1 Aprile 2006

Ricamare una vita

relazione di Serena Fuart

Dal 31 marzo al 2 aprile Il Circolo della Rosa ha ospitato una mostra di artigianato palestinese (ricami e tessuti) organizzata da Adele Manzi, amica di Stefano Sarfati Nahmad, la quale ha trascorso parte della sua vita in Libano fra le palestinesi profughe.
Sabato 1 aprile, Luisa Muraro e Stefano Sarfati Nahmad hanno dialogato con Adele Manzi per parlare e ragionare sui problemi del popolo palestinese, ponendo speciale attenzione alle donne.
Tra gli argomenti trattati, il delicato lavoro di mediazione in situazione di conflitto; le figure mediatrici, protagoniste di questo delicato compito che viene portato avanti valorizzando cultura e memoria. Si è parlato di ricamo naturalmente, una delle vie della mediazione, che favorisce l’incontro tra le donne, lo scambio culturale, il ritorno alle origini.

 

E’ Luisa Muraro a dare inizio alla discussione introducendo uno dei temi della serata, la figura delle mediatrici, argomento su cui lei, a partire dalla sua esperienza e in relazione alla vita e al lavoro di Adele Manzi, ha riflettuto personalmente arrivando a delle considerazioni che toccano il suo modo di sentire e la politica che fa.
“Ho capito qualcosa che mi riguarda, riguarda il mio modo di sentire e la politica che faccio. Come ho spiegato ad Adele, non sono dedita alla causa palestinese, sono concentrata qui, su noi e l’agire politico. Una delle caratteristiche di queste figure mediatrici è che lavorano spesso nell’ombra, anche se non tutte, come il primo ministro svedese, Olof Palme, ucciso in circostanze poco chiare.
Per arrivare al punto, le mie riflessioni mi hanno portato a pensare che queste persone non abbiano il cuore abitato essenzialmente dalla causa della giustizia, dal proposito di farla. Il loro atteggiamento è diverso, ci hanno rinunciato. Sono rimasta colpita dal linguaggio di Ricamare una vita, la dispensa che Adele mi ha fatto leggere, in cui racconta della catastrofe del 1948, anno in cui il popolo palestinese ha dovuto lasciare traumaticamente le sue terre, i villaggi, i campi. Quello che mi colpisce nel linguaggio usato è la totale assenza di parole di protesta.
Penso a me che sono stata militante politica nel senso classico della parola. Ricordo una serata alla Casa della Cultura, in cui ho pronunciato parole terribili in difesa del popolo palestinese, contro le decisioni, i poteri e tutto quello che era stato fatto loro. Ricordo anche gli applausi degli studenti siriani presenti. Quello che mi muoveva era la volontà che si facesse giustizia, che chi ha subito un torto avesse riparazione”.
“Le figure mediatrici sono differenti – continua Luisa Muraro -. Queste persone mettono d’innanzi qualcos’altro, a costo di mortificare la loro volontà di giustizia. I temi della giustizia sono questioni che sanno e che sentono ma non proclamano, stando in una sorta di mortificazione, anche se non so se mortificazione sia la parola appropriata.
Ritengo che, in questo lavoro di mediazione, un ruolo molto importante lo abbiano le parole. Parole che possono essere non necessariamente di mezzo, cioè dare un po’ ragione all’uno e un po’ all’altro. In questi conflitti estremi e polarizzati è necessario che ambo le parti facciano uno spostamento”
A proposito del lavoro di Adele Manzi e, come del suo, quello di tanti altri, Luisa Muraro continua il suo intervento sostenendo che “si tratta di un impegno accompagnato sempre dalla fedeltà della memoria. Il ricordare, il dire senza accuse, è un atto dovuto a chi ha patito un torto, a chi a sofferto.
Il lavoro di Adele Manzi ha il principale scopo di far conoscere e raccogliere le testimonianze delle donne palestinesi dei campi profughi nel Libano”.
Il suo impegno però è anche culturale con la mediazione della bellezza, continua Luisa facendo riferimento al lavoro del ricamo. “Queste produzioni in sé belle, pacifiche, serene e festose, creano anch’esse una sorta di mediazione, ci fanno vedere la bellezza di un’arte femminile. Questi lavori in mezzo a noi questa sera portano traccia di colori e di festa in un Paese e in un contesto completamente diversi. E’ come spostare il mio, il nostro pensiero, verso momenti, luoghi, sentimenti di festa, gioia, di collaborazione. Questo secondo me è opera di mediazione”.

