9 Maggio 2016
Il Quotidiano del Sud

Dopo Lea il coraggio di Felicia

di Franca Fortunato

 

Dopo la fiction su Lea Garofalo arriva sugli schermi televisivi la storia di Felicia Bartolotta, madre di Giuseppe Impastato ucciso dalla mafia siciliana il 9 maggio 1978. Lea e Felicia, due donne di generazioni diverse, figlie del loro tempo, anche se in modo diverso, hanno spezzato la catena dell’omertà e della complicità delle donne nel mondo mafioso e immesso in esso l’imprevisto del desiderio femminile di non sottostare alle leggi degli uomini di mafia. Prima di Felicia c’era stata Franca Viola, un’altra siciliana, che nel 1966 ad Alcamo aveva rifiutato il “matrimonio riparatore” e mandato in galera il suo violentatore, appartenente ad una famiglia mafiosa.
Chi era Felicia Bartolotta Impastato? Lo racconta lei stessa in un’intervista del 1986 ad Anna Puglisi e Umberto Santino del Centro Peppino Impastato di Palermo. Felicia nasce a Cinisi il 24 maggio del 1915. Frequenta le scuole fino alla terza elementare. Il padre, impiegato comunale, e la madre, casalinga, non sono mafiosi. Quando nel 1947 sposa Luigi Impastato sa che lui e la sua famiglia sono mafiosi e che durante il fascismo lui era stato mandato al confino per tre mesi, ma non pensava a “mafiosi così orribili”. «Io allora non ne capivo niente di mafia, altrimenti non avrei fatto questo passo». «Ero ragazzina e andavo sentendo qualche cosa, e andavo capendo qualche cosa». «Io non capivo proprio che cosa significa questa mafia, questa delinquenza». Una volta sposata, subito «ci fu l’inferno». Il marito «attaccava lite per tutto e non si doveva mai sapere quello che faceva, dove andava» ma lei in modo deciso gli ripeteva: «Stai attento perché gente dentro non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre. Può essere chiunque, anche mio padre, non faccio entrare nessuno. E dentro la mia casa non veniva mai nessuno». Il vero inferno entra nella casa di Felicia quando Giuseppe, ancora studente alla scuola superiore, comincia a fare politica, diventa comunista e poi comincia a parlare contro la mafia. Felicia sarà sempre dalla sua parte, d’accordo con lui, e cercherà fino alla fine di proteggere quel figlio che non ne voleva sapere di non parlare e scrivere contro i mafiosi e la mafia. «Giuseppe, guarda, io sono pure contraria alla mafia. Non lo vedi che tuo padre è così, stai attento, figlio. Mio marito lo capiva che io ero d’accordo con mio figlio». «Giuseppe parlava di soverchierie, di ingiustizia. Io dicevo, hai ragione, figlio, ma è inutile che se ne parla». Poi Giuseppe durante un comizio disse: «Abbasso la cosca mafiosa». Da allora i mafiosi cominciarono a minacciare suo padre e questi la moglie. Nel 1978 Giuseppe si candidata alle elezioni nelle liste del Psiup. Felicia per paura non va ai suoi comizi. «Io lo chiamavo e gli dicevo, non parlare della mafia. Lasciali andare, questi disgraziati». «Lo so che mi devono ammazzare», le rispondeva Giuseppe. Felicia non riuscì ad impedire che il marito cacciasse il figlio di casa perché «parlava di mafia», ma continuò a sostenerlo e di nascosto lo faceva entrare in casa. «Prima mio marito non accettava che Peppino era comunista. Ma all’inizio lui non parlava contro la mafia. Poi ha accettato che era comunista. Poi ha cominciato a parlare di mafia e lui non lo tollerava. Diceva, fai il comunista, però non rompere l’anima con la mafia. In un primo tempo l’ha buttato fuori. Mio figlio veniva, gli preparavo il bagno, sempre di nascosto da lui. Si faceva il bagno, si metteva i vestiti e se ne andava. Veniva a mangiare da me, sempre di nascosto. Mangiava e se ne andava». Lei sa che i mafiosi lavoravano “pacifici” per ammazzarlo “perché suo padre” lo aveva buttato fuori. Il padre, poi, per alcuni mesi, se ne andò in America per “punire” la famiglia e “dare soddisfazione a Badalamenti”, mandate dell’assassinio di Peppino. «Qua dentro questa casa non ci posso stare, diceva, vergogna!». «Ma quale vergogna? I tuoi figli non è che hanno rubato, non è che hanno ammazzato, non è che hanno fimmini tinti (donne cattive). Perciò quale vergogna hai? Non ci disse dove andava, lo sapevano i mafiosi e suo fratello». Tornò richiamato dai mafiosi e dopo pochi mesi morì, era il 19 settembre 1977. Peppino rientrò in casa e continuò la sua attività politica fino al suo assassinio. Dopo la sua morte, mentre il fratello Giovanni raccolse il suo testimone, iniziando a fare comizi, Felicia ruppe ogni rapporto con i parenti del marito. Non pensò alla vendetta come i mafiosi “si aspettavano”, ma per proteggere l’altro figlio, Giovanni, decise di parlare lei ai magistrati. «Tu non devi parlare. Fai parlare me, perché io sono anziana, la madre, e insomma non mi possono fare come possono fare a te». Accusò Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi, dell’omicidio del figlio. Si chiuse in casa e si rifiutò di uscire, mentre il paese la isolò. Al processo, dopo aver tentato di fare passare Giuseppe come un terrorista, venne riconosciuta la matrice mafiosa di quell’assassinio, ma nessuno venne condannato, per mancanza di prove. «Vogliono le prove, e queste prove chi glieli dà. Solo mio figlio poteva sapere chi fu che l’ammazzò». Felicia non partecipò mai alle manifestazione in ricordo del figlio, ma non cessò di chiedere giustizia e di battersi per essa. «Vorrei essere più giovane, che io partirei, andrei ai comizi, andrei a Palermo per le manifestazioni, sarei la prima». Ai giovani ha sempre detto: «Continuate». Un monito che le donne, venute dopo lei, vissute in un tempo diverso dal suo, hanno colto e portato avanti a modo loro, per sé e per le proprie figlie e figli, fino a perdere la propria vita.
Felicia Bartolotta Impastato è morta il 7 dicembre 2004 all’età di 88 anni, dopo aver fatto condannare all’ergastolo, nel 2002, l’assassino del figlio. A me e a tutte quelle che hanno a cuore la libertà femminile non resta che dirle GRAZIE, in attesa di vedere su Rai 1 la fiction televisiva a lei dedicata.


(Il Qutotidiano del Sud, 9 maggio 2016)

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