25 Gennaio 2008

Terzo incontro del ciclo “il posto del padre”

 

Elisabetta Marano
Siamo al terzo incontro del ciclo sul posto del padre, pensato da Sara Gandini e Laura Colombo per investigare il posto che assume il padre dopo la rivoluzione apportata dal femminismo. Per questo incontro abbiamo coinvolto Stefano Ciccone dell’associazione Maschile Plurale di Roma, che che ha lavorato a lungo sull’eredità del maschile, sul ruolo degli uomini di oggi in rapporto con le donne e con il femminismo. Questa sera vogliamo affrontare cosa rappresenta la figura del padre nel vissuto di ognuno di noi, e per parte mia vorrei nominare il posto vuoto del padre.

 

Durante gli ultimi anni mi è capitato di sentire con forza il desiderio e la curiosità di rapportarmi agli uomini, di farli diventare parte attiva del mio percorso politico; naturalmente questo desiderio si è rafforzato perché ha trovato sulla sua strada degli interlocutori in grado di capire e rispettare prima di tutto il mio percorso di femminismo della differenza, e di rapportarsi poi ad esso in modo anche critico ma sempre e comunque costruttivo.
La qualità e l’intensità dello scambio ha assunto nel corso degli anni una dimensione a volte quasi “confessionale”, dove le emozioni, anche primarie, sono oggetto di confronto e analisi condivisa. Sottolineo questa componente “intima”, anche se non sessuale comunque erotica, perché la considero oggi un punto di valore delle mie relazioni con gli uomini. Il fatto di poter far circolare parole come sentimenti, emozioni, corpo nei discorsi con loro mi riconduce ad una dimensione quasi di confidenza non sempre presenti in altri rapporti con uomini.
Parto dalle emozioni e dal tentativo, tutt’ora in corso, di positiva rielaborazione di esse grazie anche ad alcune relazioni con gli uomini per arrivare al padre, che è il soggetto di questi incontri e naturalmente ciò non accade a caso, anche se non in modo lineare. Questo è accaduto perchè la memoria del padre reale è ricorsa spesso in questi dialoghi, esplicitamente o meno, soprattutto per quanto mi riguarda. Credo che se incominci a misurarti con gli uomini sia abbastanza scontato, almeno per me lo è, ricordare e proiettare su loro la figura del primo uomo che hai amato, il padre che hai avuto.
Parlare del padre oggi è la tappa di un percorso che parte dal ricordo del padre che ho avuto, dalla decodifica di quello che ha rappresentato per me in termini di forza e di autorevolezza, e arriva alla rilettura di questo portato nel tentativo di inscriverlo in uno scenario più ampio di senso ed azione, e quindi politico.
Due figure, il padre nella realtà e il padre nel simbolico che si intrecciano profondamente in un punto preciso che è quello della mancanza reale e simbolica del padre. Mancanza come vuoto e non come nostalgia o rimpianto, tengo a sottolineare, dell’arroganza assertiva di una certa modalità non avverto il bisogno. E neanche della forza contrappositiva che mi permetteva di ribellarmi e sganciarmi dall’influenza del padre.
Nel pensare o ripensare la figura del padre non posso prescindere da questo. In fondo è stata la percezione di questo vuoto che mi ha spinta a ricercare la relazione con gli uomini, la relazione nella differenza. Perché passo ora dal parlare di uomo a parlare di padre? Perché questo salto nel discorso, perché di salto si tratta, io l’ho sperimentato vivo e presente nei miei discorsi con gli uomini e con le donne che condividono con me questo percorso di relazione nella differenza. E’nata nel gruppo l’esigenza di affrontare esplicitamente questo nodo, il padre e il nostro rapporto con questa figura, devo dire soprattutto su spinta delle donne del gruppo.
Il posto del padre si pone problematicamente per me donna sotto due sfaccettature: da un lato il padre è prima di tutto il padre che ho avuto, che nella sua ultima rappresentazione di autoritarismo e visione univoca di giudizi e indicazioni schiacciava il mio desiderio e la mia libertà. Ma era anche il padre con cui mettere in scena il conflitto, quel conflitto da cui si può riuscire solo vincenti se si vuole sopravvivere.
Dall’altro lato c’è il padre che vorrei che i miei figli avessero, quello che prima ancora è il mio compagno di vita, e che oggi più di prima, almeno stando alle testimonianze di alcune mie amiche, vive il suo ruolo con una partecipazione e una dolcezza, nei gesti del corpo, che vuole trovare i sui canali, le sue parole per esprimersi, il suo protagonismo nella cura dei figli.
Perché questa esigenza? Parto da un’emozione forte, che è il senso del vuoto, il posto vuoto del padre per quello che significa per me. Ma cosa vuol dire misurarsi con il posto vuoto del padre? Vuol dire essenzialmente vivere una situazione in cui manca la controparte dialettica e anche conflittuale di qualsiasi discorso, intimo privato o politico che sia.
A tale situazione vedo che si rimedia con due schemi di discorso, che tendono entrambi a sopperire a questo vuoto, depotenziando la capacità creatrice del conflitto.
Il primo pone la figura del padre perfettamente speculare a quella della madre. Per fare un esempio: tempo fa il National Geographic uscì con la notizia di un uomo che, rimasto vedovo, a forza di stimolare i propri capezzoli era riuscito a produrre il latte per nutrire propri figli. In questa immagine, che personalmente trovo grottesca, alcuni hanno voluto, naturalmente estremizzando il discorso, rinvenire una forma di interscambiabilità dei ruoli genitoriali all’interno della coppia. Dimostrando così che il vero e genuino scambio tra uomo e donna raggiungerebbe la sua massima potenza e realizzazione nel momento in cui sia la funzione materna sia la funzione paterna possano diventare equali. Un lavoro di cura ripartito, la sostituibilità del ruolo garantirebbe quindi libertà e autorità alle due funzioni.
Il secondo schema è più sottile e quindi interessante, e non affronta direttamente il tema del padre ma fornisce implicitamente una risposta alla questione del posto vuoto del padre e in parte mi chiama in causa: gli uomini possono vivere facendo riferimento ad un ordine simbolico, quello della madre, e agire alla luce di questo grazie ad una pratica di relazione che mette al centro il rapporto con la donna a cui fa riferimento.
In entrambi i casi si annullano due problemi che sono il rapporto di un uomo con la radice della sua esistenza, quindi con chi è venuto prima di lui e l’ha messo al mondo, e il rapporto e la domanda di essere per sé stesso indipendentemente da lei che ogni donna fa al suo uomo, in primis la madre.
Questa è una porta strettissima da cui passare. Io sono profondamente convinta di aver bisogno di un uomo intero con cui misurarmi. Dove per intero intendo un uomo ricco di riferimenti simbolici. E che il posto del padre, che ora avverto vuoto, non può essere riempito a caso o bypassato ma vada letto con attenzione, come una realtà dell’epoca in cui viviamo. Credo che questo vuoto non sia una vittoria delle donne, o un risultato di cui gioire. Credo che il vessillo crollato abbia lasciato un spazio che se non è risignificato rischia di depotenziare il conflitto e la creatività nella relazione uomo e donna. La soluzione non è per me tutta nell’ordine simbolico della madre. Anzi credo che a lungo andare molto gusto si possa perdere nella politica delle donne se quando si affrontano le inesorabili asperità del rapporto con gli uomini ci si trova un uomo che non ha nulla di proficuo da trarre dalla sua origine. Lasciare un uomo solo nell’ombra della madre rischia di creare dei replicanti che poco hanno da dire di loro, perché forse un po’ disprezzano quell’origine quel padre a cui non vorebbero fare riferimento. Questa riflessione non vuole sottrarre forza alla madre, e a quello che può fare per noi, donne e uomini ma porre un problema: che cosa può scorrere tra un uomo e una donna se i riferiementi simbolici sono da una parte, quella maschile per intenderci, non solo crollati ma vuoti di senso?
“Esperire le potenzialità del corpo maschile: per farlo l’uomo ha bisogno di liberare quel corpo dalle scorie e dalla miseria che l’esercizio del potere ha disseminato nella sua esperienza.” Scrive Stefano Ciccone nel suo testo. Da qui il mio sincero interesse e desiderio di averlo qui ospite oggi.

