perché ci viene descritta con un limpido linguaggio simile a quello di Calvino, da Rebecca Brown, nel suo intenso libro I doni del corpo (Il dito e la luna, Milano 2006). In esso la scrittrice americana racconta l’esperienza di cura con i malati di AIDS senza alcun pietismo e facendoci partecipi della sorpresa che produce il “miracolo” di una comunicazione avvenuta, del “verbo che si fa carne”, osererei dire. Questa capacità di stare il presenza del dolore viene analizzata in modo più teorico nel saggio di Daniela Riboli, Stare a contatto del male senza farsi male nel volume della comunità Filosofica Diotima La magica forza del negativo (Liguori, Napoli 2005), un libro ricco di altri saggi che mostrano come sia possibile usare il negativo come leva per crescere. E’ una modalità che molte donne praticano, arricchendo la propria capacità di sentire, “facendo di necessità libertà”, come ci dice sempre di fare Luisa Muraro.
La capacità di relazionarsi all’altro da sé è quella messa in campo anche nel rapporto col marito. Tra loro c’è quella che abbiamo nominato in Libreria come relazione di differenza, una relazione che libera energie perché dà la gioia della scoperta, spinge ad indagare in sé non dando per scontate le proprie posizioni, mette in luce capacità differenti. Penso a come Giovanni abbia sostenuto il desiderio di Emilia di riprendere gli studi in ambito artistico, anche se appariva strano che “una madre di famiglia” sedesse in banco con compagne e compagni adolescenti; a come insieme i due abbiano frequentato la facoltà di Architettura, ed anche all’aiuto tecnico per le strutture delle grandi sculture e ora dei video. Mi sembra anche calzante il periodo in cui Emilia, riteneva che fosse inutile realizzare le sue sculture e che bastasse descriverle a Giovanni, insomma le creazioni raccontate esistevano nella parola detta a chi poteva comprenderla e questo è stato un momento importante del passaggio ad un’altra forma artistica.
Infatti un altro aspetto, che vorrei sottolineare, è quello che io chiamo della creatività a fisarmonica nella vita delle donne, cioè di quella capacità di tenere sospesa una forma di creatività per esprimerne altre, legate alle urgenze delle relazioni vive. Se Harold Pinter, il drammaturgo inglese premio Nobel, può dire che quando non scrive si sente in esilio da se stesso, così non accade per molte donne che scivolano da una forma di creatività all’altra, senza porre troppe gerarchie. Penso alla grande capacità inventiva che richiedono i quotidiani happening, costituiti dai pranzi familiari, trasfigurati in modo esemplare ne Il pranzo di Babette il famoso racconto lungo di Karen Blixen, trasposto anche nel film omonimo del 1987 di Gabriel Axel, con Stéphane Audran e Bibi Andersson, che vinse l’Oscar come miglior film straniero. Del valore vitale di questa quotidiana cerimonia e a chi vada attribuito il merito dimostrano ad esempio consapevolezza in Finlandia, quando, come ci racconta Elisabeth Jankowski, nel libro curato da Chiara Zamboni Il cuore sacro della lingua (Il poligrafo, Padova 2006), un’acuta e originale riflessione sulla lingua, presentata ieri, “nessuno si alza da tavola senza aver ringraziato la padrona di casa per il pranzo offerto, e questo fanno anche il marito e i figli.”(p.38)
Dunque una creatività a fisarmonica che sa aspettare il tempo e trovare nuove forme di esprimersi. Penso alle grandi statue, create da Emilia Rebuglio nel suo periodo di scultrice: corpi di donna, uova come essenza della generatività, elementi di animali come nella scultura Equinità, per poi passare alle sculture d’arredamendo con l’esperienza dei Parea scultori, per arrivare ai video dove libera la forza del colore e delle forme astratte. Non vi un taglio netto coi temi precedenti ma un passaggio che li rinnova. Sono dunque fasi intervallate da periodi di apparente silenzio, in realtà pause per rincorsa, rubando l’idea al titolo del bel romanzo di Anna Santoro, appunto Pausa per rincorsa (Avagliano, Cava de’ Tirreni 2003), presentato qui due anni fa.
Insomma mi pare che le donne sappiano darsi tempo e aspettare per poi lanciarsi, penso ad esempio all’inglese Penelope Fitzgerald (1916-2000), che iniziò la sua carriera di romanziera a sessant’anni, scrivendo molti romanzi. L’ho scoperta, grazie a un amico che, in occasione dell’inizio della mia pensione mi ha regalato, come buon auspicio, La casa sull’acqua, l’ultimo dei sette pubblicati in Italia da Sellerio (Il fiore azzurro,1998; La libreria,1999; L’inizio della primavera,1999; Il cancello degli angeli, 2000; Il fanciullo d’oro, 2000; Voci umane, 2003; La casa sull’acqua, 2003).
Alla base della creatività di Emilia vi è dunque un contatto profondo con se stessa, una fedeltà al proprio sentire e apertura all’altro. I suoi ultimi lavori, i video che presenteremo, partono a volte da precedenti opere, ma ora si è liberata dalla timidezza che le impediva l’uso del colore. Sceglie di esprimersi creando video perché permettono un’arte relazionale, un dialogo con poesie, musiche, fotografie anche di altre/i, con un lavoro tecnico che richiede un continuo confronto. Essi costituiscono un passo avanti nell’elaborazione dell’idea delle creazioni raccontate: vi era in lei il rifiuto di caricare il mondo di altri oggetti, un bisogno direi ecologico di un’impronta più leggera di sé senza rinunciare alla necessità di mettere in luce i propri aspetti più profondi, le sue emozioni, il suo modo di vedere amorosamente il mondo e di poterlo comunicare con la velocità e ampiezza che i video consentono.
E’ la sua un’esplorazione dove la sincerità e il radicamento, il lavoro serio e intenso, non possono che portarla ad un’arte che sa esprimere il suo essere donna oggi fuori da un canone, potremmo dire che è un’outsider e proprio per questo riusce a mostrarci qualcosa di imprevisto. Ma nel suo impegno trova istintivamente forza nelle parole e nelle immagini di altre donne che l’hanno preceduta, le madri di tutte noi, come si diceva più di vent’anni fa ne Il catalogo giallo della Libreria. Come vedremo infatti ha colto, dapprima in Alda Merini, poi nella Dickinson e ora anche in una foto di Dorothea Lange qualcosa che loro hanno detto per noi prima di noi a cui possiamo, in una catena genealogica, riallacciarci per dire qualcosa di nuovo, perché la nostra singolarità possa parlare in un ambiente dove altre hanno lasciato tracce di sé.

 

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