8 Novembre 2023
il manifesto

Daiara Tukano, le storie delle stelle

di Manuela De Leonardis


Per Daiara Tukano (São Paulo 1982, vive e lavora a Brasilia), artista e attivista indigena brasiliana, l’arte è lo strumento per riconnettersi con il suo popolo ma anche per riallacciare un legame con il padre Álvaro Fernandes Sampaio Tukano, uno dei più importanti leader politici del movimento in difesa dei diritti dei popoli indigeni. Nella sede romana della Richard Saltoun Gallery (fino al 22 dicembre) – prima personale in Europa – Daiara Tukano, erede spirituale di Feliciano Lana (1937-2020) tra i principali artisti indigeni brasiliani, presenta una nuova serie di opere su carta, visionaria esplorazione della mitologia e della spiritualità della comunità Tukano e del suo profondo legame con la natura.

Dopo il master in Diritti umani all’Università di Brasilia, cosa l’ha spinta a agire nel campo dell’arte?

Il mio rapporto con l’arte comincia dal nome che ho ricevuto dalla mia famiglia Daiara Hori Figueroa Sampaio Duhigó. «Hori» nella lingua Tukano indica ciò che è più vicino al significato di arte, l’espressione visiva della spiritualità ma anche colore, profumo, luce e «Duhigó» vuol dire primogenita. Mia madre mi ha chiamata anche «Daiara» che, in un’altra lingua, vuol dire «la mia piccola amica». Ho avuto il grande privilegio di nascere nella nazione indigena. Mio padre Álvaro Tukano è un leader storico del Movimento indigeno brasiliano che si è battuto per l’approvazione dei loro diritti, riconosciuti per la prima volta solo nel 1998. È stato perseguitato dalla dittatura militare e accusato di essere un ribelle. Fino al ’79, la popolazione indigena veniva considerata incapace di intendere e come i bambini era sotto la tutela legale dello stato. Non eravamo considerati cittadini. Non avevamo il diritto di avere un passaporto e per poter uscire dal paese bisognava avere l’autorizzazione dello stato. Eravamo gli ultimi della società ad avere accesso ai diritti civili. Questa è stata la lotta principale di mio padre come capo indigeno. São Paulo, dove sono nata, è un centro molto importante dal punto di vista politico e il movimento per i diritti civili delle popolazioni indigene è avvenuto soprattutto nelle sue università. Lì mia madre e mio padre si sono incontrati.

Durante l’infanzia ha studiato all’estero, quando ha cominciato ad avere rapporti diretti con il popolo Tukano?

Non ho avuto l’opportunità di nascere nel villaggio indigeno di Balaio nell’Alto Rio Negro, al confine tra Brasile, Colombia e Venezuela ma lì ho imparato a camminare e nuotare. La comunità indigena Tukano è tra le più grandi del paese e anche tra le meglio preservate, ma si trova veramente molto lontano. Ho trascorso l’infanzia in Colombia, paese di madre. Anche lei è attivista per i diritti delle popolazioni indigene, ricercatrice, antropologa ed è stata una delle principali organizzatrici del sistema sanitario pubblico per le popolazioni indigene. Quando si è trasferita a Parigi, per il suo master, ho potuto vivere lì frequentando la scuola pubblica francese. Ho studiato la storia, la storia dell’arte, la filosofia. Amo l’antichità greca e romana, egiziana, cinese, giapponese e in generale la mitologia, soprattutto quella indigena. A 15 anni, quando sono tornata in Brasile, mi sono riconnessa con mio padre. È stato duro venire a conoscenza di tutte quelle violenze subite dalla mia gente (sono perpetrate ancora oggi). Ho cominciato anche ad apprezzare la bellezza della complessità narrativa delle origini, della lingua. Mio padre proviene da una famiglia che custodisce la sapienza tradizionale. Nonostante la persecuzione, siamo una delle nazioni indigene che è ancora molto legata alle tradizioni, come quella medica conosciuta come «ayahuasca» di cui si parla nelle leggende della creazione. Nella nostra «biografia» c’è stato un momento di rottura con le tradizioni che coincide con l’arrivo della chiesa cattolica nella regione dell’Alto Rio Negro. La strategia dell’integrazione è stata prevalentemente condotta con un accordo tra lo stato del Brasile e la chiesa cattolica, attraverso la congregazione salesiana che e ha aperto i suoi collegi per educare gli studenti indigeni. Prima avevamo le nostre case comunitarie dove si viveva insieme e si celebravano i nostri riti: sono state distrutte per costruire chiese. I salesiani hanno condannato e demonizzato ogni tradizione. Nei loro collegi hanno fatto studiare i bambini indigeni a partire dai 4, 5 anni. Molti di loro, strappati alle famiglie di origine, sono morti. Era vietato parlare la lingua madre e sono stati obbligati a usare il portoghese. Mio padre è stato uno di quei bambini, vittima e testimone di ogni genere di tortura. Malgrado ciò, ha ereditato la tradizione da mio nonno e dal bisnonno. Da quando mio nonno è morto a 110 anni, all’inizio della pandemia di Covid-19, è mio padre a incarnare la figura del saggio. Quando finalmente ho capito veramente l’importanza di tutto ciò, ho cercato di fare qualcosa per il mio popolo attraverso il potere dell’arte. Dipingere per rivisitare la storia non è soltanto un modo per farla conoscere alle persone non indigene, m’interessa come attraverso le mie opere ci si possa ricollegare con il passato e la narrativa delle origini. È un’azione politica di resilienza e continuità culturale. Il modo di porre quest’arte in un modo diverso, non più demonizzata ma come cultura dal valore condivisibile, che può essere collocata in uno spazio di dignità e autonomia, permette di collaborare alla ricostruzione della memoria della cultura indigena.

La relazione con la natura che è così importante per gli indigeni lo è anche nel suo lavoro?

Per gli indigeni è tutto. Non abbiamo il dominio sulla natura, ne siamo parte. Tutta la nostra conoscenza proviene dalla natura, dal dialogo tra i diversi elementi. I Tukano – letteralmente «gente del tempo o della terra» – chiama «gente» (mahsã) qualsiasi cosa: «wai mahsã» la gente delle acque, i pesci; «yunku mahsã» la gente della foresta, i boschi; «nohkoa mahsã» la gente delle stelle; «owe mahsã» la gente dell’aria; «uhtà mahsã» la gente della pietra, le rocce… Sono tutte persone con le loro sapienze, la loro storia, i sentimenti e possono parlare con noi e noi con loro, instaurando un dialogo.

Quindi per voi non c’è gerarchia tra l’essere umano e la natura…

La gerarchia è una visione dei bianchi. La relazione che abbiamo con la natura è proprio all’opposto di quella occidentale ed è ciò che cerco di condividere attraverso il mio lavoro. Una stella nella mente limitata degli occidentali può essere bellissima e poetica, noi invece proviamo a immaginarla mentre si riflette e canta per tutto il tempo nella luminosità dell’universo. Le stelle possono raccontare storie antichissime perché vivono molto a lungo.


(il manifesto, 8 novembre 2023)

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