 

Stefano Ciccone
Comincio specificando da dove parlo, sia in termini di esperienze – l’associazione Maschile Plurale di cui faccio parte -, ma anche in termini di relazioni che mi hanno portato a questo incontro. Sicuramente per me è stato importante il dialogo con Sara, Laura ed Elisabetta, per parlare delle donne che stanno in questo luogo, ma vedo qui presenti tante donne e uomini con cui ho costruito una relazione molto ricca e questo è anche un segno di novità rispetto al passato, perché oggi ci sono luoghi di relazione fra donne e uomini che fanno politica proprio a partire da questa relazione, cosa inedita fino a pochi anni fa, e quella era una mancanza che segnava la solitudine di una riflessione come uomini in questo paese.
Io arrivo a questa riflessione a partire dall’esperienza con un gruppo di uomini, dove cerchiamo di fare uno spostamento per produrre uno sguardo parziale sulla realtà, per riconoscerci come parziali, sapendo che questo non è un elemento di scacco, di povertà, ma al contrario è un’opportunità. Questo secondo me ha molto a che fare con la riflessione che Elisabetta nominava come il posto vuoto del padre. Noi abbiamo scoperto che i saperi prodotti dal maschile nelle generazioni precedenti, che avevamo acquisito anche in modo inconsapevole, non solo in modo razionale ma anche nell’esperienza che facevamo del nostro corpo, erano inadeguati a esprimere la nostra esperienza, a raccontare la nostra storia. E quindi abbiamo scoperto che guardare il mondo non partendo da uno sguardo che si presume astratto e neutro ma che parte dalla parzialità dell’esperienza del proprio corpo di uomo, produce un’opportunità di conoscenza, una capacità di guardare se stessi e il mondo in un modo differente. Questo ci porta a una diversa collocazione teorica e politica: riconoscere la parzialità come un’opportunità e una ricchezza significa rompere con una tensione maschile che vede con nostalgia la crisi dello sguardo maschile sul mondo. Di più, noi leggiamo la trasformazione che c’è stata fra donne e uomini come una trasformazione che apre nuove potenzialità nell’esperienza dell’uomo, non come un fatto che toglie potere e spazi all’uomo. Abbiamo riconosciuto che i saperi prodotti dal maschile ci avevano reso invisibili a noi stessi, avevano costruito un modo di guardare il mondo che non ci permetteva di leggere la nostra esperienza. Questi saperi erano inadeguati a esprimere le domande di senso che sentivamo forti nelle nostre storie e che non trovavano un dialogo con le altre generazioni.
Tutto ciò ha un nesso con le genealogie maschili. Io sono cresciuto nella politica, in un rapporto con cultura e saperi maschili molto forti che mi hanno dato anche una grande ricchezza nella conoscenza del mondo, però poi ho scoperto che si interrompeva un nesso, una relazione di senso con una cultura che non riusciva a leggere un pezzo della mia domanda di libertà, perché mi accorgevo che anche i miei padri teorici e politici di riferimento su questo non riuscivano a dire nulla che andasse oltre un balbettamento.
In realtà questa rottura di genealogia maschile rispetto ai saperi l’abbiamo misurata anche in una dimensione più ampia, sociologico-antropologica. Mi riferisco a una paternità che in passato si era costruita sulla capacità di tramandare la signorilità di stare nel mondo, la capacità di muoversi nello spazio, la piena padronanza dello spazio sociale, ma anche saperi concreti, saperi prodotti sul lavoro, prodotti sulla trasformazione della realtà – che potevano andare da saperi contadini a saperi più “alti” – , in cui il padre era colui che trasferiva un sapere. Con la scolarizzazione di massa c’è stata una rottura di genealogie tra generazioni di uomini, e quindi il venir meno di una paternità fondata sulla capacità di conferire un sapere sul mondo. La genealogia con mio padre, con gli uomini della generazione precedente, si è rotta anche nel frantumarsi di quella autorevolezza cui faceva riferimento Elisabetta, che io peraltro ho sempre sentito poco.
Ho sentito che quella presunta autorevoleza maschile, che si traduce nell’alzare la voce nelle situazioni famigliari, o in quell’atteggiamento di riguardo di alcune madri (molte donne, anche della mia famiglia, dicevano “quando arriverà tuo padre…”), indicava una grande inadeguatezza di quel ruolo, che in realtà era poco credibile. Credo ci fosse uno sguardo disincatato di quelle donne che lasciavano gli uomini in uno studio silenzioso, anche da rispettare, o che lasciavano che gli uomini alzassero la voce a tavola, lo sguardo di chi lascia trasparire che quell’alzare la voce fosse solo la parodia di un’autorevolezza venuta meno. Ricordo la zia che mi curava – mia madre era una donna emancipata, che viveva in una continua ma apparente ammirazione di suo marito che nello studio scriveva silenziosamente e che metteva poi bocca su qualcunque cosa. Sembrava schiacciata da quest’uomo. Quando è morta abbiamo scoperto che aveva chiesto di essere sepolta lontano da lui, cosa che mi ha fatto capire che almeno alla fine c’era stata una rottura, e che tutto quell’ossequio in realtà era stata una recita che io avevo recipito esser senza radici. Dico questo perché riguarda anche la nostra collocazione di fronte alle trasformazioni: io scelgo una collocazione che non è né la nostalgia di una società in cui l’esser uomo aveva un senso garantito da una continuità di relazioni tra generazioni, né penso che questo debba essere un elemento che mi porta alla rinuncia depressiva rispetto alla perdita di un ruolo, di autorevolezza, perché quella cosa non mi dà senso. Invece leggo questa perdita come un elemento di grande potenzialità, di reinvenzione di una identità e di una parzialità. Quando parlo di parzialità la indico come un’esperienza del maschile, non come un’essenza del maschile astratta e meta/storica, dove l’esperienza che io faccio del corpo è un dato ineluttabile nella costruzione della mia soggettività, e quindi credo essenziale pensare ad una soggettività incarnata, che fa continuamente riferimento ad un corpo come luogo problematico ma ineludibile.
Quando ho cominciato a parlare di questo con Sara, Laura ed Elisabetta mi ha colpito che sia emerso subito un equivoco. Si è cominciato a parlare del padre come terzo e la loro risposta è stata “ci riproponi l’idea del padre come terzo”. Questa idea del padre come terzo rispetto alla relazione madre/figlio è un nodo problematico su cui mi piacerebbe ragionare perché guarda alla paternità come funzione dal punto di vista dell’evoluzione della persona ma anche socialmente, e mi interessa perché fa emergere qualcosa di importate. Parla di un materno vissuto come potenza minacciosa, e al tempo stesso come condizione legata alla materialità. Su questo tutto il revanchismo maschile, quella corrente politica di uomini che leggono la trasformazione dei sessi come una minaccia all’identità maschile, fa molto riferimento. Questi uomini fanno riferimento al padre come il garante della soggetivazione tramite l’emersione dalla dimensione del solo bisogno, perché il materno, schiacciando il soggetto nel soddisfacimento dei suoi bisogni, ne impedisce l’emancipazione e la soggettivazione. Questo non viene detto solo in termini psicologici ma anche sociali, per cui una società senza padre è una società dei consumi, che genera bisogni e alimenta questi bisogni per poi soddisfarli, e su questo crea una situazione di illibertà e di potere. Inoltre leggono il femminismo come un’aggressione, una minaccia per gli uomini, fino a paragonare il femmismo a Lorena Bobbit che evira il proprio marito, e pensano che di fronte alla femminilizzazione della società il padre sia l’antidoto che permette agli uomini di rispondere a questa minaccia.