 

L’intervento successivo è di Stefano Sarfati Nahmad che racconta d’aver conosciuto Adele durante una manifestazione, rimanendo colpito dal fatto che avesse lavorato per trent’anni accanto alle donne palestinesi.
“Conosco parecchie persone molto impegnate in politica, tuttavia incontrare una donna dall’apparenza così fragile ed esile che, con poche parole, mi ha testimoniato un’intera esistenza a favore di un’idea che in quel momento portava alle persone per strada sfilando, mi ha colpito parecchio. Ho scoperto in seguito che conosceva Luisa Muraro e siamo arrivati all’appuntamento di questa sera”.
Riguardo quanto detto da Luisa Muraro sulla figura della mediazione, Stefano cita un’altra donna: “per me – dice – , una persona di un certo calibro per quanto riguarda la sua capacità di mediazione: Manuela Dviri Norsa. Si tratta di una figura di una certa, direi, anche forse ambiguità: è contestata infatti da molti per il lavoro che fa. Il suo progetto è aiutare i bambini palestinesi che hanno subito dei traumi fisici tramite un istituto ospedaliero israeliano. Il suo scopo è quindi convogliare soldi per questa causa, cosa contestata da molti genitori palestinesi, i quali sostengono che i soldi non dovrebbero andare agli israeliani i quali, ‘prima gli ammazzano e dopo gli aggiustano’ accusa che io non le muovo ma che ho sentito farle. Personalmente leggevo i suoi articoli sul Corriere della Sera finché non ho smesso di accettarli a causa della sua moderazione, sembrava non prendesse posizione”
Stefano racconta poi d’averla conosciuta personalmente e intervistata. “Un’esperienza molto interessante. In quell’occasione ha preso posizioni nettissime, posizioni che ebrei e italiani considererebbero radicali, addirittura antisemiti. Tra i suoi progetti quello di far ricamare camicie fatte in Israele da donne palestinesi. Il suo scopo era mettere in contatto le due genti, perché secondo lei, l’unica soluzione è mettere in contatto i popoli, favorire l’incontro. L’ho ricordata perché, anche lei, sul tema del ricamo ha creato una mediazione.
Io sono qui oggi in quanto ebreo che ha a cuore la causa dei palestinesi. Questa dei palestinesi è una questione che urla vendetta. Mi è capitato una sera di vedere la trasmissione di Giuliano Ferrara durante la quale è intervenuto un ebreo dalla Svizzera. Questo sosteneva che: “in fondo le guerre israeliane sono state delle guerre costruttive. Alla televisione passano invece notizie di fatti inaccettabili, indicibili. Quelle parole però hanno un percorso: la vita in Palestina è invivibile e inaccettabile, è una diaspora, nemesi storica per mano ebraica, ma in tv è strumentalizzata in maniera indegna. Questo si ritorcerà contro Israele”.
Quello che io vorrei raccontare questa sera è qual è il percorso umano di un ebreo che appoggia i palestinesi, quando la triste realtà è che la maggior parte degli ebrei si identifica con Israele, nello Stato di Israele difendendo l’indifendibile. Un paragone che viene spesso fatto a proposito di questa questione è quello di una madre che difende il figlio stupratore. Il mio percorso è stato quello di uscire dalla mera identità ebraica e dedicare semplice buon senso. Partecipando poi alla vita della Libreria delle donne, parallelamente, ho fatto un altro percorso che mi porta a giocare un po’ fuori casa, ovvero quello di uomo che si interessa alle cause delle donne. Concludo ritornando sulla figura delle medianti. Questi percorsi si possono fare in presenza di alcune particolare persone che di solito sono donne”.

