10 Febbraio 2014

Tra storia e fiction. Il racconto della realtà nel mondo contemporaneo. Et al./edizioni, 2012 (Incontro al Circolo della rosa, 9 novembre 2013)

 

INCONTRO CON MONICA MARTINAT

 

Milano – Circolo della rosa, 9 novembre 2013 a cura della Comunità di storia vivente (Martinengo, Minguzzi, Santini, Tavernini).

 

Trascrizione della registrazione di Serena Fuart e Laura Minguzzi

 

Laura Minguzzi: Questa serata è dedicata alla storia. Abbiamo invitato la maitre di Conférence all’università di Lione Due, Facoltà di Storia, Monica Martinat per discutere il suo saggio dal titolo: Tra storia e la fiction. Monica ha svolto il dottorato a Parigi con Jacque Revel, approfondendo una tesi in direzione del pensiero economico che è stata pubblicata dall’Ecole Française de Rome. Ha cambiato poi interessi e direzione della sua ricerca e tuttora si occupa di costruzione dell’identità nel ‘600, di come donne e uomini dell’epoca fanno i conti con le loro eredità materiali e immateriali cui accompagnano le proprie scelte di vita in un contesto spesso descritto, a torto, come fisso, in cui gli individui sembrano predeterminati dalle appartenenze e la loro capacità di scelta sembra falsamente ridotta ai minimi termini. Per seguire questa pista ha cominciato a seguire gruppi marginali, stranieri innanzitutto scoprendo che molti di loro sono donne e spesso giovani che se ne vanno in giro tra la Svizzera e la Francia in cerca di lavoro per sfuggire ai controlli di una chiesa ginevrina troppo rigida e prescrittiva. Nel frattempo per vie casuali, che poi ci spiegherà cosa sono e cui io non credo, ha inaugurato un corso dedicato ai rapporti tra storia e letteratura che si è trasformato in un corso su “Storia e fiction”. Le studentesse e gli studenti l’hanno spinta in questa direzione suggerendo che un terreno di scambio comune poteva essere ricco di riferimenti condivisi e poteva essere lo scambio tra storia e letteratura. Pascale Mounier, docente e ricercatrice di letteratura francese è diventata una partner importante in questo percorso. Ha condiviso gli spunti della sua riflessione, anche se le risposte trovate non sono state le stesse. Con Pascale, Monica ha insegnato insieme due anni “Storia e fiction” e ha tenuto insieme con lei un seminario di ricerca interdisciplinare su questo tema. Il libro di cui discutiamo questa sera è il frutto di questo lavoro insieme. Il seminario ha avuto due stagioni e ora si è trasformato in seminario itinerante: Lione-Caen-Bergamo. Hanno anche adottato un altro partner: Marco Sirtori. Questo libro viene da questa esperienza, dagli interrogativi, dai disaccordi, dai conflitti con studenti e studentesse e con colleghi e dalle discussioni con Pascale che le ha permesso di chiarire quello che le piace e che non le piace del modo di fare storia oggi, di pensare a quali tendenze più generali le sembrano inquietanti. Prima di questo incontro le ho telefonato e le ho chiesto come funziona la sua università, se ha libertà di movimento, chi decide i corsi. La struttura dell’università mi interessa per saper il quadro in cui lei si muove; sono anche molto interessata alla genesi di questo corso di “Storia e fiction”che ha creato e che è aperto a tante discipline, rivolto a storiche-storici e no. Che cosa abbiamo in comune? Abbiamo parlato delle cose che ci piacciono, delle letture. Ha detto che ha letto tanti anni fa Gianna Pomata. Questa è una lettura che abbiamo in comune, noi Comunità di storia vivente e lei. Quando abbiamo iniziato a occuparci di storia negli anni Ottanta, siamo partite dai testi di Gianna Pomata, Storia particolare e storia universale. Tornando al libro in questione, è suddiviso in tre capitoli con un’introduzione, un epilogo e una ricca bibliografia. Piccolo di formato ma molto denso, è come una panoramica, un aggiornamento, tratta come si racconta la storia, la realtà, come recita il sottotitolo. I titoli dei capitoli introducono già nel vivo del tema: la crisi del mondo reale, la letteratura tra invenzioni, testimonianze e storia, dalla parte della storia. Il nodo del primo capitolo è la diffidenza verso la storia ufficiale e verso il potere, la noia della storia, già descritta da Jane Austen. C’è una panoramica del perché la storia è noiosa. Per risolvere questo disinteresse verso la storia si è fatto ricorso alla fiction, al cinema, dove Monica individua un altro pericolo: l’identificazione con il testimone che è alla base del reality. Il pericolo di questo modo di raccontare la realtà è che si mettono in discussione le procedure specifiche, ciò che è specifico e caratteristico della storia come disciplina, cioè si vogliono eliminare gli intermediari, si pensa che perché non c’è nessuno fra il testimone e chi scrive storia tutto sia più semplice. Invece la specificità della storia deve rimanere come mediazione che costruisce ipotesi, domande e pone dubbi. È questa lo specifico della storia: non dare certezze come fanno le fiction e non esibire le sofferenze come certificazione di autenticità. È stata accertata la non oggettività della storia. È importante il punto di vista di chi scrive la storia. Ho notato però mentre leggevo riguardo all’accettazione del punto di vista che non appare il taglio, il punto di vista di una donna. Mi è sembrato un discorso neutro. Questa soggettività rimane senza corpo. Un altro punto importante, in questa panoramica dello stato attuale del mestiere di storica dagli anni ‘60 a oggi, è il discredito della storia a vantaggio della letteratura, come se la letteratura fosse più affidabile perché la storia è complice, compromessa con il potere. Quindi c’è stata la tendenza a un appiattimento sul presente. La storia, se fa notizia, imita la fiction per accattivarsi i lettori insieme alla tendenza al prosciugamento delle note, ai riferimenti bibliografici perché appesantiscono. La fiction però assume a questo punto, secondo l’autrice, un atteggiamento un po’ autoritario. La storia dentro un romanzo storico impone delle immagini del passato però senza le fonti, le ipotesi, i dubbi, l’atteggiamento critico che è necessario. Storiografia e letteratura si pongono con lo stesso scopo di rendere conto della realtà e c’è come una contesa tra storia e letteratura per la rappresentazione della realtà. La storia si pone come statuto forte contro le sirene del post moderno. Le sirene sono citate all’inizio, nell’introduzione, portando l’esempio di un documentario che in America ha suscitato tante domande perché era presentato come una storia vera, una verità che sosteneva che le sirene esistono. Era una fiction ma la gente l’aveva presa come realtà. C’è stata una confusione tra realtà e fiction. Nel libro ci sono anche tanti esempi positivi. L’autrice cita la storica Natalie Zemon Davis che ha analizzato un romanzo di Amin Maalouf, “Leone l’Africano”, in cui l’autore è partito da un personaggio esistente e ha usato tratti della biografia reale per adattarla a un suo sentire contemporaneo arricchito con particolari inventati. Davis ne dà una lettura diversa vedendolo in una prospettiva storica. L’autrice dice: “Questa finzione romanzesca apre spazi creativi inediti”. Non è tutto negativo. Ci sono romanzi storici che aprono nuove prospettive e domande e arricchiscono la ricerca storica. Il discorso della barriera l’avevo inteso in modo più definito, credevo che questa mescolanza dei confini delle discipline fosse più rigida come se Monica volesse ristabilire le barriere fra le discipline. Quando ci siamo parlate al telefono, le ho detto che oltre l’amore per i romanzi abbiamo in comune l’esperienza alla Biblioteca delle donne di Parma assieme a Lilli Rampello. Nel momento che abbiamo catalogato tutti i libri, si è posto il problema dell’impossibilità di catalogare quelli delle donne perché non stavano dentro le categorie stabilite: un libro poteva toccare tantissimi campi. La questione dei confini negli anni Ottanta era centrale. I libri delle donne scompaginavano i confini tra le discipline quindi creavano problema ma arricchivano. Un altro esempio di contaminazione tra storia e letteratura sono i lavori di Melania Mazzucco la quale ha sentito il desiderio di scrivere un romanzo sulla Tintoretta a partire da un’immagine che l’aveva colpita, l’immagine di una bambina nel quadro del Tintoretto. L’ossessione per questa bambina è stata la molla