Il senso della minaccia mi fa capire che la mia identità è legata al fatto che sono un uomo solo se ho una relazione con un potere, con un sapere, con un ruolo sociale dove costruisco la mia identità. Noi abbiamo nominato la precarietà della virilità, abbiamo visto che la virilità è una costruzione tutta sociale, che prescinde dal corpo, è quasi un’identità contro il corpo. Abbiamo parlato di un’inversione simbolica, di un percorso che vede nella corporeità, nella naturalità, il luogo in cui si sancisce l’accessorietà maschile, la sua marginalità. Per questo c’è da parte maschile la costruzione di protesi simboliche normative contro il corpo. Gli uomini fondano la loro autorevolezza morale sulla capacità di disciplinare il corpo, sulla capacità di prescindere dalle proprie pulsioni, dalle proprie emozioni. Costruiscono l’autorevolezza sul silenzio del proprio corpo.
Un’identità maschile fondata sul potere ha reso gli uomini estranei al proprio corpo e incapaci di trovare nel proprio corpo la radice della propria identità, della propria soggettività. È un’identità che ha sempre bisogno di verifiche esterne, di riti iniziatici, di conferme sociali, perché il tuo corpo non ti dà certezze, e devi trovare la verifica di essere uomo fuori dal tuo corpo, e quindi qualsiasi spostamento di questi poteri mette in crisi la tua identità, la tua certezza di essere un uomo.
In questo senso la paternità come esperienza e come istituzione è in una tensione di polarità: la paternità come istituzione è una risposta al disagio di terzietà, di marginalità del maschile, e sta a fondamento del bisogno di costruire una cultura che rompa con la naturalità e fondi socialmente il ruolo degli uomini, che altrimenti apparirebbe marginale (lo dice molto bene Giuditta Lo Russo). Raccontare il disagio di percepirsi come terzi nel momento fondamentale della nascita, non vuol dire per me esprimere una domanda di accoglienza femminile, una richiesta di comprensione di questo disagio, ma è l’espressione di un interesse verso il limite del corpo come luogo di esperienza conoscitiva, e un interesse verso la relazione come nodo ineluttabile, inevitabile per la costruzione della propria soggettività.
Io sono convinto che una costruzione millenaria dell’identità fondata sul rapporto inscindibile con il potere e sulla costruzione di un ruolo sociale sia stata una strategia maschile contro lo scacco del proprio corpo. Ha prodotto delle protesi normative, simboliche, linguistiche che hanno segnato i corpi di uomini e donne. Questo lo dico perché credo che un nodo sia capire se è possibile un’altra esperienza di paternità, altra rispetto al ruolo della mediazione e della socializzazione, perché il ruolo di conferire uno spazio nel mondo si fondava sul silenzio del corpo. Quel padre che ti insegnava come si sta al mondo era anche un padre con il quale era impossibile l’intimità, la messa in goco del corpo, dato che quel padre era autorevole proprio perché disciplinava il proprio corpo e sovrapponeva a quel corpo un potere, un’autorità, occultando quel corpo nelle sue potenzialità. Quindi se c’è una genitorialità che va oltre il biologismo e le necessità biologiche del nutrimento e si fonda sulla relazione, se c’è questa relazione che si fonda sui corpi ma non è schiacciata sui corpi, sul biologismo, e quindi non fa del materno un destino, un potere e una condanna al tempo stesso, forse è possibile per gli uomini costruire e inventarsi una paternità che non sia l’emulazione del materno, ma che invece cerchi di scoprire le potenzialità del corpo maschile.
Un tema che non emerge è quello del corpo e del desiderio. C’è nella nostra immagine sociale un’idea del materno oblativo, basata sull’idea della rimozione del desiderio femminile e su una rappresentazione della sessualità maschile nella dimensione ferina, violatoria. Rimuoviamo la valenza erotica della relazione tra la madre e il figlio, e su questo mi pareva molto interessante la riflessione che faceva Manuela Fraire, che sottolineava che in questa relazione c’è un’esperienza libidica, e diceva anche che la donna, in una relazione con un corpo infantile, è comunque una donna adulta che porta con sé un inconscio e un immaginario anche erotico, è dentro una dimensione che riguarda anche la sessualità, non è solo in una dimensione oblativa, di accoglienza.
Invece per tutti l’immagine del rapporto intimo di un corpo maschile con un corpo infantile fa problema, pone automaticamete un’esperienza di disagio. Non a caso una delle riflessioni più faticose, anche perché c’è un tabù, è quella sulla pedofilia, che rimanda alla difficoltà a pensare una relazione tra un corpo maschile e un corpo infantile in cui il desiderio, la corporeità e la sessualità siano effettivamente in gioco e non siano rimossi, non siano espunti da una situazione in cui quella dimensione non è possibile perché la sessualità maschile è rappresentata necessariamente come pervasive, violenta, e rimanda a un’immagine di violazione dell’altro.
In realtà questa estreneità dei corpi io l’ho misurata con mio padre. Mi sono reso conto che anche di fronte alla morte di mio padre tutti e due non eravamo in grado di fare dei nostri corpi un’occasione di dialogo, non c’era nessuna possibilità di intimità, di prendesi cura, di stare in una relazione. Ho percepito la solitudine della strategia che mio padre ha perseguito nella costruzione del suo rolo, che l’ha condannato nel momento in cui c’era solo il corpo e in cui sentiva come importante comunicare con me a quel livello, essendo il momento finale della sua vita.
Per questo per me è importante capire se riesco a fare un’esperienza diversa della mia vita, del mio corpo. Un’esperienza in cui anche la dimensione sessuale di desiderio sia possibile, perché questa rappresentazione del desiderio maschile come unico, che pervade il mondo, rimuovendo il desiderio femminile, e quindi rappresentando un unico soggetto, (soggettività e desiderio vanno insieme), il desiderio schiacciato su una dimensione scissa dalla relazionalità, dall’intimità, dalla dimensione più emotiva, è il segno del fallimento di questa strategia basata sul potere.
In una dimensione di attualità politica, il tema della paternità è dentro due nodi di conflittualità. Innanzi tutto quello che riguarda i padri separati, il tema della famiglia in cui c’è una grande capacità di iniziativa, fino alla vittoria con l’affido congiunto, che costituisce una sorta di revanchismo e vittimismo maschile di fronte al fatto che in tutte le cause di separazione i figli vengono affidati alle madri, secondo l’idea che gli uomini devono solo pagare gli alimenti. La condizione su cui alcuni uomini costruiscono una rivolta in realtà è figlia di una costruzione della paternità che si basa sul portare i soldi a casa, e che lascia il luogo della cura alla donna, ma questo poi si ritorce contro l’uomo stesso, nel momento della separazione.
In secondo luogo vi sono le tecnologie procreative. Di nuovo io le chiamo delle protesi che gli uomini hanno istituito per invadere il corpo della donna, visto come luogo opaco (penso a Barbara Duden ne Il corpo della donna come luogo pubblico), ma oggi c’è un rivolgimento di queste tecnologie, che paradossalmente permettono alle donne di procreare senza gli uomini. Di nuovo, una strategia che usava il potere tecnologico per invadere quello che era visto come un potere generativo femminile sancisce ulteriormente una marginalità del maschile nell’ambito riproduttivo.
C’è quindi un esito paradossale dell’uso maschile del potere, della tecnica, della norma come modo per inseguire e combattere il proprio limite. Invece la nostra storia è stata proprio quella di tornare al corpo, al suo limite, e questo mi permette di fare esperienza del mondo in un modo differente, e mi rimanda a un tema che riguarda l’ineluttabilità della relazione per la costruzione della mia soggettività. Caterina Botti fa una riflessione proprio su questo, a partire dalla madre, sul ruolo ineluttabile della relazione per la sogettività. Per me come uomo questo è ancora più stridente, ancora più forte, e questo penso sia l’elemento di ricchezza su cui ragionare, cioè capire come ricostruire luoghi di relazioni fra donne e uomini che siano anche generatori di senso nella costruzione delle nostre soggettività e nei nostri progetti di vita.

