28 Luglio 2020
Artribune

Di abusi e di disegni. Dialogo tra Francesca Pasini e Paola Gaggiotti

di Francesca Pasini


Quarta Vetrina è il programma d’arte contemporanea della Liberia delle donne di Milano, ideato da Corrado Levi, proseguito da Donatella Franchi e, dal 2015, da Francesca Pasini che ha raccolto 31 artiste, con le quali ha ideato per Libreria delle donne e Comune di Milano la mostra Vetrine di Libertà (Fabbrica del Vapore di Milano, 2019, catalogo Nottetempo).
I dialoghi durante gli opening sono stati videoregistrati e Cristina Rossi, con Chiara Mori e Alessandra Quaglia, ha realizzato un documentario che sarà presentato prossimamente.
La stagione 2020, inserita nel palinsesto I talenti delle Donne del Comune di Milano, doveva iniziare il 25 marzo con la Vetrina di Paola Gaggiotti, Le immagini che restano. Il Covid-19 l’ha bloccata. Che fare? La risposta in questo dialogo fra la curatrice e l’artista.

Abbiamo aspettato: quando è stato possibile uscire di casa, abbiamo scelto di usare il lato esterno della vetrina, così dal 25 giugno chi passa in via Pietro Calvi 29 vede l’opera. A settembre ci daremo appuntamento dentro, per vederla dall’altro lato e per parlarne insieme. Credo che sia stata proprio l’idea del dialogo a farti decidere di parlare di una cosa così difficile da dire. Dopo il primo incontro, mentre ti salutavo davanti all’edicola sotto casa, hai detto: “Voglio parlarti di una cosa che non ho detto a nessuno: da piccola ho subito violenza”. Mi sono zittita per qualche minuto. Poi sono riuscita a chiederti: dove? Quando? Mi hai detto poche cose, ci siamo salutate. Perché hai deciso di dire proprio a me quello che ti era successo?
Quando abbiamo iniziato a parlare di un mio intervento alla Quarta Vetrina mi hai suggerito di provare a osare. Mi sono così chiesta cosa non avevo ancora osato fino a quel momento. Interrompere un silenzio durato quarant’anni mi è sembrata l’azione più spregiudicata da compiere. Un gesto intimo e politico allo stesso tempo. Il fatto che a chiedermelo fossi tu, intellettuale e donna vicina alle donne, mi ha rassicurata sul non sentirmi sola nel farlo.

Ero rimasta colpita dal fatto che all’Istituto dei Tumori, dove lavoravi, l’arte è una Cura Palliativa, e mi ero detta: lo è sempre anche quando si sta bene. Mi piaceva la scommessa di toglierla dalla terapia e inserirla nella salute quotidiana di tutti e tutte. Ma ora, senza il dialogo, sei veramente “in vetrina” e le immagini restano di nuovo senza parole.
L’aver lavorato in un ospedale con pazienti oncologici adolescenti mi ha messo di fronte alla sfida di usare l’arte per esprimere “l’incidente” senza ricorrere a spiegazioni, ma con un gesto inventivo, un po’ poetico. Mi sono posta le stesse domande che rivolgevo a loro per aiutarli a pensare a progetti d’arte partecipata. Ho scelto di raccontare il mio incidente attraverso le immagini che mi sono rimaste in mente di quel giorno, sostanzialmente di quella strada. In un primo momento volevo ripercorrerla, fotografare gli scorci, poi l’ho guardata con Google street view e quella visione astratta e desolata si è adattata ai miei ricordi più della strada vera.
Mettere in vetrina alcune vedute, incorniciate e appese su una parete ricoperta di tappezzeria simile a quella della mia camera di bambina, mi ha fatto capire che interiormente mi ero “arredata” il trauma. La necessità di separare la visione esterna e interna della vetrina è diventata una chiave di lettura: da fuori il trauma si può solo intuire. Solo entrando lo posso raccontare.

Sembra una città, vuota, non ci sono persone, biciclette, carte per terra. Se so che sono le tracce di un trauma hanno un significato, ma se non lo so e le guardo da fuori, mi sembrano la solitudine anonima della provincia. La duplice visione tra dentro e fuori è però anche una visione dell’intimità tipica dell’arte. Perché vuoi raccontare la violenza in modo anonimo?
Sono sempre stata attratta da tutte quelle opere che suggeriscono e non svelano completamente. In quello spazio di incertezza lo spettatore può confondere e sovrapporre la sua storia con quella dell’autore. Faccio così in modo che il mio lavoro sia un collettore di emozioni dove tutti possono ritrovarsi. Se avessi esplicitato i fatti, la mia storia sarebbe diventata un caso o un esempio e io mi sarei ritrovata di nuovo ad essere la protagonista di qualcosa che non voglio rivivere, lasciando chi guarda al di fuori del dramma o, peggio ancora, dandogli la possibilità di avvicinarsi con compassione al lavoro.

A settembre, quando ci sarà il dialogo, i disegni ti aiuteranno riviverla senza sentirti sola?
Normalmente associo la solitudine alla quiete; i disegni saranno sicuramente un appiglio, è la mia personale iconografia della vulnerabilità. Guardarli mi fa sentire più fragile, ma, paradossalmente, io che disegno la mia fragilità sono più forte di chiunque necessiti dello strumento della sopraffazione per potersi affermare. E qui torniamo all’inizio del nostro incontro, quando tu, colpita da alcuni miei racconti sul tema dell’abuso, mi hai suggerito la Libreria come luogo dove per poterne parlare in sicurezza, con verità. A settembre, Francesca, lo faremo certamente.


(www.artribune.com, 28 luglio 2020)

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