per il romanzo. Ma se l’avesse scritto inventando le informazioni che mancavano nella documentazione, avrebbe come fatto torto o ucciso un’altra volta la piccola Maria, la figlia di Tintoretto, pittrice anche lei ma di cui esistono pochi documenti. Mazzucco è passata quindi alla scrittura di un saggio di settecento pagine. La lunga attesa dell’angelo. Jacopo Tintoretto e i suoi figli. Storia di una famiglia galiziana e quindi questo dittico, romanzo e saggio, le è sembrato una buona soluzione. Vorrei porre alcune domande a Monica Martinat. Da piccola leggevo Angelica alla corte del re con altre mie amiche e il mio approccio alla storia è passato anche attraverso cose e figure inventate. Figure dove c’era un po’ di storia e tanto inventato per la divulgazione della storia che si ritiene necessaria. Il problema è come farla e perché lasciarla in mano ai non storici. Tu poni la questione della necessità della storia, chi fa storia deve prendere in mano il problema e non lasciarlo trattare da altri in maniera mercantile e citi anche di operazioni editoriali di frontiera degli ultimi anni ovvero della collana Einaudi con due libri su Chiara e Francesco D’Assisi e un altro testo sulla storia di una viaggiatrice. Queste due operazioni sono interessanti e cercano di mettere riferimenti alla storia ma è come un sentirsi inferiori come se la storia non fosse necessaria. Tu dici: “Affrontare la complessità della storia non è un difetto, ci deve essere, è una specificità della storia che non va aggirata con trucchi del mercato per far vendere di più e creare interesse intorno alla storia”. Vorrei sapere com’è nato il libro, la genesi, cosa ha prodotto la relazione con la tua collega Pascale, da quale urgenza è nato il tuo lavoro. Monica Martinat: Il libro nasce da una serie di casualità anche brutte: dal corso, dall’opportunità data dall’università di Lione di inventarci il mestiere. Non c’erano abbastanza ore da fare, noi ne dobbiamo fare un certo numero e ci sono toccati dei corsi destinati a studenti di tutte le discipline. Siccome mi piace leggere romanzi e fare storia, ho pensato di mettere insieme le due cose. Gli studenti mi hanno sollecitato a prendere questo corso più sul serio di come l’avevo immaginato, cosa paradossale nel mondo accademico francese. Il corso si è trasformato con l’arrivo di Pascale che si occupa di letteratura francese che è diventata un’amica e con la quale abbiamo deciso di lavorare insieme allargando dalla letteratura alla fiction. Nel frattempo succedeva qualcosa in Francia. Eravamo nel 2009: stavano uscendo molti romanzi a carattere storico, e la stampa sosteneva che tutti i romanzi facessero la storia. Ho discusso molti romanzi usciti in quell’epoca con studenti ricevendo impressioni che mi hanno lasciata perplessa. Gli studenti sostenevano che il romanziere aveva tutti i diritti di dire qualunque cosa, di usare la realtà storica, le persone come voleva e noi non potevamo opporci. C’era l’assenza totale di critica cioè di fronte alla libertà dello scrittore non si può dire niente. Questo mi ha molto turbata e penso che nel mondo di oggi uno dei problemi che ho cercato di trattare nel libro, è la confusione tra quello che è vero e quello che non lo è. Io sono a disagio. A me fa piacere sapere se si tratta di storia vera o di finzione. Vanno bene tutte e due, mi diverto di più a leggere romanzi che libri di storia, con poche eccezioni. Per me questo libro è stato importante. È stato il risultato di una discussione molto accesa con gli studenti, un tentativo di capire come una generazione molto diversa dalla mia percepisce il suo ruolo nel mondo e il modo in cui, di fatto, si può essere critici senza limitare la libertà di ciascuno e riservare a ognuno uno spazio che gli è proprio e nel quale può dare un contributo forse più significativo. Per me il rapporto tra storia e letteratura oggi è un po’ questo, di stabilire a chi compete cosa, in modo che ciascuno possa produrre qualcosa di utile per gli altri. Se gli storici si mettono a scrivere come romanzieri, se sopprimono tutta quella parte che, secondo me, è importante, quello di uno sguardo, certamente soggettivo su quello che stanno studiando che apre il dialogo invece che chiudere sullo sguardo unicamente personale, secondo me fanno un servizio agli altri. Se invece imitano la letteratura nascondendosi dietro la presunta libertà dell’autore di fare qualunque cosa e non mostrare le caratteristiche della costruzione, dell’interpretazione del lavoro storico, è meglio che non lo facciano e lo lascino ai romanzieri. Nello stesso tempo i romanzieri, quelli che scelgono di fare la storia, di occuparsi di cose storiche, modificando in parte ma non in tutto, fanno delle scelte di comodo, non inventano più, quindi tolgono a noi la possibilità di immaginare mondi diversi che noi non possiamo conoscere se non grazie al lavoro delle persone che lo fanno grazie alla loro immaginazione. La confusione dei generi, il finire per fare la stessa cosa con una forte complicità anche del mercato che vuole vendere di più, incontrare un pubblico pigro che non ha voglia di leggere le note, è un brutto segno che mette tutti a disagio e secondo me pregiudica anche forse la democrazia stessa, la possibilità di conoscere criticamente, di posizionarsi nel dialogo, nella discussione e nell’accettazione che chi legge o chi ascolta la parola degli storici sia un lettore capace di distinguere, di pensare le cose e posizionarsi in modo critico. Questo libro è scritto anche per questo, per capire qualcosa del mondo di oggi da una parte, e affrontare quello che secondo me è un po’ il problema della confusione costante dei piani in cui non si capisce chi parla e chi ascolta, non si vede dove sta lo spazio della realtà e della finzione. Dall’altra parte nasce da una fortissima nostalgia, mi sono divertita da matti a fare la storica. Quando lo facevo seriamente, quando ho scoperto che la storia poteva essere un dialogo con le persone di cui ci si occupava come oggetti storici, delle fonti, ma anche con chi leggera e discuteva, l’ho considerato un atto militante: si faceva storia per capire il mondo, per cercare di cambiarlo. Adesso non si fa più così, probabilmente molto per colpa degli storici, non c’è più spazio per questo. Secondo me o gli storici fanno delle operazioni commerciali che non hanno a che fare con la necessità di divulgare un sapere scientifico, che deve trovare una parola più semplice per dirsi ma che hanno a che fare con la volontà di acquisire fette di mercato più ampio o fanno storia straordinariamente tradizionale, dove i fatti stanno solo nella storia politica. Alla storia rimane la parte noiosa, forse si può fare anche altro però se si tengono le cose più separate, stabilendo che il mio sguardo di storica sulla realtà può essere discusso con chi ci legge, essere messo in gioco, costruito attraverso un lavoro non solo di elaborazione. Un lavoro sulle fonti ma che anche la scrittura di questo processo di ricerca del posizionamento individuale nei riguardi dell’oggetto storico è bene che diventi un elemento del racconto del modo in cui si costruisce un dialogo con chi ci legge. Tra le persone non accademiche ma molto importanti per la realizzazione del libro c’è anche a Lilli Rampello, (è stata lei a convincermi che del lavoro che si faceva all’università, forse valeva la pena non buttare via tutto ma tenere qualcosa e pensare a lavorarci su). Quello che ho cercato di fare è di proporre in modo non necessariamente provocatorio, un dialogo e un modo in cui si possa costruire una storia utile e anche divertente. Luciana Tavernini: Hai già in parte risposto a delle domande che avevo preparato, però la fiction mi interessa perché la pratica di molte femministe come me è di sentire il valore della trasformazione che hanno avuto nelle nostre vite le pratiche femministe e sentono urgente il bisogno di trasmetterle, ai giovani e alle donne e uomini che non hanno partecipato al femminismo, di comunicare le scoperte, che sono state importanti per noi. Ci sono stati diversi tentativi e penso ai preziosi libri dell’archivio della Fondazione Elvira Badaracco che sono arrivati a dieci volumi oltre la pubblicazione di una serie di documenti. Ci sono varie modalità perché non c’è una modalità unica di rappresentazione: ci può essere la relazione personale, la