19 Febbraio 2016

TEMPO DI SECONDA MANO di Svetlana Aleksievič, Premio Nobel 2015, presentato da Patrizia Deotto e Laura Minguzzi.

Libreria delle donne – Circolo della rosa, 9 gennaio 2016

introduzione di Laura Minguzzi

 

Patrizia Deotto, professoressa associata di Lingua e letteratura russa presso la Scuola Superiore per Interpreti e traduttori dell’Università di Trieste, ma milanesissima, è autrice di molte pubblicazioni. Ha collaborato alla realizzazione di due siti, www.russinitalia.it, sugli emigrati in Italia dagli anni ’20 e www.arterussamilano.it sugli artisti, occupandosi in particolare di Nicola Benois, direttore artistico della Scala fino agli anni ’70. Si è occupata della cultura e della letteratura russa del Novecento, in particolare dell’emigrazione russa e i rapporti culturali tra Italia e Russia, a cui ha dedicato una monografia, In viaggio per realizzare un sogno. L’Italia e il testo italiano nella cultura russa.
Nel 2013 è uscito un numero monografico della rivista «Storia in Lombardia» (1/2013), intitolato Viaggiatori russi a Milano: Jakovlev, Muratov e Vajl’. Tre sguardi sulla città, interamente curato da lei. Nel fascicolo vengono pubblicati per la prima volta in traduzione tre testi che raccolgono le impressioni suscitate dal capoluogo lombardo negli scrittori russi che rivelano approcci originali e inediti alla città. Ha dedicato molte ricerche di archivio allo studio dello scrittore e storico dell’arte Pavel Muratov (1881-1950), noto soprattutto per i tre volumi di Immagini d’Italia, che hanno svolto un significativo ruolo di mediazione fra le due culture. Un altro suo filone di studio concerne il genere della biografia e dell’autobiografia. Si è occupata delle opere di Nina Berberova (1901-1993) di cui ha tradotto Il corsivo è mio, Milano, Adelphi, 1989, Il quaderno nero, Milano, Adelphi, 2000, Storia della baronessa Budberg, Milano, Adelphi, 1993.
Per me è stata una fortuna conoscere Patrizia Deotto, nel 199, all’Itsos “Primo Levi” di Bollate. L’amore per la lingua e la letteratura russa ci ha fatto incontrare. Entrambe insegnanti di russo. Poi lei ha subito messo le ali, ma non prima di avere allacciato un fertile scambio culturale fra le nostre classi e una scuola di Pietroburgo. Io ho seguito le sue orme continuando per una decina di anni quell’esperienza. Dopo il referendum che decretò la fine dell’Urss nel 1991 io realizzai uno scambio con la stessa scuola nel 1993 con le mie coraggiosissime classi. Erano gli anni della crisi, del crollo dell’economia, dopo la cura da cavallo del passaggio accelerato al capitalismo, alle privatizzazioni eccetera. Nella scuola russa ci accolsero con ogni ben di Dio, nonostante in città ci fossero negozi vuoti, scaffali con desolanti contenitori di vetro da tre litri con cetrioli, cavoli marinati o succo di betulla e quasi nient’altro. Il pane era distribuito con le tessere annonarie (cupony in russo) e il burro lo facevano le nonne a mano in casa. Negli appartamenti c’era il ghiaccio lungo i muri e a letto si dormiva con berretto di lana, guanti e sotto una montagna di piumoni. Nonostante il gas venisse esportato. Partivamo animati da grande entusiasmo con il sostegno di tutto il personale della scuola, dal preside, dalle segretarie, dalle bidelle, tecnici, genitori dei miei studenti e studentesse che condividevano con me il desiderio di capire una realtà in cambiamento. Una lingua non si può imparare se non si hanno relazioni con coloro che la parlano. Abitavamo nelle famiglie russe e perciò per due settimane ne condividevamo i destini e le speranze. Per esempio io conobbi la storia di due insegnanti che insieme trasformarono la propria vita. Una in pensione diventò imprenditrice e aprì una libreria, La nuova scuola, per far conoscere nuove metodologie e nuovi libri. Io le proposi di far conoscere le nostre pratiche di pedagogia della differenza quando ci incontrammo a Pietroburgo e anche i nostri testi, tradotti in inglese: il Sottosopra, il pensiero della differenza sessuale. Di questo ho raccontato su Via Dogana nel numero 46/47 del 1999. Con Patrizia abbiamo collaborato ancora nel 2004 al Liceo Virgilio dove io avevo progettato con l’insegnante di arte Daniela Canali alcune lezioni sull’arte russa delle avanguardie: Natal’ja Gončarova, Malevič eccetera, e Patrizia ci parlò allora anche di una pittrice russa del secolo d’argento, Anna Petrovna Ostroumova-Lebedeva. L’esperienza degli scambi culturali purtroppo fu interrotta dallo scoppio della guerra in Iraq nel 2004. Erano anni difficili e le famiglie dei miei studenti temevano i pericoli di viaggi in aereo in Russia.