 

La parola passa poi ad Adele Manzi.
Adele è una delle fondatrici di Najdeh (termine che significa ‘soccorso’), un’associazione non governativa nata dopo la caduta di Tell el-Zatar, campo di rifugiati palestinesi che si trovava nella zona del Libano cristiana (l’altra è musulmana). L’associazione opera in questi campi in Libano per contribuire a soddisfare i bisogni più urgenti: scuole materne, centri di formazione professionale, alfabetizzazione e sostegno scolastico, assistenza alle famiglie, creazione di possibilità di lavoro. All’interno di questa sono nati laboratori di ricamo che non soltanto hanno un ruolo economico ma consentono alle generazioni nate in esilio di riappropriarsi di uno degli aspetti della cultura di origine. I loro prodotti sono recentemente entrati nel circuito del Commercio Equo e Solidale con l’etichetta Al Badia.
Adele Manzi inizia il suo intervento raccontando di quando nel 1975 ha preso la decisione di lavorare con donne palestinesi rifugiate in Libano. “Lo volevo da molto tempo ma l’ho deciso in quell’anno quando c’è stata la caduta di Tell el-Zatar. In quell’occasione la gente è stata decimata, si è trattato di un massacro. Molti uomini sono stati trucidati e portati via mentre sono state lasciate partire le donne e i bambini”.
Adele Manzi spiega come si proceda in questo tipo di progetti “Per creare un gruppo che lavora nei campi palestinesi bisogna avere la protezione di un partito palestinese. Noi siamo stati appoggiati da una fazione palestinese che però non ha mai approvato gli attacchi al di fuori delle terre conquistate”
Per dare l’idea della situazione, Adele Manzi fa due esempi.
“Per le attività di ricamo ci siamo appoggiati a dei cataloghi di ricami palestinese conservati nei vari musei del mondo, il primo è stato, paradossalmente, in America.
Una amica belga che lavorava a Betlemme ci ha mandato un piccolo album stampato in Israele. Si trattava di una raccolta di differenti motivi che cerchiamo di fare anche noi, creando un album che ha circolato e che è stato copiato dal suo. Ad un certo punto questo album è scomparso. Forse in quanto proveniente da Israele e in cui la parola Palestina non compare. L’unica scritta che c’era era arabesque, anche se non si trattava di questo”.
Adele parla poi della responsabile generale di Najdeh, che, in Francia, ha visitato due associazioni francesi, una protestante e una cattolica. Queste due realtà l’hanno messa davanti una scelta, che lei ha accettato, ovvero incontrare due israeliani. Il primo è Eitan Bronstein, fondatore di un’associazione israeliana che si chiama Zochrot (di cui si parla in seguito,ndr). Una delle condizioni di questo incontro era indagare la sofferenza e i torti subiti da parte del popolo palestinese. Questa associazione, tra le ultime nate dei numerosi movimenti pacifisti israeliani, ha, tra gli scopi, quello di dare al pubblico israeliano una conoscenza storica di quello che è successo nel ’48. Il loro impegno è visitare i luoghi quali ad esempio, un kibbutz (villaggio israeliano costruito sulle rovine di un villaggio palestinese, ndr) e mettere delle lapidi che ricordino cosa c’era in quel luogo prima del ’48.
Eitan Bronstein è sostenitore dell’idea di non paragonare il ritorno degli ebrei in Palestina con quello dei palestinesi in quanto il ritorno degli ebrei è stato realizzato con l’espulsione di una gran parte dei palestinesi. La pace non è possibile se gli israeliani non riconoscono questa immensa ingiustizia.
L’altro israeliano, membro di Peace Now, su questo non era d’accordo. Si è discusso e la giovane palestinese, responsabile dell’Associazione ha accettato di dialogare.