biografia, una serie di lezioni trasformate in lettura, penso anche al bellissimo libro di Milagros Rivera Garretas Donne in relazione, un libro senza note che è una riflessione personale sui problemi messi in luce dal femmnismo che però stimola a continuare la ricerca. Penso al lavoro che Marina Santini ed io stiamo facendo per trasmettere alle giovani le idee, le pratiche del femminismo. Il nostro è un libro che usa la fiction per la narrazione generale, che illustra alcune parole chiave e pratiche del femminismo insieme a fotografie, testimonianze e alle indicazioni bibliografiche non in nota. Perché questa scelta? Sicuramente ci sono alcune cose che hai detto tu, ma poi perché il femminismo nasce da una presa di coscienza e dal riconoscimento dell’importanza della relazione con l’altra. Noi in questa fiction abbiamo messo in scena questo fatto e abbiamo avvertito che invece su alcuni testi del femminismo c’è la perdita del corpo pensante per un’oggettivazione delle posizioni e ci sembra una perdita essenziale del femminismo. E poi, oggi, penso che le giovani e i giovani e anche noi siamo in grado di ampliare le nostre conoscenze anche grazie a internet, non solo trovando documenti scritti ma riferimenti che ci aiutano a stimolare la nostra ricerca e non solo documenti ma anche persone vive. Poi come hai detto tu, molti giovani si sono avvicinati alla storia partendo dalla fiction. Tutte queste motivazioni ci sembrano importanti, hai spiegato molto bene come scrittori, scrittrici si sono spinti a collocare narrazioni nel passato e perché il pubblico li preferisce. Io credo che il pubblico li preferisca anche per questi motivi, anche per il motivo che nella fiction la presenza delle donne è indispensabile e che invece in un libro di storia possono benissimo scomparire. Ti chiedo di fare delle riflessioni che sono anche diverse da queste su questo punto perché registi, scrittori si collocano nel passato. Monica Martinat: C’è un libro che è uscito in Francia qualche anno fa La mia fabbrica è un romanzo che è stato commissionato da operaie e operai di una fabbrica che stava chiudendo. Decidono di voler depositare la loro storia, tutta l’esperienza di vita sindacale che meritasse di essere conservata, hanno anche un sito web. Quando il sindacato e i collettivi della fabbrica hanno pensato come scrivere la storia e da chi farla scrivere hanno scelto un romaziere. Hanno scelto che fosse fiction. Quindi hanno creato una finzione a partire da questa storia. La mia è una risposta indiretta. Io penso che questi esperimenti siano interessanti perché depositano qualche cosa, ma perdono un po’ di vita perché rinunciano a raccontare e fare i conti con la vita reale delle persone che hanno lavorato lì, che hanno memoria, storia, posizioni e problemi per costruire un prodotto in cui la vita di ciascuno diventa un pezzetto, la vita di tanti è spezzettata per diventare la vita di un personaggio unico. Con questo sono molto a disagio. Chiedo sempre ai miei studenti, se in caso dovessero chiedere a qualcuno di scrivere la loro storia preferirebbero un romanziere o uno storico. Io preferirei uno storico che racconti delle cose di me anche brutte però vere, mi sentirei più riconosciuta mentre l’80 per cento degli studenti ha risposto un romanziere. Io capisco che il ricorso alla fiction possa essere uno strumento per avvicinarsi alla conoscenza, penso però che ci sia un grande rischio di appiattire le vite individuali che sono interessanti proprio perché sono individuali perché sono vere e in questa verità si trova anche la varietà, si trovano le minoranze ecc. Se noi mettiamo tutto insieme spezzando in piccoli frammenti perché si costruisce un personaggio che magari, in quanto modello, porta una serie di contenuti, disincarniamo la storia, quello che in realtà dovrebbe essere profondamente radicato nelle persone vere non nella costruzione di un modello di un personaggio. Io adoro la fiction, però alla storia mi sono avvicinata a partire dalla politica, per me è stata una continuazione in un periodo in cui la politica cominciava a dare segni di impotenza, pensavo che la storia fosse un modo di capire e ripartire da lì. Mi piacerebbe rimanere fedele a quest’idea che la storia sia un modo per capire meglio il mondo ma quello vero, reale che è fatto di persone vere. Lo spezzettare le storie vere per creare un personaggio è sicuramente efficace però cosa perdiamo? Quali aspetti stiamo perdendo della realtà e possibilità di misurare le differenze in una posizione di fortissima semplificazione? Laura Minguzzi: Alla fine del libro, quando dici “chiediamoci del senso della storia, del perché la storia è necessaria” mi era venuta in mente un’altra frase scritta in un testo di Muraro “tutto è storia ma la storia non è tutto”. Il punto dolente è: la storia ha perso d’importanza, di chi è la colpa? della politica? della storia? La debolezza della politica, dell’autorità di una politica che esprime forza, ricade su una debolezza della storia. Questa passione per la politica ha ispirato anche me. Dalla passione per la politica è nata la passione per la storia, per conoscere e trasformare a partire dalla mia storia soggettiva perché siamo uniche e la singolarità come dici tu è importantissima, è il bene più prezioso e va salvato nella storia. Luciana Tavernini: La lettura del tuo libro, fatta anche collettivamente, mi ha fatto vedere in modo diverso delle cose cui partecipavo. Ultimamente ho visto il film “Col fiato sospeso” di Costanza Quatriglio. Lei vuole raccontare una storia di mala università (quella di Catania) in cui sono fatti esperimenti in chimica e muoiono dei giovani. Lei usa una fiction e sostiene che i motivi per cui ha fatto il film erano due: uno è che c’è in corso un processo e, se vuoi fare una denuncia e creare un’opionione pubblica intorno a un problema, è necessario usare la fiction perché se è in atto un processo ci sono difficoltà oggettive a raccontarlo, l’altra cosa è che si avevano testimonianze, e molti studenti avevano testimoniato, però non avrebbero parlato pubblicamente perché erano di fronte a una situazione di potere dell’università. Inoltre c’è la tutela di persone: il padre di un ragazzo morto su cui non si aveva voglia di indagare. Si è scelta la fiction perché ci sono dei motivi fortemente etici che non sono di stravolgimento della realtà ma di rendere più forte la presa di quello che tu fai sulla realtà. Monica Martinat: Non vorrei dare la falsa impressione di essere dogmatica. Lo sono ma non da questo punto di vista. Va bene ci siano tutti i modi che ognuno di noi vuole trovare per raccontare se stessi, la realtà, il mondo, vanno benissimo, il mio problema è un problema da storica. Qual è la mia possibilità di dare uno sguardo sul mondo che sia pertinente al mestiere che ho scelto, che non sia confuso con quello di altre, che possa comporsi con altre in modo da creare un’immagine che sia più vera? Probabilmente tutto ciò nasce anche dal fatto che gli storici fanno male il loro mestiere, me compresa, credo però che nel contesto di oggi, in un constesto in cui ci sono una serie di segni … le sirene non esistono, magari un giorno scopriranno di sì ma adesso sappiamo che non ci sono, molte persone chiedono se ci sono. È un esempio sciocco ma indicativo, come le Torri Gemelle: un mio studente mi ha detto l’altro giorno che non era vero che hanno abbattuto le Torri Gemelle, è una finzione… Luciana Tavernini: Oppure dicono l’Olocausto non esiste. Monica Martinat: Esatto, senza toccare problemi storici molto delicati, sotto sotto c’è anche questo, c’è la nostra capacità di distinguere quello che è vero da quello che non lo è. Per il mondo che vediamo tutti, è un pochino più facile per il mondo passato è un problema vero, l’Olocausto c’è stato, poi possiamo fare anche delle fiction su questo, sospendo il giudizio, tuttavia dev’essere molto chiaro quello che è vero e quello che non lo è. Chi ha ragione e chi ha torto, su alcuni temi non siamo democratici, io non lo sono, non sono disposta a pensare che tutte le opinioni siccome non siamo certi di tutto, siano vere, alcune cose sono vere, altre false. Se io riesco a mantenere questa distinzione chiara, la fiction ha un suo spazio, ha un pubblico anche molto più vasto di quello della storia e può funzionare bene, però il problema è del contesto in