4 Febbraio 2023

Presentazione del libro “La medicina delle differenze” di Silvia Di Francia

di Maria Castiglioni


Il libro di Silvia Di Francia, “La medicina delle differenze”, Neos edizioni 2020, è un testo molto ricco e articolato, organizzato in diverse sezioni tematiche:

La sezione storica (a cura di Cinzia Ballesio)

La medicina di genere, le sue declinazioni nella farmacologia e nelle diverse patologie (S.de Francia)e la sua applicazione nel servizio pubblico (Sergio Foà).

* Di grande interesse gli atti del Workshop internazionale di Medicina di Genere tenutosi a Ferrara il 6/7 dicembre 2019, così come la rassegna, a cura dell’autrice e di Cinzia Ballesio, delle donne protagoniste della storia della medicina, della sua applicazione e dei diritti ad essa connessi.

* Il testo si chiude con una bella e significativa galleria di immagini dal mito alla storia, dalla maga Circe e da Trotula a Tina Anselmi, Barbara McClintock, Rita Levi Montalcini, fino alle premio Nobel e a tutte le altre donne che, superando stereotipi, condizionamenti e ostacoli di ogni genere hanno dimostrato, contrariamente a quanto si è sempre pensato e affermato, che la medicina è anche “cosa da donne e per le donne”.

Mi soffermerò in particolare su due di queste sezioni: quella storica e quella della Medicina di genere, che dà il titolo al testo.

Il testo si apre con una utilissima introduzione di Cinzia Ballesio (anche curatrice del testo) che compie un excursus storico, dalle civiltà preromane fino ai nostri giorni, per illustrare il ruolo della donna nel campo della cura e della salute con tutti i relativi pregiudizi, esclusioni, persecuzioni. Per darvi solo un’idea di questa esclusione della donna dal mondo medico basti pensare che il termine latino medicus aveva la declinazione femminile, medica, termine che ancor oggi si fa fatica a pronunciare (forse più ancora di ministra o sindaca). La trattazione parte da una considerazione tanto elementare quanto rimossa dalla nostra cultura patriarcale: la prima creatrice/curatrice è la Terra/Natura, rappresentata da Gea, la dea madre nell’area mediterranea, simbolo del ciclo eterno morte/rinascita. Vengono ricordate (e non possiamo qui citarle tutte- si trovano nella sezione Protagoniste) le donne che sono state appunto protagoniste della storia della medicina e i cui apporti sono stati per lo più censurati e misconosciuti. Le nobili romane Fabiola e Metrodora, la prima fondatrice del primo ospedale (nosocomio), la seconda autrice del primo trattato sulla salute e la cosmesi delle donne, la scuola di Salerno, del IX sec. con la famosa Trotula de Ruggiero, autrice dell’opera Sulle malattie delle donne, Dorotea Bocchi, la prima docente di Medicina all’Università di Bologna, Costanza Calenda, la prima dottora in Medicina nel 1422. Questi primi successi delle donne, come sappiamo, vengono stroncati dalla caccia alle streghe (fine 1400 con il Malleus Maleficarum, il martello delle malefiche dei domenicani Sprenger e Kramer– sotto il papato di Innocenzo VIII), identificate soprattutto nelle levatrici e guaritrici (spesso donne singole, vedove o prostitute).

La classe medica che si costituisce, dopo il Concilio di Trento (1545-1546), escluderà le donne e gli ebrei: la parola “medico” venne sempre più declinata al maschile e come “modello anatomico” si afferma il corpo maschile. Andrea Vesalio, celebre anatomista, nel 1543 pubblica De humanis corporis fabrica (come è fatto il corpo umano) fortemente innovativo, per un lato, ma altrettanto esemplificativo della mentalità dell’epoca: «È sufficiente studiare, a eccezion fatta per l’apparato riproduttivo, il corpo maschile, forma neutra universale, per capire anche il corpo femminile».

Dopo un paio di secoli, pur espropriate dell’arte medica, le donne vengono riammesse ad occuparsi di medicina, ma solo di madre e neonato (ostetricia, pediatria, puericultura), e qui svolgeranno un importantissimo ruolo di mediazione tra il popolo e l’istituzione (io sono nata in casa grazie alla sciura Carolina della Ripa Ticinese).

È del 1757 la fondazione a Bologna della prima Scuola di Ostetricia italiana e del 1804 quella per levatrici. Ma di diventare medici non se ne parla proprio: emblematico e paradossale il caso del dr. James, medico militare britannico, in realtà una donna, costretta al camuffamento, la cui identità fu scoperta solo da morta, ricomponendone il corpo per le esequie (solo la tenacia di una storica portò alla luce la sua vera storia solo negli anni ’50!).