 

Ritornando al tema del ricamo, Luisa Muraro interviene chiedendo ad Adele se nei ricami sia possibile identificare una sorta di linguaggio “Hai parlato di questi ricami e di persone che hanno prodotto cataloghi e raccolte, anche in America ed Europa. E’ possibile che, in questi ricami, figure e motivi, ci sia un linguaggio? E’ possibile che chi ha la cultura di questi riconosca le figure?”
Adele risponde che è difficile parlare di linguaggio. Racconta che a Damasco, una signora tedesca, abile ricamatrice che fa lavorare le donne palestinesi, ha scritto un articolo sull’origine dei questi ricami. “C’è una quantità grossa di ricami – dice – e la loro origine è molto controversa. Una figura ricorrente comunque sono i cipressi”.
Dal nord al sud della Palestina ci sono caratteristiche diverse, ha detto poi. “Bisogna immaginare che la Palestina era un paese moderno: c’era una ferrovia che lo attraversava interamente, era aperto all’occidente, e prima ancora con i paesi arabi e con la Siria. C’è stata una contaminazione con l’occidente. Quando qualcuno mi porta un modello di un certo ricamo, a volte riconosco che è stato copiato. Il fatto di copiare è avvenuto quando si è cominciato a ricevere dall’estero, assieme ai fili da ricamo, anche i cataloghi”.
“Quindi quella palestinese è una cultura viva – continua Luisa Muraro: “tutte le culture – dice – hanno una continua capacità di contaminarsi anche se è vero che esiste parallelamente un lavoro di conservazione. Nonostante questo però le persone sono liberamente esposte a sollecitazioni da altre parti. Una cultura è vera quando si apre ad acquisire”.
Adele Manzi racconta allora a Luisa quanto sia interessante vedere sugli antichi modelli da loro usati delle tracce di altre culture. “La Palestina – dice – è stata una paese di passaggio, di scambi culturali. Ci sono forme di cipressi che sembrano copiati dalle maioliche iraniane. Ci sarebbe tutto uno studio da fare…”

 

La parola passa poi ai numerosi partecipanti intervenuti.

 

Laura Minguzzi pone una questione sul linguaggio del ricamo “I ricami sono tutti fatti con la tecnica del punto croce: c’è un particolare significato simbolico legato all’uso di questa tecnica?”
Adele Manzi risponde che il punto e croce non è la sola tecnica usata anche se comunque molto diffusa. “Il punto e croce non ha nessun significato simbolico, è però la tecnica più facile da eseguire”.
Adele parla anche di un altro punto, quello con il cordoncino fissato per fare dei geroglifici. Questo punto permette di realizzare figure tonde e di crearne molte altre.

 

Vita Cosentino chiede ulteriori informazioni sull’attività delle donne nell’associazione. In particolare, in che modo si ritrovano insieme, se discutono, come decidono le cose.
Adele risponde che l’associazione è stata fondata con lo scopo di occuparsi delle donne.
“Abbiamo chiesto alla popolazione interessata cosa desiderasse venisse fatto. C’era bisogno in primo luogo delle scuole materne, luogo che protegga i bambini dalla vita delle strade. Ed è la prima cosa che abbiamo fatto, occupandoci poi anche della formazione professionale delle adolescenti per permetter loro di entrare successivamente nel mercato del lavoro.
Abbiamo poi pensato di favorire la socialità di queste donne facendole lavorare insieme. Abbiamo quindi creato dei piccoli laboratori in cui loro possono lavorare: c’è una donna che distribuisce le consegne e insegna il lavoro. Il fatto che le donne si raggruppino rende possibile l’emergere dei problemi che possono così essere discussi tra loro. Questo ha reso possibile il crearsi di una socialità tra loro. L’associazione si occupa inoltre di dare una formazione culturale e anche politica”.

 