cui tutti questi prodotti siano usati da noi, dagli studenti, dai giovani e questo mi spaventa come cittadina, come prospettiva futura. Distinguiamo, poi ciascuno metta la sua pietra. Luciana Tavernini: Un altro punto. Tu hai fatto un excursus sulle invenzioni che vari scrittori fanno perché da un lato sentono l’urgenza di costituire una memoria condivisa del passato, dall’altro vogliono aprire a nuove interpretazioni e si inventano modalità di scrittura diversa mettendo in gioco le motivazioni personali che li spingono a scrivere un romanzo su quei punti. Io riprenderei un caso di Melania Mazzucco sul romanzo della Tintoretta e il saggio storico su Jacopo Tintoretto: non approfondisci il fatto che ci sono problematiche relative alla costruzione della vita di una donna e non poni l’accento sull’interesse delle donne, che sono la maggioranza che leggono, di trovare una storia in cui le donne non siano assenti, che non siano viste come secondarie perché tu proponevi, nel tuo libro, un problema che è un personaggio secondario…non è solo un personaggio secondario è una donna e allora bisogna trovare nuove categorie storiografiche per interpretare e leggere la vita di una donna. Per questo buona parte di noi si sono rivolte ai romanzi. Per esempio Tracy Chevalier con L’ultima fuggitiva, in cui ci fa conoscere molte donne nella lotta allo schiavismo cosa che io non avevo mai visto, della rete di sostengo agli schiavi fuggitivi o prodigiose creature, il contributo femminile alla nascita della paleontologia. Come vediamo questo problema di fare una storia delle donne che non sia una copiatura o ci presenti soltanto come le povere donne che sono state oppresse perché, per esempio, noi non essendo oppresse, guardiamo in una maniera diversa. Monica Martinat: Penso che da un lato ci siano molte storiche e molti storici che si occupano di storie femminili, di storia di genere, che abbiamo ormai uno sguardo sul passsato che tiene conto non solo del fatto che le donne ci sono ma anche che lo sguardo, necessariamente attraverso le fonti, è deformato dall’assenza delle donne dai documenti, perché lasciano meno tracce degli uomini. Tuttavia dobbiamo fare i conti con il fatto che l’oggetto della storia non è solo un momento più o meno vicino a noi che noi guardiamo e riportiamo in vita, ma è il passare del tempo, il senso della distanza, il fatto che il nostro mondo non è come quello di cent’anni fa e che in questa differenza c’è anche l’assenza, l’invisibilità delle donne nelle fonti. L’operazione che fa Melania Mazzucco è molto interessante: prende un personaggio, la figlia del Tintoretto e non ha la documentazione perché il libro di storia che lei ha scritto di settecentonovantanove pagine di riferimenti è tutto il suo lavoro di documentazione. Da qui però, lei lo dice, la figlia di Tintoretto scompare come spariscono le altre, scompare perché le fonti non ti permettono di dirlo. Scrive allora un romanzo, però è un romanzo, anche se lei alla fine si interroga su che cosa è più vero: il suo romanzo o il libro di storia. Io continuo a pensare che sia più vero il suo libro di storia perché almeno fa i conti con l’assenza, con il fatto che nel ’600 quello che era registrato della vita femminile fosse proprio l’assenza. Non me lo posso dimenticare. Attraverso delle procedure che sono romanzesche, di fiction, tener conto di alcuni elementi possibili di quel passato, lasciare aperte possibilità, quindi nel libro di storia tessere un dialogo che sia fatto di ipotesi, di incertezze, che sia fatto del dire “lo so che qui devo immaginare una storia diversa da come è stata raccontata perché lo so che le donne lavorano”, anche se non ho delle tracce quindi riscrivere dei libri che permettano di parlare di quel tempo, per esempio il Seicento, attraverso la presa in conto proprio del fatto che la nostra immaginazione che è necessaria perché lavoriamo su dei frammenti, il modo in cui li mettiamo insieme, è cambiata, è cambiato il modo di immaginare le connessioni fra le cose, quindi nel nostro immaginario va tenuto conto del fatto che sappiamo delle cose delle storie femminili che contrastano con l’immagine tradizionale. Questo è il mio limite oltre cui non posso andare a meno di non cambiare mestiere, altrimenti faccio un’operazione che è diversa tutte e due, vanno bene entrambe, non ce n’è una migliore e una peggiore. Ancora per qualche tempo rimarrei sulla mia posizione, mantenere il fatto che sia forse quasi più interessante fare così, darsi un limite, fissare una cosa oltre alla quale noi sappiamo che non ci sono tracce del passato verificabili. Io lavoro con la mia immaginazione ma che è un’immaginazione controllata da questi elementi. Io mi trovo meglio così. Lilli Rampello: Quando lavoro sui romanzi (non scrivo romanzi ma lavoro sui romanzi) faccio un’operazione completamente diversa. C’è una gran differenza tra immaginare, sapere e inventare. Lo storico porta conoscenza attraverso le sue fonti, e poi, immagina quello che la fonte tace. Lo scrittore inventa e può inventare anche a partire dai dati della realtà storica ma altrimenti noi non teniamo distinto che il binomio immaginazione – sapere produce una certa forma di conoscenza mentre l’invenzione ne produce un’altra. Sono anche dell’idea che i grandi artisti e scrittori anticipano i loro tempi quindi leggendo loro, scopriamo la contemporaneità e il futuro che questa conteneva quindi sicuramente entrambi i movimenti sono movimenti di conoscenza ma profondamente diversi. Sul limite sono anch’io un pochino dogmatica nel senso che alcuni limiti vanno tenuti per sapere cosa sto leggendo, non per aprire o meno quello che leggiamo. Come succede a Monica a me succedeva la stessa cosa quando i miei studenti dicevano che la rivoluzione francese, a loro parere, era nel 1700 mentre io rispondevo, “non è a vostro parere”. Non capivo i miei studenti e questa confusione per cui Sherlock Holmes per loro è vero, è vissuto. Quando l’elemento di confusione è questo mi si attiva la severità, nel senso che le cose non posso essere sempre semplificate, c’è una complessità del reale che va indagata con degli strumenti molto diversi. Questa questione del sapere, immaginare, inventare sono percorsi diversi se noi non confondiamo noi stessi dicendo che sono la stessa cosa. Luisa Muraro: Ho letto il libro, bellissimo, è pieno di esempi, si vede che nasce nel dialogo. Hai detto queste cose che sono accettabili ma hai avuto un’obiezione che è: non si può ribadire una posizione. Monica dice: “Secondo me è meglio così, lasciare questo vuoto”. Si potrebbe anche proporre, suggerisco io, una retorica per rimarcare questo vuoto come quel pensatore che commentando il contratto matrimoniale si interrompe e inveisce “quale contratto? Sono mai state consultate le donne? Un contratto è un dibattito tra due. E le donne chi è che le ha consultate?” Inveisce sul silenzio femminile e sulla falsità del chiamare contratto il matrimonio. Siamo in Inghilterra. Per quanto riguarda l’obiezione di Luciana si tratta della ricerca storica femminista e ho pensato subito a Schlusser Fiorenza, che è una teologa storica delle origini del cristianesimo, e a quel grande libro del femminismo cristiano “In memoria di lei”. Lei dice che bisogna cambiare l’ermeneutica dei testi perché con l’ermeneutica vigente, non esce il ruolo, che si intravede grandissimo, delle donne nella nascita e nello sviluppo del cristianesimo. Questa è la risposta, non è che si può ribadire la bontà della cosa, bisogna scontrarsi con questo. Io sono abbastanza d’accordo con Monica, il problema, però si pone e la storiografia va avanti correttamente ponendosi il problema ovvero l’assenza delle donne…avete nominato Gianna Pomata che ha detto l’assenza delle donne dalla storia, è un falso storico. Che cosa voleva dire? Le donne c’erano, le donne hanno fatto, le tracce c’erano, hanno anche scritto ma nella trasmissione di generazione in generazione il falso storico è stato costruito cioè alla fine sono scomparse e la storiografia è andata avanti beata e contenta. Tra l’altro il lamento della personaggia dell’Abbazia di Northanger.