 

Clara Jourdan
Volevo fare una piccola obiezione a una cosa che diceva Elisabetta e ho sentito anche altre volte. Ogni tanto qualcuno esce dicendo che l’ordine simbolico della madre non basta, non va bene. Mi colpisce perché mi pare una idea piuttosto riduttiva, come se fosse una teoria, non un ordine simbolico. L’ordine simbolico della madre può essere benissimo un ordine simbolico maschile, in cui c’é un grande posto per il padre. Non credo che si possa interpretarlo riduttivamente, come se un ordine simbolico maschile possa essere un ordine simbolico che non riconosca la madre al suo posto.

 

Luisa Muraro
Le cose che avete detto sono molte. Sono d’accordo con gli esempi che faceva Stefano, l’affido congiunto che ha caratteristiche reattive, tutta la questione sui divorzi con figli che ha caratteristiche squilibrate da un verso e con esiti grotteschi dall’altro, e sono d’accordo anche con l’esempio della tecnologia, ma rispetto all’attualità recente c’è il fatto che il venire meno di un riferimento simbolico importante alla figura paterna sta privando anche noi di un alimento simbolico. Tempo fa avevo in mano una rivista dei Gesuiti in cui si faceva riferimento al fatto che il loro generale ha dato le dimissioni. È un fatto rarissimo, è una figura come i segretari del partito comunista di una volta, quindi una figura paterna, che dura finché dura. Il titolo della rivista era Saluto al padre e lì mi è risaltata la parola “padre”. Anche Benedetto XVI è un padre, si chiama papa che vuol dire santo padre. Manca nella riflessione il fatto che la nostra cultura, dire quasi la nostra civiltà, è minacciata. Perché la democrazia è evidente che da sola non basta. Abbiamo visto nel Senato della nostra Repubblica Italiana che razza terribile può albergare… insomma la democrazia è quella roba lì, può essere terrribile, si sono insultati, avventati. Se sei davvero democratica sai che la democrazia è quella roba lì, però leggendo le lettere dei giornali noto che c’è della gente che è scandalizzata perché ci si aspetta qualcosa da quelle istituzioni. Lì c’è simbolicamente un’ispirazione paterna, una dignità, e questi uomini, i senatori o il capo della chiesa cattolica, se non hanno questo sostegno simbolico si collassano e collassando tiranno giù anche noi in qualcosa di ridicolo e grottesco. Non so se Stefano vuole dire questo quando parla della corporeità, del desiderio, del limite eccetera. Non so se da qualche parte o per un qualche percorso c’è una possibile risposta, è che non riesco a vederla. Invece vedo questa miseria simbolica che fa disordine simbolico, miseria che viene dal fatto che non hanno quella’aura che potevano avere quando i nostri padri avevano un’aura, aureola. L’aureola viene da aurea, mio padre non ce l’aveva ma altri l’avevano, c’era una volta e la stanno perdendo ed è come qualcosa di grottesco che si sta diffondendo…

 

Marco Deriu
Anch’io vengo da una vicenda personale in cui mio padre biologico l’ho perso molto presto e mi sono ritrovato molto spesso a fare i conti con l’immagine del padre, ma un padre che in diverse fasi della vita mi sono ritrovato a scegliere in diversi contesti, almeno come autorità simbolica, un modello come persona ma anche un modello di maschilità. Questo per me è stato importantissimo, perché riesco a pensare a pezzi della mia via pensando anche alle figure maschili con cui mi sono identificato. Questa cosa mi richiama quello che diceva Stefano, il desiderio visto anche dalla parte dei figli, o comunque dei giovani, cioè il fatto di avere una figura autorevole, che abbia questa aura di cui parlava Luisa. Io penso che che ci sia anche questo tipo di desiderio, di bisogno, io mi interrogo se alcune delle esperienze che abbiamo davanti agli occhi ci parlino anche del tentativo di cercare figure in cui riconoscersi. Allora io chiedo a Stefano se nella nostra esperienza di riflessione, che è stata sempre critica nei confronti dei modelli di maschilità, di paternità, non c’é stata a volte la difficoltà di saper anche scegliere, di riconsocere delle figure che per noi hanno un’autorevolezza che non è la stessa autorevolezza di chi fa riferimento a modelli politici e culturali di un maschile tradizionale. Ti chiedo se per caso pensi che questa cosa non sia un po’ mancata nel nostro percorso.

 

Annamaria
Io ho un figlio maschio e non ho mai pensato che potesse prendere come riferimento suo padre. Ho sempre pensato che potesse trovare se stesso dentro se stesso, con i suoi silenzi, con i suoi tempi, con le sue passioni e problemi. Mi chiedo perché guardare all’esterno. Io penso che sia importante guardare ai propri desideri e questa è una regola importante che ho imparato con lui.