Negli USA la situazione fu un po’ più favorevole alle donne: già nel 1847 vi è la prima donna laureata in Medicina, Elisabeth Blackwell.

E come dimenticare la mitica Florence Nightingale, la fondatrice dell’infermieristica moderna a metà Ottocento?

Ma neppure gli avanzamenti culturali più arditi (pensiamo al clima dell’avanguardia culturale dei primi del ’900) riescono a spostare la mentalità corrente circa la supposta inadeguatezza femminile a ricoprire certe professioni. Cesare Lombroso, medico esponente di spicco del positivismo scientifico, alla fine dell’800, dichiarava che la donna era «meno coraggiosa e meno vigorosa dell’uomo, sia a livello fisico che di intelligenza». Peccato che pochi anni dopo, nel 1913, Maria Montessori, laureata in Medicina e Pedagogia, viene presentata dal New York Tribune come la donna più interessante d’Europa!

E dobbiamo a Margaret Sander, infermiera americana, la divulgazione di pratiche contraccettive, per cui fu più volte arrestata e condannata.

Nel 1947 abbiamo il primo Nobel per la Medicina assegnato ad una donna, Gerty Theresa Radnitz Cori a cui seguiranno altre undici, tra cui Rita Levi Montalcini.

E una per tutte quelle scienziate oscurate dagli uomini, che delle loro scoperte si sono appropriati, menzioniamo Rosalind Franklin, la prima a fotografare ai raggi X la struttura del DNA, scoperta scippatale da Watson, Crick e Wilkins che ottennero nel 1962 il premio Nobel per la Medicina, me che mai la nominarono.

Nei decenni successivi il Movimento femminista porta alla ribalta i temi della salute, del controllo delle nascite, della sessualità, insieme a quelli della disparità, delle diseguaglianze, delle discriminazioni culturali.

È del 1970 il testo rivoluzionario Noi e il nostro corpo del Boston Women’s Health Book Collective e da lì è un susseguirsi di testi scritti da donne per le donne e un generale svilupparsi della sensibilità su questi temi.

Nel 1985 il NIH (National Institutes of Health) statunitense rende pubblico il primo rapporto sulla salute delle donne: ci si accorge che fino a quel momento la medicina aveva fatto riferimento a un soggetto giovane, adulto, maschio, bianco (Vesalio ancora vivo dopo oltre quattro secoli!) che condizionava non solo la cura e la diagnosi delle patologie, ma anche la sperimentazione di nuovi farmaci. Va anche citato il forte condizionamento, specie in Italia, esercitato dalla cultura cattolica in materia di sessualità, contraccezione ed aborto.

Perfino nella legge 40/2004 che regolamenta le tecniche di procreazione medica assistita (di cui si occupa Tullia Penna nel suo articolo) ha agito questa cultura. Nella sua formulazione originale, infatti, prevaleva l’interesse dell’embrione rispetto a quello della donna, con conseguenti parti plurigemellari (legge fortunatamente modificata grazie al prevalere del concetto di “tutela della salute della donna”, che ha superato l’obbligo dell’impianto di tutti gli embrioni fecondati a favore del congelamento degli embrioni “in eccesso”).

Nel 1991, grazie anche a questa nuova sensibilità, Bernadine P. Healy, primaria dell’unità coronarica dell’Ospedale John Hopkins di Baltimora, pubblica un articolo che riporta le sue puntuali osservazioni circa le differenze di trattamento e di cura tra pazienti uomini e pazienti donne.

Gli anni Novanta registrano il sorpasso, in Italia, delle iscrizioni femminili rispetto a quelle maschili, nelle facoltà di Medicina.

Nel 1997 la UE pubblica Lo stato di salute delle donne e nel 1998 l’OMS inserisce la medicina di genere nel suo Equity Act. Le iniziative in questo ambito si moltiplicano ed in Italia con la legge del 2019 viene istituito il “Piano per la diffusione della Medicina di genere sul territorio nazionale” (art. di Sergio Foà).

Nel corso dei secoli la storia della medicina ha quindi visto la presenza femminile passare dalla sua iniziale centralità, nelle società matriarcali del Mediterraneo, alla sua progressiva emarginazione, anche con la terrificante caccia alle streghe (50.000 morte/i in tre secoli, circa 170 femminicidi all’anno in Europa 1421, 4 al giorno) e fino alla sua riammissione in ambito clinico, sia come presenza che come questione teorica che interroga il carattere androcentrico della scienza medica.

Ed è proprio da questa constatazione, la medicina a misura d’uomo (letteralmente!), che si sviluppa la parte centrale del testo dedicata alla Medicina di genere, che dà conto sia della cornice normativa attuale, sia degli approfondimenti fin qui avvenuti a livello di patologie e di farmacoterapia.