…dice: perché non ci sono donne, non è che dice “solo perché la storia è noiosa”. Dice “È noiosa perché non ci sono donne”. Jane Austen aveva una protesta ben precisa. Il problema, dico a Lilli e anche a Monica, bisogna affrontarlo. Monica Martinat: Sono perfettamente d’accordo. Perché secondo me la fiction elude il problema. Il ricorso alla fiction…solo la forma dialogica di conflitto permette in qualche modo di spostare. Luciana Tavernini: Farei l’esempio delle docenti dell’università di Barcellona che fanno parte di Duoda e che dal 2003 hanno messo in piedi il progetto di Bibliotea Virtuale d’Investigation Duoda che è stata aperta con libero accesso dal 2011. Loro sottolineano un altro elemento che nel libro non c’è. Loro sostengono che “la femmilizzazione dell’università tanto aspettata non ha scalfito il linguaggio scientifico nato dalla potenza significante degli uomini, con la conseguenza che molta dell’esperienza originale femminile rimane nell’università senza rappresentazione”. Io penso che questo sia uno dei motivi di perdita di credibilità della storia. Quali cambiamenti pensi che la femminilizzazione dell’università renda necessari? E poi quattro storiche che curano questo progetto sottolineano che molte di noi donne non ci sentiamo per niente oppresse e discriminate grazie al femminismo e quindi cerchiamo un linguaggio per esprimere il nostro senso originale sessuato della libertà. La loro ricerca tiene insieme erudizione, scoperta di testi inediti. È molto più difficile trovare i testi inediti delle donne, loro lo raccontano in una parte che chiamano storia vivente in cui raccontano come vanno a scoprire questi testi e la fatica che fanno ad andare in certi archivi dove le donne sono scomparse, dove non vogliono essere date loro nuove interpretazioni creando delle modalità interpretative originali. Nel tuo lavoro di storica rientra questo tipo di progettualità? Monica Martinat: Potrei cavarmela dicendo che la Francia è diversa dall’Italia… un pochino è vero, la struttura dell’università francese, mi dispiace doverlo dire, non ha niente a che vedere con quella italiana. Luciana Tavernini: C’è la femminilizzazione. Monica Martinat: Sì ma il problema del confronto delle relazioni. Luciana Tavernini: Quali cambiamenti la femminilizzazione dell’università rende necessari? E poi nel tuo lavoro di storica rientra questa progettualità di cambiare le interpretazioni? Monica Martinatt: Parto dalla seconda domanda perché l’altra mi sembra molto relativa all’istituzione io non ho la risposta. Mi sembra che i problemi nell’università francese siano talmente grandi che mi piacerebbe solo sapere da che parte prenderli. Non mi sento oppressa, però sono in un meccanismo di potere sicuramente maschile: la mia università ha un rettore, uno storico, un mio collega, non particolarmente simpatico, che è riuscito a far dare le dimissioni a tre vice presidenti donne, ha un problema di questo genere. Sulla progettualità. Ci sono due aspetti. La difficoltà a rintracciare presenze femminili alle fonti. Io non posso andare oltre a quello che le fonti mi dicono. Quello è il mio limite pur sapendo che c’è altro, che le fonti non dicono tutto, che bisogna cercarne delle altre, che bisogna dare un’interpretazione capace di tener conto di quello che sappiamo per altre vie della realtà, quello è il mio limite. Se voglio concentrarmi sul lavoro delle donne, come ho cercato di fare alcuni anni fa, mi scontro con il fatto che quando prendo gli stati delle anime, i registri di matrimonio e di battesimo gli uomini sono registrati con le loro professioni le donne no. Per un lunghissimo periodo gli storici hanno detto che le donne non lavorano poi scoprono il lavoro delle donne. E come lo sappiamo? Lo sappiamo perché c’è un movimento interno e di ricerca, una domanda, un conflitto che si apre sull’interpretazione del mondo che dice “io penso che non sia vero, vado a cercare delle fonti che mi dicano che non è vero” devio, aggiro l’ostacolo andando a trovare delle altre fonti. Siccome trovo testimonianze del fatto che le donne lavorano, devo assumere, nella mia interpretazione del mondo, che quella cosa lì non significa che le donne non lavorano, significa che il lavoro delle donne non è il criterio secondo cui la società dell’epoca le riconosce. Non è un criterio di riconoscimento perché significa che le fonti sono prodotte perché si riconosca chi sono le persone, non ci sono documenti d’identità. Adesso c’è tutta una rivisitazione delle categorie che abbiamo utlizzato per capire il mondo che consiste nel fatto che vivendo in un mondo che fino qualche anno fa aveva qualche certezza, per esempio del lavoro di uomini e donne costante, per tutta la vita e ha fatto della definizione professionale un criterio stabile. Adesso siccome siamo tutti precari, cominciamo a dire che forse non è vero, forse anche nel 1600 cambiavano lavoro più spesso e quindi scatta un meccanismo per cui andiamo a vedere come stavano le cose. Oltre il documento e l’immaginazione prodotta e la ricerca di altri documenti io non posso andare. È un limite. Buono o cattivo? È secondo me un buon limite. La statua che non ha le braccia io non gliele voglio aggiungere mi piace immagianarle poi qualcuno gliele aggiunge e gli americani sono bravissimi a farlo, io preferisco senza braccia. Rosaria Guacci: Mi è molto interessato il discorso iniziale di Laura e qualche aggiunta di Monica sul perchè si ama, come fanno i giovani, di più la fiction che la storia con le sue modalità rigorose. Io ho avuto come professore d’università a Bologna (sono lauretata in filosofia con il corso di laurea in storia moderna) Carlo Ginzburg. Ha una tale varietà di scrittura che nessuno si preoccupava più se era fiction o storia…era bravo a scrivere. A me non importava nulla che ci fossero bibliografia, note, se uno è bravo a scrivere … È importantissima la questione delle donne scomparse. Alla fine non è fiction o storia, il dovere di uno scrittore è saper scrivere e secondo me anche il dovere di uno storico. Mi dispiace aver riportato l’esempio di un uomo ma per me è stato uno degli storici migliori che ho letto. Monica Martinat: Hai portato l’esempio di uno dei più bei libri di storia che sia stato scritto. È molto interessante l’operazione che fa Ginzburg. Lui ha delle qualità di scrittura, introduce con una capacità straordinaria degli elementi narrativi in un contesto dialogico, fondamentalmente argomentativo. Ci spiega come arriva a generalizzare da un caso di un mugnaio del ‘500 la cultura popolare dell’epoca. Questa è argomentazione per me, cioè è un modo di fare la storia che è tessere un dialogo consapevole, l’intelligenza che scommette sull’intelligenza di chi legge. Le note e la bibliografia sono accessorie, sono indizi del fatto che c’è stato un processo di ricostruzione. Ci tengo, continuano a essere indicatori significativi. L’operazione che fa Frontiere di Einaudi è interessante ma … le note quando ci sono, sono illeggibili. Va benissimo toglierle non vorrei essere troppo formale, quello che mi interessa è il dialogo. Non sono rigida sul fatto che voglio che le note siano messe. In alcuni casi servono in altri nessuno andrà mai a verificare…c’è una parte di montaggio che è inverificabile. La scrittura argomentativa è degli storici. Io vengo dall’altra corrente, quella della microstoria di Levi che è più quantitativa, più economica, però fondamentalmente quello che ho imparato da loro è che la storia è un dialogo che deve molto aver presente chi legge dal punto di vista dello sforzo per essere chiari senza rinunciare alla complessità che è strutturale della realta. Il mondo secondo me è complicato, tutte le semplificazioni ci rendono la vita più facile ma ci danno una visione distorta. Lo stile però corrisponde a una dinamica della ricerca degli interrogativi delle persone che mi pare fondamentale. Se Ginzburg si fosse sottratto e lo dice anche lui discutendo del suo libro, se avesse sottratto la storia della sua ricerca, i suoi tentennamenti rispetto alla realtà, non avrebbe scritto quel libro, un libro meraviglioso che non è letteratura. Rosaria Guacci: Come La signora del gioco di Luisa Muraro. Luisa Muraro: Dal discorso che ha fatto Luciana emerge un’ipotesi. Sono d’accordissimo Monica con la Sua battaglia teorica per impedire questa confusione tra fiction e storia. Parlo per potenziare questa battaglia che forse è più che una battaglia, ha anche dei risvolti politici come Lei diceva che potrebbe c’entrare anche con la cultura profonda di una società democratica ammesso che lo siamo