 

Laura Colombo
Quando parli della tua collocazione, del punto in cui ti interroghi, vedo che non c’è una nostalgia per l’autoritarismo, non c’è la rinuncia depressa ma una ricerca, una reinvenzione a partire dalla parzialità. Tra le cose che hai dovuto buttare via nel tuo percorso c’è anche una genealogia del maschile che fa riferimento al sapere e al potere. Da un certo punto di vista è stato un grosso limite rispetto alla ricerca di parzialità perché questa rinuncia lascia fuori qualcosa di te. La volta scorsa abbiamo fatto un incontro con Francesco Ragazzi e lui diceva di voler lasciare fuori le geneologie maschili basate sul sapere e sul potere però diceva anche di voler creare delle genealogie maschili partendo da ciò che resta rispetto alla maschilità e alla paternità intesa come legge. C’é qualcosa che eccede la maschilità e la paternità intese come legge, e questo qualcosa è un che di contingente, di particolare, che fa parte dell’esperienza che ognuno ha con il proprio padre, ha a che fare forse con la sfera della corporeità, io non lo so. Allora mi chiedo se anche tu senti l’esigenza di avere una storia dentro di te, di avere una genealogia maschile, oppure, buttata via la genalogia maschile che si basa sul potere, che basa il sapere sul potere, non c’è più questo bisogno e la genealogia diventa qualcosa di inessenziale.

 

Stefano Ciccone
Noi abbiamo iniziato la nostra riflessione partendo dalla violenza e questo ha segnato molto la nostra storia. Dentro a quel ragionamento noi abbiamo tentato di dire che la rappresentazione sociale del desiderio maschile e tutte le forme di degrado che vediamo nella società legate a questa esperienza della sessualità sono una cosa, ma a noi interessa non far un’operazione di disciplinamento della sessualità in nome di un dover essere, di una morale, delle buone maniere, ma di svelare come questo degrado e questa violenza sia frutto di una miseria. Ci interessa liberare il nostro desiderio da questa miseria e pensiamo che sia necessario il conflitto con questa espressione degradata della mascolinità attraverso un percorso di libertà per gli uomini, e lo dico per rispondere in parte a Luisa. Io sono diffidente rispetto a chi dice che i cittadini in una dimensione democratica tirerebbero fuori lo schifo che vediamo al Senato o altrove e c’è bisogno di un ordine di riferimento che riesca a incanalare, a governare bassi istinti nella sessualità o la miseria nel linguaggio ecc. Il mio percorso mi porta a scavare in un’altra direzione. Io dico che tutto questo non è un dato originario che va governato e civilizzato, ma è il frutto di una illibertà rispetto alla quale voglio fare un lavoro di destrutturazione, di scavo, di critica, più che di recupero di strumenti che diano ordine. Per me l’autorevolezza, e anche la relazione genealogica è una relazione, e anche il potere è frutto di una relazione, io posso produrre potere anche all’interno di una relazione. Io ho fatto politica nella storia dei comunisti e lì c’era il rigore dei comunisti che dovevano autodiscipolinarsi, ma c’era anche il desiderio di produrre una domanda critica in più. Per esempio il disordine del Senato sembra un disordine ma in realtà è lo specchio di un ordine molto rigido. Chi si mangia la mortadella in Senato riafferma un ordine, non è semplicemente confusione.
Marco dice che noi abbiamo decostruito i padri avendo difficoltà a riconoscerli. In parte questo riconoscimento politicamente l’ho fatto per altre cose nella mia storia, ci sono stati uomini che sono stati per me riferimenti fortissimi. Uno che nessuno ricorderà è stato Lucio Magri. Per me è stato un riferimento forte, quasi esitenziale. Nello stesso tempo so che se dovessi parlare a lui di queste cose direi – come dicono molti del loro padre – , beh, queste cose lui non le capisce, non ci può arrivare perché è un uomo dell’altro mondo, che qui dentro non sarebbe in grado di stare, non sarebbe capace di stare su questo piano su cui invece io lo interrogo.
Rispetto a quello che diceva Annamaria credo che lì ci sia un’illusione tutta maschile, che Maria Luisa Boccia richiamava molto bene nel suo libro criticando il filone queer del femminismo: l’illusione del soggetto autofondato, che costruisce la propria libertà pensandola come scissa dalle relazioni, che vuol dire non riconoscere le origini, qualunque esse siano, che vuol dire non riconsocere vincoli e limiti. È pensare che la soggettività sta tutta dentro di me e che io posso plasmare il mio corpo, la mia esperienza, a partire dal mio desiderio, mentre io so che questo è un modello maschile di libertà, quello che si disfa delle relazioni anziché pensare una libertà dentro le relazioni, e pensare un soggetto che è anche corpo, quella parte di me che non controllo.
Anche rispetto a quello che diceva Laura, mi interessa un’idea di libertà che non prescinde dal riconoscere genealogie, relazioni, storicità. Devo comprendere che sono contiunuamente attraversato da questa storia, ma mi interessa di più costruire uno sguardo critico destrutturante invece di trovare oggi qualcosa cui fare riferimento per incivilire o gestire questa pulsione degradata che viene presentata come una delle radici di vitalità del maschile.

 

Luisa Muraro
Io volevo segnalare che la paternità ha nutrito istituzioni che senza questo nutrimento si rivelano piuttosto incostitenti e quindi la riflessione critica di decostruzione deve spingersi fino ad arrivare ai Lucio Magri, a questi uomini che si sono nutriti di un ruolo simbolicamente investito di importanza che era quello che sarebbero stati i padri, che attualemnte non assumono neanche quella cosa, e che resta una cosa mancando la quale si arriva in un disordine che si aggrava perché non si sa neanche che cosa lo produca. Con l’afflosciarsi di figure di autorità che si accortacciano su se stesse non penso certo che la soluizione sia di restituire loro qualcosa di quel tipo. È più un’indicazione di lavoro critico.

 

Laura Minguzzi
Il riferimento al figlio di Annamaria io l’avevo inteso come la relazione di un figlio maschio con la madre, quindi l’autorità c’è, non è un soggetto isolato, senza relazioni, autofondato. C’è un vincolo ben preciso con un’autorità femminile.
Volevo porti una questione che riguarda la relazione di differenza. Dalla tua analisi mi pare che il conflitto fra i sessi non è nel tuo campo di indagine, non è una pratica che può servire al discorso critico. Nel senso che una volta che si è dentro e si riconosce l’importanza della relazione di differenza, la necessità di un’autorità femminile, si è già in una sorta di approssimazione se non di perfezione a un mondo più ordinato. Mi pare che a te questo non interessa, mi pare che stai più sul versante della critica, sei ancora sui lati negativi di tutto il processo della caduta del patriarcato, ancora sull’analizzare tutte le rovine.

 

Silvia
Io credo che sia un po’ difficile pensare già di ricostruire, siamo alle rovine mentre stanno crollando, manca ancora, per creare un simbolico maschile alternativo, un grande evento fondativo. Per ora c’è una presa di distanza, ma non credo che questa sia necessariamente una scelta di fare solo un lavoro critico. Io credo che il lavoro critico sia visto come la parte essenziale da cui ripartire, e questo si allaccia al discorso che faceva Laura. Qualcuno ha già visto l’eccedenza, come diceva Ragazzi, qualcuno ancora no, comunque credo che sia più difficile in questa fase per gli uomini che non hanno alle spalle una generazione di lavoro. È la prima generazione che rimette in discussione il patriarcato.

 

Chiara Martucci
Io vorrei intervenire su questa ultimo scambio perché mi pare che riproduciamo un’ottica un po’ hegheliana. Come se a una parte critica, destruens, dovesse seguire una rifondazione che poi inaugura un nuovo ordine. In un’ottica di processo e di pratica politica la trasformazione avviene quando le linee di continuità e discontinuità si sovrappongono, sarebbe troppo semplice ragionare in questi termini, almeno per me non funziona.