 

Svetlana Aleksievič, di cui parliamo questa sera, è nata in Ucraina da madre ucraina e padre bielorusso. La famiglia si trasferì in Bielorussia e i genitori insegnavano nelle scuole rurali. Oggi l’autrice è ritornata a Minsk, in patria, dopo avere vissuto dodici anni in Europa, per stare vicino alla figlia. È lì infatti che l’ha raggiunta la notizia che le era stato assegnato il premio Nobel. In realtà non ha mai veramente voluto abbandonare il suo paese che ama, anche se vive in prima persona le tensioni che attraversano la Russia dopo il conflitto in Ucraina, tensioni che sono presenti anche in Bielorussia. La fine dell’Impero non è avvenuta infatti negli anni novanta, ma sta avvenendo oggi nel sangue in Ucraina, ha detto in una intervista. La motivazione del suo lungo esilio fu la pubblicazione di Ragazzi di zinco nel 1989 sulla guerra in Afganistan. Non le fu perdonata la smitizzazione dei “combattenti internazionali”, fu trascinata in tribunale a Minsk, accusata di calunnia e diffamazione dell’esercito. Svetlana Aleksievič con il suo metodo di interrogazione e di ascolto paziente dei nodi di un profondo sentire toglie l’oscuramento e rompe i canoni del racconto di guerra, della narrazione storica, così come esce dal falso dilemma posto da chi si chiede cos’è stato il comunismo – chi lo vive con nostalgia, come un paradiso perduto, chi come un inferno – perché mostra se stessa nel processo doloroso di attraversamento della sofferenza per poter riscattare il passato. Al termine di questo processo di decantazione non c’è né negazione né idealizzazione e l’autrice riesce a separare il binomio sangue-utopia con l’integrazione nel presente della memoria del passato, modificando anche se stessa.

L’ultimo libro di Svetlana Aleksievič, Tempo di seconda mano, sottotitolo, la vita in Russia dopo il crollo del comunismo, è il quinto del ciclo sull’uomo rosso. È valso all’autrice l’attribuzione del Nobel ed è frutto di una raccolta di voci durata vent’anni. Il libro è diviso in due parti. La prima parte: L’Apocalisse come consolazione. Da voci di strada e conversazioni in cucina, riguarda il passaggio epocale che va dal 1991, anno del referendum che decretò la fine dell’URSS, al 2001. La seconda parte: Il fascino del vuoto, da voci di strada e conversazioni in cucina riguarda il periodo dal 2001 al 2012. Molto ricco di note esplicative e di una precisa cronologia degli eventi. La giornalista attraverso un racconto corale di voci descrive questi anni torbidi, drammatici ma all’inizio colmi di speranza ed entusiasmo. La fine del sistema sovietico, la perestrojka, come è stato vissuto questo crollo epocale e le voci di oggi: un canto del mondo di donne e uomini comuni e non. Il metodo di scrittura è quello che più coinvolge. Così come l’assunzione di uno sguardo di donna che si mette in paziente ascolto per far crollare le barriere della diffidenza e della sfiducia della gente verso l’intellettuale, la giornalista, la storica che indaga, interroga (pag.101). Ha saputo creare un rapporto di fiducia e di libertà facendo sentire che lei stessa si trova dentro quella storia e vuole scavare e trovare la verità. E ha condiviso sofferenze, speranze e delusioni di quella civiltà sovietica. Solo questa fiducia incondizionata le ha permesso di tessere la tela di un racconto storico con le parole dei e delle dirette protagoniste. Non è più solo il mondo degli Umiliati e Offesi di cui ha scritto Dostoevskij. Dice l’autrice: «Scrivo, raccolgo briciola dopo briciola la storia del socialismo “domestico”… “interiore”. Il modo in cui la gente lo viveva nella propria anima. Proprio questo piccolo ambito mi ha sempre attirato – l’essere umano… la singola persona. In realtà è proprio lì che ogni cosa accade.» Come scrive Simone Weil in Oppressione e Libertà… in Prospettive «non dimentichiamo che noi vogliamo fare dell’individuo e non della collettività il valore supremo…» C’è un di più di amore per la verità delle parole e delle storie che l’autrice restituisce a chi legge e vuole conoscere e capire. L’autrice entra con la propria storia soggettiva, col proprio nodo personale, disturbante, che l’ha spinta a interrogarsi per lunghi anni su questo periodo (settant’anni è durato il sistema sovietico), a causa della difficoltà di comprendere il comportamento del proprio padre. Prima che morisse lei gli pose una domanda «Perché hai taciuto?» Lui vedeva arrestare e scomparire amici e vicini di casa ma non ha reagito e non seppe rispondere. Si mise a piangere. Il montaggio delle voci così raccolte non è neutro, oggettivo, perché attraverso il suo sguardo e la sua presa di posizione l’autrice ne rende l’universalità, l’impersonalità.