Lucia, una delle partecipanti, racconta di aver conosciuto Adele in Libano durante un viaggio in cui il loro scopo era cercare di capire la realtà dei campi profughi palestinesi.
“Quello che mi è sembrato di capire delle donne palestinesi e anche degli uomini – dice Lucia – è il fatto che vivano con il sogno del ritorno, ritorno alla loro casa, terra, campi. Il ricamo è anche un modo che hanno per capire, prima di tutto, chi sono, qual è la loro identità, da dove vengono.
Quasi tutti i ricami richiamano abiti di donne, diversi a seconda dei villaggi. Nei ricami ricostruiscono il luogo d’origine, trasmettendolo così anche alle giovani che non sono mai state in Palestina. Giovani che non la conoscono e che la sognano secondo quello che vien loro trasmesso dalle generazioni precedenti. La funzione del ricamo per loro non è soltanto di riunirle, ma anche di far conservare la propria identità. E’ importante mantenere le tradizioni, capire da dove si viene. I ricami hanno questa funzione indispensabile, ovvero mantenere la tradizione, cosa fondamentale soprattutto per chi è sradicato dalla sua terra e vive in un altro posto, in condizioni dei campi profughi. Condizioni che comportano tutta una serie di problemi, tra cui il fatto di non poter esercitare la propria professione pur essendo pienamente qualificati, questione in cui il problema dello sradicamento diviene particolarmente evidente.
“Quindi possiamo dire che il ricamo sia diventato un linguaggio del ritorno, del radicamento in certi posti – conclude Luisa Muraro – . Si tratta quindi di un richiamo, una forma poetica di collegamento di origini, ai luoghi di provenienza, un modo di spostare il patimento dello sradicamento in qualcosa che lo raffigura.”

 

L’associazione Zochrot
Nell’intervento del prof. Federico Lastaria si è parlato più dettagliatamente dell’associazione Zochrot
“Si tratta di un’associazione di israeliani che pone come prioritorario il tema del ricordo. Ricordo della Nakba, cioè dell’espulsione dei palestinesi nel ’48. La scelta del nome, Zochrot, ha anche un suo significato. Si tratta di una parola ebraica che significa coloro che si ricordano, ed è una parola declinata al femminile. La scelta di un nome femminile, anche se l’associazione è composta sia da uomini che da donne, ha lo scopo di colorare al femminile il ricordo della Nnakba, dargli un senso non militaristico, valorizzando aspetti quali l’accoglienza, caratteri questi, più tipici dell’animo femminile che di quello maschile.
L’associazione ha quattro anni, è sorta nel 2002. Ad esempio nella città di Ashkalòn che oggi si chiama Mischendorf/Pinkamiske, l’associazione si impegna a giustapporre, non sostituire – precisa – i nomi delle vie attuali con la denominazione araba che c’era prima del ’48, oppure, sulle rovine di villaggio arabo distrutto si mettono delle targhe indicanti quello che c’era prima. Il tema della memoria è importante perché se non comprende la questione dell’espulsione nel 1948, non si capisce molto dei palestinesi. L’altro punto su cui si impegna l’associazione è di ricordare in lingua ebraica. Non è la stessa cosa ricordare il dramma dei palestinese in inglese o in ebraico, bisogna parlare al femminile e in ebraico perché è la lingua che gli ebrei prediligono per riflettere”.

 

In uno degli ultimi interventi Annamaria di Ciommo racconta come i temi della serata le abbiano fatto ricordare la sua infanzia. “Mia mamma – racconta – mi mandava dalle zie a ricamare e imparare il punto e croce. Era il momento in cui tutte le zie giovani mi insegnavano la storia della famiglia e insieme ai ricami imparavo l’arte della pazienza: scucire, ricucire e fare le cose nel migliore dei modi. Attraverso le nostre conversazioni e i loro racconti ho imparato la storia di tutti i miei parenti. Si trattava di momenti ricchi, ero circondata da zie molto giovani. Questo fatto comunque non credo fosse proprio solo della mia famiglia. Vivevo ad Avello in provincia di Potenza. Queste esperienze sono forse tipiche della cultura mediterranea”

 

Luisa Muraro conclude la serata con la considerazione che la pazienza è la virtù principe delle figure mediatrici che lavorano nell’ombra. “In tutti i grandi conflitti ci sono queste figure di persone che, tra le virtù, sommano tenacia e pazienza”.

 

Luisa Muraro ringrazia Laura Minguzzi per la cura e l’amore con cui ha accolto al Circolo della Rosa la manifestazione e la mostra di Adele Manzi e dell’associazione Najdeh.
Per chi fosse interessata-o è disponibile in visione un CD-ROM della mostra “Ricamare una vita”, realizzato da un’amica di Adele Manzi durante l’esposizione dei tessuti ricamati.

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