 

Sara Gandini
Volevo rilanciare un discorso che a me interessa, quello sulla pedofilia. Mi rendo conto che c’è molta paura, è un fantasma che aleggia con molta forza tra le madri per esempio. C’è la paura dell’estraneo in generale, proprio in quanto potenziale pedofilo. In uno scambio con Francesco Ragazzi lui diceva che è come se ci fosse la paura che il desiderio dei padri possa esserci anche in quanto corpo, la paura di reinventarsi la paternità, la paura che essereci in quanto padri significhi volersi sostituire alla madre, anche banalmente nei termini di un potere e quindi che ci sia il rischio dell’onniptenza materna, di voler controllare tutto, cose che abbiamo gia’ detto. Ma anche la paura di diventare troppo simili. Mi viene in mente quello che diceva Annamaria Piussi la volta scorsa. Siamo in un’epoca in cui c’è da parte degli uomini un grande desiderio di esserci con il figlio. L’anello debole è la relazione fra i sessi, fra madre e padre. Se questo è vero è molto difficile per un padre pensare di passare dalla mediazione materna nel rapporto con il figlio, ma anche stare in un rapporto vivo in cui l’essere uomo e donna giochi in questo trio. Quindi penso che ci possa essere il fantasma dell’annullamento delle differenze, e che possa calare l’erotismo fra i sessi…

 

Stefano Ciccone
Sono d’accordo con quello che diceva Luisa. Questo fa emergere l’inconsistenza di quella autorità che è costruita su radici inconsistenti, e quindi è importante per me dire che non posso seguire quel fondamento perché la sua crisi e la caduta a cascata della credibilità delle istituzioni che si basano su quel riferimento mi dimostrano che quel riferimento per me è inservibile. In questo senso penso che siamo d’accordo.
Rispetto ad Annamaria, noi in realtà non stiamo parlando di lei, io dico quello che mi interessa dire di me: e se dice che il figlio trova la sua identità dentro di sé a me riecheggia l’idea di un soggetto che si fonda a partire da sé e su questo fa un esercizio di controllo e disciplinamento.
Non sono d’accordo che senza il riconoscimento dell’autorità femminile non c’è riconoscimento della relazione di differenza e non è possibile una pratica politica che vada oltre lo sguardo sulle macerie e la critica. Quando parlavo del riconoscimento di una parzialità maschile e del fatto che le soggettività sono incarnate, vuolevo superare l’idea di una gerarchia tra un’identità astratta e neutra e una sessualità considerate corpo e materia, e quindi superare l’inversione che metteva in un ordine gerarchico e relegava il femminile alla materia. Riconoscere che la sessuazione, l’esser uomini e donne, è parte costitutiva della soggettività vuol dire dare importanza a questo elemento, ma non so se il mio punto di riferimento è la critica destrutturante. Quello che muove il mio percorso politico è un desiderio di libertà prima ancora che il ragionamento sulla costruzione di un ordine o di uno sguardo critico. Quello che sento di dover fare è un continuo sguardo sui dispositivi che plasmano la mia esperienza per capire come posso creare spazi di libertà per la mia vita. C’è un’asimmetria nel percorso di donne e uomini rispetto all’ordine patriarcale, perché io so di non poter fare un percorso che trae forza dalla condizione di estraneità. Io non posso costruire un conflitto rispetto all’ordine patriarcale senza sapere che sono dentro e plasmato da questo ordine e quell’ordine è anche espressione di me. Ad esempio non posso fare riferimento alla madre, non posso far emergere una soggettività rispetto a una storia che l’aveva rimossa o cancellata… Non posso fare un’operazione di quel genere, l’inversione simbolica di un’esperienza femminile storicamente e teoricamente negata, perché se guardo dietro di me la storia del maschile è quella di un ordine che ha plasmato la gerarchia delle relazioni fra i sessi. E quindi non posso fare uno spostamento per ancorarmi a quell’odine, devo ivece costruire continuamente uno sguardo che disveli quell’ordine.
Rispetto a quello che diceva Sara io penso il contrario. Non credo che il fantasma e l’angoscia che in ognuno di noi emerge di fronte alla parola pedofilia, che emerge rispetto all’immagine dell’initimità tra corpi maschili adulti e infantili abbia a che fare con la necessità del materno, o con la paura di assomigliarsi. Credo invece che la pedofilia ci parli dell’immagine che abbiamo della sessualità maschile come di qualcosa potenzialmente minaccioso. Com’è possibile che io riesca a pensare a quel corpo nelle relazioni di intimità tra adulti e poi pensarlo irriducibilmente minaccioso e distruttivo in una relazione con l’infanzia? Questo dice della rappresentazione del corpo femminile necessariamente accogliente, e di un’immagine del corpo maschile che a me fa problema. Questa mi pare una cosa su cui scavare, prima del rischio che questo corpo possa asessuarsi e possa diventare come quello di una donna. Ci sono due universi che nella loro rappresentazione parlano di una miseria, perché anche la rimozione del desiderio femminile produce una rappresentazione di miseria come quella del corpo femminile come invasivo.

 

Luisa Muraro
Non possiamo semplicemente pensare che la pedofilia sia un fantasma cresciuto con la mercificazione dei corpi, che riguarda tutti i corpi ma specialmente quelli delle donne e dei bambini. È un fantasma orribilmente cresciuto a partire dal fatto che siamo tutti naturalmente perversi, abbiamo tutti desideri che riguardano anche i corpi dei bambini. Il fantasma è naturale, perché teniamo contenuta questa pulsione ma la sfioriamo, sempre. Io per esempio mi arrabbio con le donne che si prendono troppa confidenza con i bambini piccoli. I bambini vanno lasciato in pace, ed è ciò di cui si sta parlando. L’altra cosa è che grazie a internet questo fantasma gira, grazie alla mercificazione dei corpi che viene facilitata. Pensate al bombardamento del Libano da parte di Israele. Con che facilità andavano a bombardare la popolazione civile, corpi umani viventi. Qualche buon motivo ce l’avevano ma andavano a bombardare così, poi si sono vergonati, si sono resi conto. Ma questo era già successo con i bombardamenti all’Iraq. Per semplificarsi una operazione militare si va e si bombarda… pensiamo al bombardamento sulla capitale della Serbia e sulla Serbia, fatto dai nostri… semplicemente per semplificare un’operazione militare, un calcolo politico, andare a bombardare persone… questo è il sottofondo.
Ma la radice vera è naturale. Abbiamo quella pulsione. I corpi dei bambini e delle bambine hanno una grazia, fatta naturalmente o darwinianamente, per piacere agli adulti, e mi pare un’ottima spiegazione, e i bambini sanno che sono alla nostra mercé. Qualcuno intuisce che siamo pericolosi…
Anche nelle fiabe c’è un erotismo che continua a sfiorare la grazia e la bellezza dei corpi delle creature piccole. Negli asili mettono recinzioni, spazi, siepi, cos’altro ci mettono? Mi hanno detto che è per paura delle siringhe, tutte paure… siamo riuscite a fare un bellissimo film entrando nelle scuole elementari per far vedere bambini e bambine con le loro maestre, per fare vedere la bellezza, la grazia, la gioia che danno, ora quella lì è imparentata con quell’altra…