ancora. Emerge questo: la fonte non sono i generi letterari e storici che han deciso di confondersi, la fonte è il mercato e il mercato premia certe operazioni e gli editori le premiano pure e le incoraggiano. Tra le fonti di questa cosa ci potrebbe essere l’acculturazione femminile, la crescente persenza di donne nella cultura generale, le donne tra l’altro sono anche delle ottime scienziate ma molte vanno verso il versante umanistico. Il fatto che le donne, come notava Jane Austen, non si ritrovano nella storia, preferiscono i mescolamenti perché lì si trovano. Il senso della realtà, del vero falso, è un senso che è anche legale nel profondo, non scritto nelle leggi ma che la legge la fa in profondità. Questa cosa che Lei difende potrebbe avere contro quelle che sono le esigenze delle donne acculturate le quali preferiscono che sia mescolato per ritrovarsi dove non ci sono. Questa è un’ipotesi che è emersa qui e vale la pena di pensarci. Marirì Martinengo: Quello che ho da dire è rimasto indietro rispetto al discorso di adesso, bisogna fare un passo indietro. Ho notato che Monica a un certo punto ha detto che mancano i documenti sulle donne del passato. Mi permetto di correggere: non è che mancano è che non sono presi in considerazione. Le poetesse provenzali sono esistite, hanno scritto, prodotto, manifestato il loro pensiero, ma fino a una ventina d’anni fa non esistevano. I grandi professori dell’università dicevano che erano un’invezione dei trovatori che avevano bisogno di interlocutrici e si erano trovati delle risposte alle loro poesie, il che non è vero. Ci sono questi documenti, certo è più difficile trovarli ma esistono e credo valga la pena di fare questa fatica. L’altra osservazione che avevo fatto riguarda il tuo libro perché questa prima che ho fatto è nata dal dialogo che abbiamo fatto adesso. Ho notato, specialmente nelle prime pagine, tu hai una grande preoccupazione perché ci sia fedelta alla realtà, al racconto della realtà, preoccupazione che la realtà sia restituita alla sua realtà. Secondo me questo non è possibilie perché appena tu la racconti la realtà non c’è più, si perde nel racconto, qualunque racconto travisa la realtà non è fedele alla realtà. Questa preoccupazione mi sembra un po’ superflua. Monica Martinat: Io credo che la realtà esista. Marirì Martinengo: Ma come la racconti? Monica Martinatt: Io ho cercato di scrivere questa preoccupazione nel contesto del rapporto tra produzione storica e produzione di fiction, questo è il terreno su cui possiamo misurarci nel senso che la fiction ha il diritto e secondo me anche il dovere di allontanarsi dalla realtà cioè è libera di farlo, non ha un contratto con me nel senso “ti racconto quello che è successo, cerco di raccontarti le cose come sono successe”, gli storici hanno un contratto diverso con chi legge e con se stessi cioè quello di fare in modo che l’immagine che restituiscono sia il più fedele possibile alla realtà stessa. È possibile? No, evidentemente, una foto non sarà mai la realtà tuttavia ci possiamo avvicinare. E poi faccio riferimento a Marc Bloch anche se mi dispiace sia di nuovo un uomo. Lui dice: possiamo modificarla un po’, la storia è la scienza degli uomini nel tempo, mettiamoci gli uomini e le donne, però resta nel tempo che è importante, cioè il nostro compito non è solo di ricostruire dei momenti come delle foto del passato più o meno lontano, ma di ricostruire lo spazio della differnza che ci permette di vedere il mondo com’era e di rapportarlo a noi sentendoci comunque distaccati senza fare confusione. Mi pare sia anche una delle invenzioni del rinascimento in cui si inventa la prospettiva che è una messa a distanza e si inventa la storia antica che è un momento distante da noi che si può guardare proprio perché è distante. Sicuramente esistono dei documenti prodotti dalle donne che permettono di fare la storia delle donne non su tutto. Ci sono spazi di non detto che hanno a che fare con le differenze tra la nostra società e quella di un’altra epoca. Con queste differenze devo fare i conti. Mi sembra che la fiction anche nella sua procedura di adattare (perché sia più comprensibile, più dicibile oggi) delle realtà del passato sta perdendo proprio questo, perde la differenza, se il mondo dev’esser tutto uguale dal 5000 a.c. a oggi non è assolutamente interessante studiarlo; la ragione per cui è interessante studiare la storia è che noi non siamo uguali. Come mantengo lo spazio della differenza e come trasmetto il fatto che il mondo di ieri non è lo stesso, che ci sono altri criteri, che ci sono dei vuoti che si possono spiegare, che non sono inspiegabili. Forse il mio compito rispetto a restituire un’esperienza femminile in un conterso in cui i documenti non mi permettono di ricostruirlo direttamente, è proprio di segnalare che c’è una differenza. Non serviva come criterio di riconoscimento delle donne e quindi di segnare la durata, lo spazio di un cambiamento fra il mondo di ieri e il mondo di oggi. Luisa Muraro: Capisco che per argomentare bisogna tagliare ma né la pittura né la scultura hanno mancato di rappresentare le donne. Questo è un dato innegabile, le donne sono state rappresentate. Quindi c’è qualcosa che appartiene allo sguardo dello storico di professione, che la tradizione storica scritta cancella le donne e quello lo dovete spiegare, vederlo come un mancamento e una ferita della tradizione storica e della storiografia perché gli artisti che erano solo uomini non hanno mancato di vedere le donne e farcele vedere sia nell’antica Grecia sia nel Rinascimento sia nel Medioevo e la borghesia che ha tentato di rinchiudere le donne nella casa delle bambole quando scrivevano un’opera e andavano a vederla senza le voci femminili e i personaggi femminili precipitavano. Ci sono dei problemi che lo storico deve porsi proprio riguardo alla sua professione, non basta dire che non trova documentazione. Monica Martinat: Non è questa la mia risposta. Io ho usato il testo di Gianna Pomata che ha a che fare con questa frontiera tra fiction e storia e dimostra che a un certo punto nell’Ottocento quando la storia diventa scientifica, scompaiono le donne e scompaiono una serie di generi che le erano legati. Se noi ricostruiamo le frontiere di una disciplina, le tagliamo in un certo modo, altri generi avrebbero fatto parte della storia e anche le donne avrebbero fatto parte di chi scrive la storia invece con la scientificità della storia, sono tagliate fuori. Sicuramente bisogna fare i conti con questo, sicuramente questo produce un’immagine deformata della realtà, bisogna lavorare su questo. La cosa interessante è: in quel momento si stabilisce il confine tra la storia e la fiction, nell’Ottocento, nel processo che descrive Gianna Pomata, succede che la storia diventa scientifica perché c’è il romanzo storico che le ha preso il posto: si scrivono romanzi storici letti prevalentemente da un pubblico femminile e anche maschile, quindi diventano importanti perché li leggono gli uomini. Questo è il processo che viene descritto. Non posso andare al di là. Se mi voglio occupare del lavoro delle donne, non ci sono documenti, ci sono indizi che vanno ricomposti, facciamo i conti con questo ma non posso andare al di là, non è un problema degli storici ma un problema delle condizioni di visibilità esistenti nel 1600. Marcella Campagnano: Che cosa vuol dire che la storia diventa scientifica? Monica Martinat: Vuol dire che, di fatto, diventa un genere codificato con alcune regole molto precise e che associata alla nascente sociologia che nasce come disciplina nella seconda metà dell’Ottocento, decide anche programmaticamente, con molte differenza interne, di scrivere in un certo modo e occuparsi di cose diverse rispetto a quello che faceva prima ovvero storia politica quindi molto narrativa in cui si raccontava la storia dei fatti che si succedevano. Diventa una storia che si occupa di molti altri temi, economia, sentimenti, di altre cose che sfuggivano a questo racconto lineare del passato. Attraverso l’attenzione all’economia della ricostruzione dei mondi del passato cambia anche il linguaggio; bisogna descrivere diversamente per cui progressivamente la storia diventa più come la sociologia, descrive più che raccontare. Marcella Campagnano: Sì ma anche la scienza è un’invenzione non è oggettiva per niente. Monica