La giornalista mostra sia il risentimento per le speranze deluse della perestrojka di Gorbačëv, sia il rimpianto di chi confessa di avere passato il periodo più felice della propria vita negli anni cinquanta, durante lo stalinismo. Quasi tutte le testimonianze parlano di una generazione delle cucine, dove attorno ad una tazza di tè si riunivano amiche, amici, colleghi, famiglie intere a discutere dei cambiamenti necessari con grande entusiasmo, del desiderio di una vita migliore, di un socialismo democratico e vicino alla civiltà europea, ma non di capitalismo… Il mercato non è necessariamente coincidente col capitalismo selvaggio e il potere degli oligarchi alleati (quello del tempo di seconda mano)… Gli scettici, i nostalgici soprattutto appartenenti all’esercito o al ceto dei funzionari o delle funzionarie di partito, non si capacitano di come sia potuto accadere che il mondo sovietico sia crollato, collassato senza combattere una guerra. Si tratta infatti di una rivoluzione simbolica dall’interno, una caduta di credibilità… Altre voci ci mostrano il silenzio degli intellettuali e lo scandalo dei nuovi ricchi che ostentano in TV i water d’oro nelle loro ville e gli yacht più grandi del mondo. Il desiderio di rivincita e il nazionalismo sono stati sfruttati da Putin per ottenere un largo consenso popolare per due elezioni consecutive dal 2001. Chi racconta la verità è considerato un traditore. Afferma la giornalista alla presentazione del suo libro, intervistata da Serena Vitale: «Una volta ci chiamavano dissidenti. Di solito si è dissidenti verso il potere. Esserlo verso il popolo è molto più grave.» Oggi in Russia possiamo notare fenomeni che ci fanno pensare a un ritorno nostalgico del patriottismo in chiave nazionalistica… A Mosca, per esempio, ci sono letture pubbliche di Guerra e pace di Tolstoj a cui partecipano migliaia di persone, così come la rinascita del mito dell’Armata rossa per coinvolgere i giovani nell’esercito, nella carriera militare. Come hanno denunciato le Pussy Riots nel 2013, c’è una complicità fra il potere temporale e il potere religioso nel riproporre un’immagine di forza e compattezza, di orgogliosa risorgenza per occupare un ruolo nel mondo. Un ritorno alle tradizioni del passato prerivoluzionario, tanto che si parla di Putin come di un nuovo zar a cui ci riporta di nuovo la metafora della scrittrice del Tempo di seconda mano, una ripetizione.

 

Cronologia opere: nel 1985 esce grazie alla perestrojka di Gorbačëv La guerra non ha un volto di donna in lingua russa, terminato di scrivere già nel 1983; oggi tradotto in Italia, in tutta fretta, grazie al Nobel.

 

1989 – Ragazzi di zinco, ed. e/o.

1993 – Incantati dalla morte, ed. e/o

1997 – Preghiera per Černobyl’, tradotto in Italia nel 2001, ed. e/o

2014 – Tempo di seconda mano, Bompiani

2015 – La guerra non ha un volto di donna, Bompiani

 

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