Chantal
Volevo descrivere la mia scena famigliare, per mostrare un percorso che sto facendo ultimamente. Nella mia famiglia c’è sempre stato un dominio di mia madre, e ho sentito moltissimo la divisione dello spazio pubblico e privato, in una disparità di poteri che continua ad esserci nel privato e nel pubblico. Nel senso che mio padre è sempre stato molto presente, ma non un interlocutore rispetto a mia madre, in questo senso io parlo di dominio di mia madre, la famosa legge l’ha data mia madre, non mio padre, però quando c’era da fare qualche telefonata pubblica doveva farla mio padre ma dicendo le cose che voleva mia madre. Quindi c’era questa scenetta ridicolissima ma io non credo che sia cosi’ rara, soprattuto in Italia: lui doveva parlare ma ogni tre per due vniva interrotto da mia madre che gli diceva cosa dire, e lui si irritava, si stizziva. Così chi doveva apparire con in mano il potere non era chi l’aveva.
Nello spazio pubblico era esattamente l’inverso. Non che le donne non contino, certamente, ma c’è questo bisogno di mantenere l’apparenza di un potere maschile, che del resto comunque c’è, perché io sento che il dominio maschile non è finito. Credo che sia in crisi, per il fatto di doversi interrogare. L’aspetto più significativo è il fatto che ci sia un cortocircuito, per cui la violenza che è sempre stata una prova della virilità ora viene condannata dallo stesso patriarcato, come se ci fosse una sorta di schizzofrenia patriarcale. Il terzo, nel senso di un interlocutore altro rispetto a mia madre, nella mia esperienza è mancato.
Il limite del corpo non è cancellato dal fatto che esiste la tecnologia, anche due donne che vogliono fare un figlio tra loro hanno comunque questo terzo inevitabile e necessario, anche se solo nella componente reale dello sperma, quello è comunque un limite inevitabile. Mi pare che sia sempre l’idea dell’onnipotenza femminile, che azzera completamente l’altro, e mi pare che questa questione non venga indagata adeguatamente da questo punto di vista.
Rispetto al discorso sul corpo, mi sembra che il patriarcato abbia eretto, e uso questo termine non a caso, il proprio potere proprio sull’erezione, quindi non è che il corpo non ci fosse, ma tutta la struttura è stata fondata su un equivoco voluto fra fallo e pene, che deve essere eretto, su un’identificazione, per cui l’uomo è quello che ce l’ha duro. Così io penso che una riflessione sul proprio corpo debba nominare il corpo, così come le donne hanno significato la propria capacità di mettere al mondo, poi le posizioni possono essere molto differenti, ma io penso che non si possa prescindere da questa cosa.
Mi ha fatto molto piacere sentire parlare Luisa Muraro di perversione, perché questo vuol dire porsi la questione dell’inconscio. Non credo che si possa porre la questione dell’ordine perché quando si fa all’amore non si fa ordine, si fa tutt’altro, le difese, le strutture cadono. Per cui le ciritiche che si fanno al queer denotano una difficoltà a riconoscere che nel momento in cui non c’è più un muro ma una membrana semipermeabile tra spazio pubblico e privato, per cui le donne sono sempre più presenti nel pubblico e gli uomini nel privato, è difficile dire quale sia il ruolo di una donna, e cosa vuol dire essere una donna. C’è una questione complessa su cosa vuol dire essere donna, fare la donna… un tempo i figli venivano curati dalla balie, non c’erano neanche le cure materne, o comunque non erano le cure della madre biologica, per cui la questione è estremamente complessa. Apprezzo la posizione di chi si interroga come Stefano, ma se si parte dal corpo non si può prescindere da tutto quello che è stato costruito sull’erezione, sul fatto di avere un corpo penetrativo, e non penetrato.

 

Elisabetta Marano
Il mio problema rispetto all’uomo che decostruisce, è che faccio molta fatica ad aprire dei conflitti. Nella mia vita non ho mai trovato una controparte che sostenesse dialetticamente questo conflitto. Ho nella memoria, rispetto a mio padre e ciò che ha rappresentato, che era una relazione basata sulla contropposizione. Io vorrei uscire da questo schema ma mi rendo conto che è molto difficile. Parte del desiderio di questo ciclo di incontri era quello di investigare se nel vissuto mio e delle donne, c’è la memoria del perché questo conflitto sia così difficile da giocare. Questo non vuol dire che io auspichi il ritorno dei padri, però vorrei trovarmi di fronte nel conflitto un uomo tutto intero.
Con questo non voglio demolire l’uomo che ho al mio fianco. È su questo che ci basiamo per costruire un dialago, non era per svilire.

 

Stefano Ciccone
Sono d’accordo con Luisa che una cosa sono le rappresentazioni sociali e altra cosa è la realtà. Riconoscere che c’è una pulsione erotica che in quanto tale è anche perversa mi interessa, perché invece nella rappresentazione sociale, nella pubblicità, la madre è sempre accogliente mentre c’è un’ansia rispetto al maschile. Vorrei capire come costruiamo uno spazio sociale che renda accettabile, pensabile una relazione degli uomini con i bambini perché questo è uno dei tanti modi per reinventare l’esperienza del corpo maschile. Il corpo infantile rimanda a un immaginario condiviso socialmente, quello della donna angelicata, dell’innocenza, della sessualità senza una relazione di reciprocità.
Cosa c’è di più estremo, per corrispondere a questi modelli, della sessualità di un corpo puro, angelicato, innocente e che non ti pone di fronte a una relazione, come quello infantile? L’uomo milanese che va con la ragazzina rumena minorenne, perché può gestire il gioco, sta dentro a questo immaginario? Secondo me in parte sì.
Sono contento che si sia iniziato a parlare di erezione, di pene. Nel nostro lavoro c’è stato anche questo, per cercare di liberare il pene dalla sovrapposizione simbolica del fallo, quindi dire che il pene è corpo, prima di essere strumento perfomativo, di penetrazione, e per fare la pace con la penetrazione e – soprattutto per me – fare la pace con l’erezione, e quindi capire se l’erezione è solo un atto simbolico, o anche un’esperienza che fa il mio corpo. Io so che posso avere un’erezione se uscito dalla piscina mi metto al sole e vivo un’esperienza di piacere, e so che quella è un’esperienza del mio corpo non rimandabile a una fantasia di pentrazione, di violazione o altro. Questa è una cosa su cui noi abbiamo tentato di lavorare per far tornare il pene al corpo, prima che al simbolo. Dicevi che noi nominiamo poco, però anche qui c’è un’asimmetria. Se noi facessimo delle manifestazioni con il dito medio, come le donne che con le mani facevano il simbolo della vagina, non farebbe lo stesso effetto. Questo perché c’è sempre una tensione tra corpo e rappresentazione simbolica del corpo. Io cercavo di esprimere proprio quello che diceva Chantal, che c’è la violenza patriarcale e c’è un patriarcato che condanna la violenza. Mi sono trovato ad andare a una manifestazione con Maurizio Costanzo che incarnava proprio questo, e diceva che i veri uomini non violentano le donne, i veri uomini sanno dominarsi, rispettano le donne, questi invece sono degli uomini disordinati, però questo lo dico anche rispetto a noi. Io sono un uomo che non ha bisogno del rito di appartenenza allo stadio, che non ha bisogno di avere una donna bella e scema accanto, in realtà penso che sono più uomo di un altro che ha bisogno di quelle cose. C’è il rischio che anche noi riproduciamo nella critica un modello che pensa la mascolinità come capacità di controllo.
Tu dicevi “serve sempre uno spermatozoo”. Ti ricordo che un ovulo può cominciare a dividersi anche per altri fattori, un aghetto, una scossa elettrica, in realtà lo spermatozoo non è poi così necessario. Tutto questo per dire che non mi interessa trovare un riferimento biologico. Per me ragionare sul maschile vuol dire ragionare sull’ineluttabilità della relazione.
L’inconscio per me è un terrreno interessante in quanto mi mette di fronte un soggetto che non è sempre presente a se stesso, che non è solo quello che genera e plasma ma che è attraversato dai conflitti, però quando tu dicevi che tutti, quando fanno all’amore, non producono ordine, io mi porrei la domanda al contrario. L’ordine agisce quando faccio all’amore? Il terreno del desiderio, dell’inconoscio, è terreno di una libertà non colonizzata da un ordine o anche quando faccio all’amore, anche nel desiderio, io sono attraversato da poteri e simbolici? Rispetto alla pratica politica, dire “l’unica legge è il desiderio”, o dire “faccio riferimento al desiderio come punto di partenza per esprimere una soggettività” fa emergere che per me in quanto uomo questo desiderio non è libero, e quindi anche in questo non dico vigilare, altrimenti torniamo a una fantasia di controllo, ma guardare criticamente.
Rispetto a quello che diceva Elisabetta, io non lo pongo su un piano personale, ma lo pongo su un piano politico. A me interesserebbe capire se i femminismi hanno un interesse ad aprire un conflitto non solo con il potere maschile, con Mario Tronti sulla politica, o agire un conflitto con la politica tradizionale sul controllo sui corpi delle donne, non solo agire un conflitto stereotipato con un potre astratto, ma hanno un interesse a costruire una relazione politica conflittuale con gli uomini che si spostano rispetto a quell’ordine. Altrimenti tu agisci un conflitto con qualcuno che è sempre una rappresentazione semplificata di un interlocutore e non ti misuri con la fatica di una interlocuzione piu’ complessa.