Martinat: Non è un problema di oggettività. Luisa Muraro: È molto interessante questo discredito della storiografia scientifica. In questo processo che Lei descrive c’è anche il discredito degli scienziati. Non ci si può fidare degli storici, sono asserviti al potere. Lei fa rivivere quella diffidenza crescente verso la parola “scienza” e l’aggettivo scientifico. Quando nasce la storiografia scientifica che suppone andare all’univeristà, studiare, poter pubblicare a un certo livello per un riconoscimento, le storiche amatoriali che c’erano, che Gianna Pomata evoca, devono togliersi di mezzo. Allora in questo senso sembra che la storia sia maschilista. Lo era tutta la società, però non è che adesso quando si dice scienza, intendiamo quella cosa che accettiamo, non quella che sta scritta in certi libri cui non diamo credito. Intendiamo: tu sei fotografa e sai cosa fotografare non è che chiunque dice sono fotografo, tu sai come fare, sei rigorosa quindi per noi sei scientifica, noi diamo un valore a quella parola lì che ha a che fare con la verità, non osiamo dire la parola “verità”. Mariri Martinengo: Vorrei la risposta alla mia osservazione. Silvia Motta: In riferimento al tempo, al ragionamento storico. Vorrei capirlo meglio perché il pensiero che mi è venuto è che anche la scansione del tempo da un punto di vista femminile non è uguale a quella maschile. Se io ricordo perché ho odiato la storia, faccio parte di quella categoria a cui non piaceva e fin dalla tenera età dicevo che la storia è storia di guerre e di conquiste allora quando dicevo questo, non capivo che non mi riconoscevo perché non c’erano dentro le donne. A posteriori l’ho capito così come non mi piacevano i film di guerra, ho capito perché, perchè non ci sono le donne. Sulla questione del tempo, la storia che ho studiato io, quella stupida la definisco così perché non c’è relazione con quello che sei venuta a raccontare, c’è dentro quella scansione del tempo però dal punto di vista femminile, se questa storia la raccontassero le donne, che scansione temporale ci sarebbe dentro? Per il momento mi vengono in mente solo le banalità che si dicono che il tempo è determinato dalla nascita, dall’azione ecc. Monica Martinat: Non lo so, non ho la risposta. Intervento: Io faccio ricerca in diritto e a me mancano gli storici. Lo storico, secondo me, è alla base di molte scienze sociali. Quando mi metto a studiare l’istituto giuridico del diritto nell’Unione Europea, che è il mio campo, ho bisogno anche di avere una visione storica, di contestualizzare, di sapere per esempio come è nata l’Unione Europa. È chiaro che posso andare alle fonti e ci vado, però avrei bisogno di un lavoro oggettivo, della funzione dello storico che si distacca dalle varie tensioni e che mi racconti qualcosa di più vicino all’oggettivo, che metta in luce tutti gli aspetti della realtà. Quello che noto nella storia contemporanea è un po’ questa figura: gli storici rifuggono il fare storia negli ulitmi anni proprio perché spesso è più comodo avere la fiction, qualcosa che però non aiuta chi, in altre discipline, deve fare questa analisi. Mi chiedevo se tu, Monica, nella tua esperienza del corso non hai questa sensazione ovvero che c’è una crisi degli storici nel loro ruolo nella storia contemporanea. Monica Martinat: Mi occupo del ‘600 per scelta, voglio sapere chi è l’assassino prima di iniziare a lavorare e sono un po’ lenta, ho bisogno di un po’ di distanza. Non capisco come si fa a lavorare con una materia così incandescente da gestire per un problema di distanza. Adesso sto facendo un corso sull’Italia contemporanea in italiano, sono arrivata al ’78. È la vita mia, mi rendo conto che racconto cosa facevo io quando hanno rapito Moro, ma cosa gliene frega agli studenti? Obettivamente quasi niente. Io faccio fatica con questo, credo che ci sia da parte di molti storici l’abdicazione alla fiction, ma non son tanto competente su cosa fanno gli storici contemporanei, su come si racconta il mondo di oggi, l’oggettività ce la siamo messa da parte da tanti anni. Io continuo a pensare che la verità esista, sia descrivibile in parte ma non fino in fondo. Un buono storico non rinuncia a dire “forse”. Gli utilizzatori di questa storia fanno fatica, penso che tu non trovi qualcosa che hai gia costruito, che puoi usare immediatamente, devi fare un’operazione che ti porta quasi all’esegesi dello scritto storico per capire come lo storico ha montato le cose. Mi viene in mente che forse questa è la difficoltà anche a leggerci, tutto sta circolando intorno a noi e alle nostre paturnie. Laura Minguzzi: Mi ha colpito quando dici che se tu racconti quello che hai vissuto negli anni ‘70 agli studenti non interessa, sei proprio sicura? Io ricordo che Milagros Rivera quando parlava ai suoi studenti, faceva seminari sulla sua esperienza nel periodo della dittatura di Franco, della sua famiglia coinvolta, questi erano molto interessati a capire i suoi nodi, problemi irrisolti che riguardavano lei stessa e la famiglia e il periodo. Quindi il coinvolgimento della storica e la ricerca della verità della storica a partire da sé è una chiave per creare interesse, che non sia fiction ma storia di singolarità, donne e uomini in carne ed ossa. Francesca Medioli: Tre cose. Anch’io ho studiato a Bologna con Ginzburg e penso che si consideri molto scientifico un accumulo di documenti che sono quelli con cui si fa la storia, perché la storia si fa con i documenti, se non ci sono è un problema. Ginzburg è leggibile, molto divertente, di solito gli storici sono noiosi. Quello che ha fatto lui è di mettere in rilievo la struttura come fa Loyd Right che lasciava in architettura fuori i tubi e l’ha fatto anche Serena Vitale nel Bottone di Puskin e questo è il modo di scrivere la storia nostra. Starei attenta a parlare di silenzio rispetto ad assenza non sono la stessa cosa. Io sono in questa stanza, ci sono, anche se sto zitta e questo è per le donne nella storia, sono pochi gli ambiti in cui non c’erano per esempio nel diritto (finchè non erano sedute in parlamento non facevano il diritto) però il fatto che stiano zitte non coincide con il fatto che manchino. Da questo punto di vista io mi domando se non sia la realtà che supera…perché non possiamo dire che tutti i romanzieri seguono la verità invece di porci il problema sulla scrittura, dal momento che tutti attingiamo alle stesse cose? Penso che i tuoi studenti siano molto interessati se tu dai il tuo vissuto personale e trovo sia un nuovo modo diverso di fare la storia. Intervento: All’inizio della discussione è stato citato Ginsburg, mi chiedo se non sia il problema di fondo il fatto che la storia vorrebbe spiegare le cause mentre in evidenza ci sono solo i tubi, ma pone i problemi e cerca di trovare spiegazioni del perché le cose diventano problematiche o si risolvono. Cioè al di là del problema dell’erudizione, che può essere enorme, c’è anche questo passaggio per la storia individuale che può essere di Menocchio. Le domande che gli storici si fanno, forse non sono ben evidenziate da quelli che poi tengono i corsi di storia, oppure le procedure per arrivare a delle spiegazioni non sono così evidenziate, cioè il procedimento indiziario per esempio suggerisce l’illusione che chiunque si mette lì a scovare indizi può trovare delle spiegazioni. Credo sia la cosa che tu vuoi evitare e credo sia la cosa che crea baratro fra fiction che racconta qualcosa che torna come nei gialli, mentre non esistono le donne e perché non erano documentate. L’interesse per la spiegazione, il discorso causale se c’è un decadere di questo anche. Corrado Levi: Per riprendere quello che diceva Luisa prima, ovvero che nell’arte sono sempre state presenti… Luisa Muraro: Rappresentate… Corrado Levi: Sono fondamentalmente sempre state presenti. Luisa Muraro: Io ho detto le donne sono state rappresentate. Corrado Levi: Il mio problema è che l’immagine di Abu Graib è più potente della descrizione a parole di quello che non sappiamo neanche cos’è stato. Voglio dire che pone problemi quell’imamgine, il fatto che ci sono alcune donne aguzzine ha una comunicazione enorme. Porrei il problema che ci sono immagini privilegiate che dicono tante cose. Seconda cosa, quando si dice, la Shoah esiste. Un momento. C’è la censura. Gli omosessuali non sono mai citati, ci sono ma non sono citati e ci