E qui mi piace ricordare un’affermazione di Ipazia, il collettivo femminista che si occupò a lungo di scienza negli anni ’80-’90, secondo cui una medicina modulata sul corpo di metà dell’umanità presenta quantomeno un “difetto di scientificità”, soprattutto dal momento che il suo oggetto d’indagine è proprio lo studio dei corpi in carne e ossa. Il che dà conto dei livelli di estraneità/astrazione dai corpi sessuati raggiunti dalla cultura patriarcale, che considera l’uomo il soggetto unico, e come tale neutro e universale, misura di tutti i fenomeni fisici, nonché possessore del logos, vale a dire del linguaggio e dei grandi sistemi di interpretazione della realtà. Sul concetto di “neutralità scientifica” e i suoi risvolti, soprattutto rispetto alla pandemia, si soffermerà l’intervento di Sara Gandini.

Il testo chiarisce lo svilupparsi storico del termine (e della specialità) “Medicina di genere” che, storicamente, è nata sulla considerazione del sesso femminile, mentre la medicina sessuospecifica o medicina delle differenze o generespecifica si riferisce ad ambedue i sessi, ed è conseguenza della presa d’atto, anche in medicina, che ci sono due sessi (sembra paradossale!).

Giustamente il testo si sofferma ad esplicitare la differenza tra sesso e genere (pag. 29). Infatti attorno a questa terminologia sussiste una grossa questione di carattere culturale, scientifico, politico (come ha dimostrato l’acceso dibattito sul ddl Zan, approvato alla Camera e poi arenatosi al Senato). Il genere non è un modo meno “diretto”, più elegante di evocare il sesso.

Sesso indica la condizione biologica dell’uomo e della donna, genere indica invece la percezione interiore della propria identità, ossia come ci si sente in rapporto al sesso di nascita e ai condizionamenti culturali legati ai ruoli sessuali. Non è da confondere con l’orientamento sessuale, vale a dire con l’oggetto del proprio desiderio sessuale: si può desiderare una persona del proprio sesso pur continuando a sentirsi del sesso originario. Il sesso indica come siamo, il cosiddetto genotipo, il genere ciò che diventiamo, il cosiddetto fenotipo (dal gr. phainein, apparire e typos, impronta, cioè l’insieme delle caratteristiche manifestate da un essere vivente: morfologia, sviluppo, proprietà biochimiche e fisiologiche, comportamento).

Come è facilmente intuibile, risulta impossibile separare, nell’essere umano, il sesso dal genere, la biologia dalla cultura: si tratta della stessa coperta. E come tutte le coperte c’è chi la tira da una parte e chi dall’altra. C’è chi sta dalla parte della natura e afferma la prevalenza del sesso sul genere (determinismo biologico), chi dalla parte della cultura e ribadisce quella del genere sul sesso (costruzionismo sociale).

E qui faccio un primo appunto: se questo è il significato che viene attribuito ai termini genere sesso ho rilevato nel testo un sovrautilizzo, quasi inflazionistico, del termine genere, anche laddove il discorso è prettamente fisiologico. Ad es.(pag.59) «Il farmaco Zolpidem è ora in commercio con una dose massima consigliata per genere: 1,75 mg per la donna, 3,5 mg per l’uomo», oppure «È del 1993 il documento della FDA che indica di reclutare entrambi i generi nelle fasi di sviluppo dei farmaci» (pag. 61). E ancora si afferma: «La conoscenza delle influenze correlate al sesso e al genere consente di confezionare su misura le terapie per ciascun paziente» (pag. 59). E qui oltre al sovrautilizzo c’è anche l’intercambiabilità dei due termini, o la loro sommatoria… E tornando alla medicina di genere, qual è il suo scopo?

Dal Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di genere (2019) si evince che: «il suo obiettivo è comprendere i meccanismi attraverso i quali le differenze legate al genere agiscono sullo stato di salute e sull’insorgenza e il decorso di molte malattie» (p. 26 ).

Infatti, come viene ampiamente evidenziato in più punti del testo, le donne e gli uomini differiscono per peso, percentuale di tessuto adiposo, enzimi epatici, ormoni sessuali. Le donne hanno polmoni più piccoli, minore velocità di filtrazione a livello renale, tossicità, maggiore esposizione alle malattie autoimmuni, maggiore risposta immunitaria ai vaccini. Quindi le dosi dovrebbero essere modulate secondo tutti questi fattori che differenziano un corpo femminile da uno maschile.

Il discorso è dunque prettamente fisiologico: la variabile in campo è quella legata al sesso (maschi, femmine).