 

Emanuela
Perche’ parlate di conflitto e non di confronto?
A proposito di pene e fallo a me veniva in mente che nell’ebraismo, nella grande tradizione patriarcale, uno dei patti fondativi è il patto di alleanza tra Abramo e Dio sulla circoncisione, con l’eliminazione di quella parte femminile, perché l’ebraismo è una religione che non si basa mai sulla naturalità dei corpi, ma su uno spostamento addirittura verso la divinità e questo rende il patto fortissimo. Questa imagine mi veniva in mente a proposito dell’attualità. La gran corsa che si vede da parte di tanti uomini sul discorso di Dio, della teologia, io credo che abbia a che fare con il discorso dello svuotamento dell’autorità dalle istituzioni che storicamente gli uomini si sono dati nella società. La ricerca nel passato, nella tradizione, in questo fondamento così forte della cultura ebraico, giudaica, che poi diviene giudaico-cristiana ecc.
L’altra cosa è questo discorso sulla pedofilia che un po’ mi inquieta. Questo fantasma che aleggia quando un uomo pensa di ritornare al proprio corpo, e di sperimentarlo con le bambine e i bambini. Io ad esempio sono stata insegnante per tanti anni e mi sono resa conto bene di questa perversione di cui parlava anche Luisa. Io non riuscivo a insegnare bene nelle mie classi se non mi ‘innamoravo’ di qualcuno, ma nel senso che nella relazione pedagogica c’è una corrente erotica, il problema è sapere cos’è e come metterla in gioco nei confornti di soggetti che non sono completamente responsabili di sé.

 

Una donna
Tu hai preso solo una versione del padre, la perversione. Tu fondavi il padre come genitore, autorevolezza fusa con autorità e autoritarsimo, e la femminilizzazione della società che non è la femminilità. Con la femminilizzazione si parla di castrazione, di eliminare i sessi, ma noi vogliamo parlare di pulsioni, di energia. Tu aspetti il padre perfetto, l’uomo tutto intero di cui parlava Elisabetta. Una versione del padre di quando si è bambini, che violenta la madre nell’atto sessuale. Le protofantasie infantili. È positivo che possiate parlare di queste cose con noi, ma è come se chiedeste il permesso di essere liberi, le donne sono state più ose’. Tu fondevi la sessualità con la genitalità. Questa è un’altra questione importante. Il bambino è il perverso polimorfo che incita l’adulto. Chantal ha incluso l’amore, che mancava al tuo discorso, inteso come legame. In quello che tu dicevi ti pensavi molto solo, come se fossi fuori dalla società, come se ci fossero tanti padri e poi nulla altro. Dal lato dall’amore tra due esseri umani, in questo punto c’è la questione che siamo nella società. Chi è che modera questi fantasmi, pulsioni, per fare in modo che si realizzino in modo sublimato con la scienza e con l’arte? Solo la cultura. Il disagio della civiltà, in questo caos, è perché la cultura è stata seriamente danneggiata.

 

Sara Gandini
Volevo rispondere all’insegnante, che parlava del conflitto. Io uso spesso questa espressione, parlo di conflitto fra i sessi, intendendo un conflitto relazionale, quando c’è una relazione viva, c’è una posta in gioco su cui vale la pena confrontarsi.
Mi è piaciuto quando parlavi dell’importanza dell’innamorarsi dei bambini, e io penso che non sia solo innamoramento ma che giochi una compoonente erotica. Ho presente uno scambio che ho avuto con uno psicanalista junghiano in cui dicevo che con mia figlia la componente erotica è sempre stata molto presente, per esempio non mi sarei mai alzata alle due di notte per allattarla se non ci fosse stata questa componente. Questa componente per le donne è abbastanza accettata, mentre per gli uomini è molto più problematica. Lui considerava inaccettabile che potesse esserci un’erezione nel rapporto con la propria figlia, con la quale aveva messo una certa distanza. E quando nominavo la componente erotica nel rapporto con mia figlia è rimasto un po’ spiazzato.
Poi volevo replicare a Stefano su questa cosa della pedofilia. Io penso che entrambi mettiamo in campo le rispettive paure. Io penso che da parte vostra, da parte di uomini che hanno fatto un percorso di consapevolezza, ci sia la paura rispetto alla propria sessualità con la donna e con i bambini, il timore di come giocare l’aggressività, o comunque di come reinventare la sessualità. Mentre da parte mia forse c’è più il timore che rimuovere una parte della mascolinità anche nella sessualità possa portare all’eliminazione delle differenze e dell’erotismo.

 

Una donna
La questione della pedofilia mi ha un po’ inquietato. Esiste la pedofilia intellettuale e la pedofilia proletaria, operaia? Non so.
Sono d’accordo rispetto all’innamoramento attraverso cui passa molto, un insegnamento, ma in passato vedevo solo la perversione maschile.
Io inoltre penso che dovremmo anche parlare di etica.

 

Luciana
Io penso che nell’ordine simbolico della madre c’entra anche l’eros, che è apertura all’altro.

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