sono rom e non si dice. In questo caso il fatto che non si sa neanche quanti omosessuali sono stati eliminati significa che c’è una rimozione della storia e dei personaggi, c’è una doppia rimozione e i pochi sopravvissuti non ne parlano. Oggi che ho letto tutti i libri su questo problema perché sono un militante del movimento omoessuale, dico non si sa il numero dei deportati per cui la verità…tu dici la verità c’è, ci sarà, ci sarà. Monica Martinat: Sulla questione del discorso causale io penso che uno dei problemi degli storici oggi, ma che non è solo degli storici penso sia un po’ di tutti, è che non riusciamo a farci neanche domande, c’è un’opacità del mondo che rende difficile fare delle domande e cercare delle risposte, non so se causali o meno, il problema è dagli anni Settanta in poi di non capire tanto bene dove stiamo. Adesso sta cambiando. Da una parte tutte le questioni riguardo alla presenza femminile nella storia hanno modificato lo sguardo e hanno prodotto anche delle spiegazioni diverse, d’altra parte tutte le questioni legate al lavoro, alla precarietà di oggi ci richiedono un movimento diverso. Le domande forse ci sono, io non ne vedo tante, i libri di storia sono un po’ noiosi. Le immagini più forti nel testo. Questo è sicuramente vero ed è anche molto problematico fare storia nel senso che noi facciamo storia con dei testi, forse si può pensare di farla anche in altro modo. C’è un articolo, uno studio di psicologi cognitivi, che hanno fatto una ricerca dando a dei gruppi di studenti alcuni film su un fatto storico e dei testi sullo stesso fatto, dei testi di storici che divergevano in parte dal racconto delle immagini. Era un film di fiction che racconta un episodio storico, poi hanno dato dei testi storici. Di cosa si sono resi conto? Hanno fatto tre gruppi: a un gruppo non dicono niente, al secondo dicono che ci sarà qualcosa di non tanto vero nel film, al terzo spiegano nel dettaglio che c’è qualcosa che è stato ricostruito nel film diverso dalla realtà. Una settimana dopo interrogano tutti i gruppi per vedere cosa si ricordano e per tutti e tre i gruppi la versione del film è la versione che è rimasta, con un grado di certezza da parte di chi risponde che è come nel film, dicono “ma sì sono sicuro di quello che sto dicendo”. Nel gruppo dove è stato spiegato che c’è la divergenza la percentuale è un poco più bassa ma è sempre maggioritaria. Sto pensando al film sulla strage di piazza Fontana. Penso bisogna stare particolarmente attenti sul fatto di proporre una tesi che è una tesi sbagliata che non è vera. Molti storici hanno detto “Benissimo perché i giovani non sanno e attribuiscono l’attentato alle brigate rosse”, ok, diciamo che non sono state le brigate rosse ma perché dobbiamo dir loro una balla? Perché rimarrà questo, non rimarrà la complessita di tutta la vicenda, quindi anche sull’uso dei film che io faccio in abbondanza per raccontare la storia. C’è un problema, c’è il problema della ricostruzione oltre i problemi più profondi di come si utilizza, si fa una sintesi dei processi storici, si bloccano in un momento. Sulla questione partire dal vissuto o no. Io sono un po’ protestante e faccio un po’ fatica a pensare che sono sufficientemente interessante per poter usare la mia storia da raccontare. È sicuramente utlile, non so come dirlo in modo diplomatico, faccio fatica. Laura Minguzzi: Non ti dai autorità abbastanza. Monica Martinat: Non è una questione di autorità è una questione, ancora una volta, di racconto. Posso usare esempi che sono miei, dei telefilm, di chiunque. Uso i miei figli, però c’è un momento in cui è proprio la spiegazione, quando c’è bisogno che gli studenti capiscano le connessioni, la complessità. Io gli posso raccontare dov’ero o gli posso far vedere il carosello, però il mio compito è quello di rendere le cose complesse in un modo semplice, non abdicare alla complessità. Il racconto di me è un abdicare alla complessità delle cose. Luisa Muraro: Perché? Marcella Campagnano: Se il tuo racconto solleva degli interrogativi allora interessa. Monica Martianat: Tutto quello che può servire va benissimo. Ho letto i vostri testi sulla Storia vivente in DWF con grande interesse perché secondo me c’è qualcosa che condivido profondamente, che è la questione della soggettività, dello sguardo e della molla che ti spinge a studiare una cosa invece che un’altra, andare a ricercare quello che diventa pertinente per sé, quello che diventa significativo per la propria esistenza e di metter la propria esietenza a servizio della comprensione del passato. Dove sono un po’ più in difficoltà è che c’è un mondo intorno che esiste anche a prescindere da, e che secondo me è utile tener presente, guardarlo in considerazione del modo in cui si guarda e su questo sono un po’, non direi in disaccordo che è una parola forte, ma sono in difficoltà. Laura Minguzzi: Riguardo all’amore per la storia, primo non è un qualcosa che fai da sola, non avrebbe senso. Sarebbe un peccare di soggettivismo pretendere da sola di raccontare tutto, di interessare i tuoi studenti, ma è un processo collettivo, di scambio, di relazione quindi è una storia che nasce in relazione con le altre, è una pratica collettiva che rende interessante e utile, per comprendere la realtà contemporanea, il tuo passato; ecco perché la prima domanda che ti ho posto riguardava la tua invenzione del corso. Dietro ogni invenzione c’è una necessità, un’urgenza. E quindi esplicitare questa urgenza di dire, di fare qualcosa che irrompe nella routine dei corsi tradizionali che stavi conducendo. Vuol dire rispondere a qualche cosa che ti preme dentro che fa parte della tua interiorità, il tuo intimo, il tuo privato e coinvolge molti altri. Io ho scritto questo pezzo sul negazionismo di mio fratello che negava la realtà dell’inquinamento nell’Adriatico di cui era anche lui responsabile poiché ha lavorato in una fabbrica chimica per trent’anni senza vedere la connessione sul fatto che non ci fossero più pesci in mare e lui incolpava agli altri. Questa cosa, questo mio martellare, chiedergli del passato, della sua storia, vedo che pian piano ha cominciato a ricordare qualcosa questa mia insistenza, interesse a parlare del passato a fargli ricordare dei nostri parenti o vicini di casa che lui aveva completamente cancellato, piano piano ho visto che c’è stato un cambiamento, ha prodotto dei cambiamenti. Io ho messo in atto una complessità a partire da me, non ho semplificato, sono andata a vedere la storia degli anni Sessanta dell’Italia a partire dalla mia microstoria, da un’urgenza mia di dire quello che era stato taciuto nella ricostruzione della storia degli anni sessanta, a partire da qualcosa che era taciuto e che io ho sentito l’esigenza di dire, c’è una complessità che emerge e fa nascere anche negli altri il desiderio di sapere, di capire, di ricordare. Monica Martinat: Forse per questo che io sono Seicentista. Luisa Muraro: Lei che è Secentista e italiana all’estero, com’è che nel suo librino non nomina mai i Promessi sposi di Alessandro Manzoni? Monica Martinat: Non l’ho dimenticato l’ho tagliato a un certo punto. Luisa Muraro: Questa è l’unica cosa che non le perdono, è una meravigliosa combinazione tra storia e fiction. Manzoni leggeva, studiava in biblioteca dei testi del ’600 e poi inventa questa storia e il rapporto tra ficion e storia quello che è inventare e creare, quello che è raccontare, per esempio la discesa dei Lanzichenecchi la racconta in una maniera sublime, e questa descrizione, altro che Ginzburg, abbiamo un mirabile brano di prosa storica. Lei lo vede un francese che sta in Italia, anche se non hanno un Manzoni e dimentica, trattando un argomento, l’autore più alto che hanno? Sia un po’ nazionalista anche Lei, Manzoni ha delle altezze vertiginose dal punto di vista di combinare storia e fiction e non cade nei difetti che Lei teme, si sottrae, quello le deve servire da esempio e da campione. Monica Martinat: Ma Manzoni pubblica i Promessi sposi nel ‘28 e prima di pubblicare la versione finale scrive un saggio sul romanzo storico in cui sostiene che non bisogna scrivere romanzi, bisogna scrivere storia. Luisa Muraro: Questa è una ragione per cui Manzoni non va citato? Monica Martinat: Avrei dovuto citarlo. Lo metterò nella versione francese.

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