E qui faccio un secondo appunto, a partire da una considerazione generale. Abbiamo visto che negli ultimi anni si sta dando sempre più importanza a questa variabile, che però non è l’unica che influenza malattie e processi di cura. Ad esempio vi sono quelle culturali, quelle legate all’età, al contesto, all’ambiente, alla condizione economica, alle ragioni del mercato (anche il DSM 5, Manuale diagnostico delle malattie mentali – 2013 – ne tiene ampiamente in conto, salvo quelle del mercato…).

Capisco che questo non era il focus del libro, ma neppure vi ho ritrovato un accenno, specie al mercato dei farmaci, che sappiamo quanto condizioni le linee guida terapeutiche e conseguentemente anche i trattamenti, vale a dire i protocolli proposti.

Il vaccino anticovid ne è stato l’esempio più eclatante: abbiamo constatato che, con la motivazione dell’urgenza, sono entrati in commercio farmaci senza una adeguata sperimentazione, alcuni dei quali prontamente ritirati dopo qualche mese per via dei pesanti effetti collaterali (Astra Zeneca, Johnson and Johnson ad es.). Valga per tutti il discorso della giovane eurodeputata Manon Aubry, pronunciato nel febbraio 2021 a proposito della totale mancanza di chiarezza dei contratti stipulati dalla UE con le case farmaceutiche (riportato in Il dio vaccino di Tiziana Alterio, 2021), per non parlare della totale mancanza di vigilanza dell’AIFA sugli effetti avversi dei vaccini)…

Qui faccio un terzo appunto che nei testi di Metis, il gruppo di lavoro di donne sui temi della salute di cui faccio parte, viene ampiamente dibattuta.

Sappiamo tutti che i cosiddetti protocolli esistono per cautelarci dalla sperimentazione e garantirci un’adeguata sicurezza nell’uso del farmaco e della metodica terapeutica. Ma sappiamo anche che un eventuale scostamento soggettivo dai protocolli produce nei curanti, fortunatamente non sempre, ma molto spesso, una reazione che va dall’incredulità, al fastidio, all’intolleranza, addirittura censura e riprovazione, con effetti di emarginazione verso il/la paziente. Il risultato è che questo/a paziente, uscendo dai protocolli, non porterà nuove conoscenze che nascono dalla sua esperienza personale (più o meno fortunata, in ogni caso, originale) e alla scienza medica verrà a mancare questo contributo “eterodosso”, ma pur sempre fondamentale per una scienza che si vuole aperta, empirica e libera da pregiudizi. A questo proposito Ipazia sottolineava che la medicina «ha la possibilità di essere veramente una scienza perché entrano in campo due competenze, quella di chi cura e quella di chi chiede di essere curato» (Due per sapere, due per guarire, Quaderni di via Dogana, 1997)

Mi chiedo quindi se la medicina di genere, coi suoi nuovi approcci declinati su uomini e donne, non corra il rischio di essere tradotta in un nuovo “protocollo”, certamente preciso e puntuale, ma sempre all’interno di una concezione della medicina e della clinica che non tiene conto dell’esperienza e dei vissuti del/la paziente, con tutte le altre variabili che ho prima citato.

Il dimezzare le dosi di un farmaco significa considerare la soggettività del paziente? Se vengono dosati meglio farmaci chemioterapici e vaccini sono certamente più contenta, ma se io non volessi fare né chemioterapici né vaccini? In che considerazione viene presa questa mia posizione soggettiva? Va allora portata al centro, prosegue il testo di Ipazia, «la relazione terapeutica, che è il momento e il luogo in cui avviene la mediazione tra le conoscenze disciplinari, basate sui grandi numeri (anche legati al sesso) e la persona particolare, con il suo corpo e la sua storia, unica e irripetibile, tenendo sempre presente che questa mediazione non avviene in un rapporto asettico tra teoria e pratica, ma in un rapporto diretto e dispari tra persone» .

Nel gruppo di Metis abbiamo definito questa pratica di mediazione “protocollo sensibile”, in quanto tiene conto della soggettività di entrambi – curante e paziente – e prevede una contrattazione ragionata (Metis: Corpi sensibili nelle relazioni di cura, 2019).

Sensibilizzare i protocolli è importante affinché, come afferma Gemma Martino, la medicina diventi “relativa e relazionale” e fuoriesca dalle dimensione di “universalità e neutralità” che presenta un grosso difetto di scientificità nell’orientarsi sempre di più al tecnicismo, alla standardizzazione, omogeneizzazione e ripetibilità. L’unica vera misura scientifica, ricordava il gruppo di Ipazia, altro non può essere che “la misura del vivente”.


(www.libreriadelledonne.it, 4 febbraio 2023)

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