2 Gennaio 2022
il manifesto

Lo spazio vivente delle architette

di Giulia Menzietti


«A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo, la strada percorsa dalle donne nel campo dell’architettura per raggiungere una giusta emancipazione e riconoscibilità in un universo di fatto maschile non solo è stata lunga, ma anche segnata da momenti storici e professionali diversi. Le prime progettiste lavorarono per far sentire la presenza di una voce femminile nel settore, dal secondo dopoguerra si sono sempre più potentemente imposte come leader. Non più voci isolate ma componenti significative della professione». 
A Maristella Casciato, cui si deve la consulenza scientifica delle ricerche per la mostra apertasi al Maxxi Good News. Donne in architettura (fino al 24 aprile 2022), così come una delle voci della sezione «Narrazioni», non sono mai piaciuti gli elenchi («anche se a volte sono utili come matrice di un ordine») e tantomeno le classifiche. Storica dell’architettura, attualmente Senior curator, Head of architecture special collections al Getty Research Institute a Los Angeles. Docente universitaria, in Italia e all’estero, curatrice di mostre come Bauhaus Beginnings (2019) al Getty Research Institute e Gio Ponti. Amare l’architettura al Maxxi (2019), e autrice dei libri Casablanca Chandigarh. Reports on Modernization (con Tom Avermaete, 2013), The Metropolis in Latin America, 1830-1930 (con Idurre Alonso, 2021), Rethinking Global Modernism. Architectural Historiography and the Postcolonial (con Vikram Prakash e Daniel Coslett, 2021), Casciato ha condiviso con il manifesto alcune riflessioni sui temi affrontati nell’itinerario espositivo.

Tra le architette che hanno cercato di affermarsi nel campo della professione, quali sono le sue preferite? 
Tutte le architette «ospitate» in questa mostra hanno, nel corso di un secolo e mezzo, reso possibile questa rivoluzione. Non saprei quindi indicare quali siano le mie preferite, anche se con alcune avverto una maggiore affinità. Non sono una progettista, il che mi fa sentire più vicina a quelle che hanno lavorato per creare occasioni fertili affinché la voce delle altre si potesse sentire; hanno curato esposizioni, prodotto manifesti, elaborato un pensiero teorico attraverso riviste e pubblicazioni, sono state docenti che hanno sempre difeso un percorso pedagogico in cui le più giovani avessero la libertà di parlare e, ancor più importante, fossero ascoltate. A loro mi sento più vicina.

La rassegna racconta la progressiva trasformazione dello status dell’architetto, che dalla figura del singolo maestro sembra migrare sempre più verso formule di studi a coppie, o collettivi etc… Pensa che questo processo abbia a che fare col fenomeno più globale della gender equality? O che risponda alla progressiva apertura, nel campo del progetto, verso altri territori d’indagine e alla necessità di lavorare in team con contributi multidisciplinari? 
Non credo che la pratica professionale, di coppia o collettiva, sia figlia di un superamento del gender gap. Anzi, nel caso delle coppie di progettisti in cui sono presenti i due generi, la vera battaglia è stata quella che le donne hanno combattuto per difendere il loro privato rispetto all’aggressività del mondo del lavoro in generale. Spesso la biografia di coppia è stata più felice di quella per un uguale riconoscimento del valore di ciascuno da parte degli agenti esterni. Si veda la polemica protesta di Denise Scott Brown nei confronti della commissione del Pritzker Prize quando il premio fu assegnato al solo Robert Venturi. Concordo nel leggere la professione come un processo sempre più poliedrico, pluridisciplinare ma non solo, integrato nel ricercare la multietnicità, sfaccettato per quanto concerne le competenze, certamente sempre più competitive. Anche in conseguenza della pandemia, quella dell’architettura è, fra tutte le professioni, la più porosa, la più coraggiosa nell’accettare le diversità, la più visionaria… Infine, la più bella.

Alla luce della sua esperienza di storica, trova sia possibile identificare un’attitudine specifica delle donne verso l’architettura, un atteggiamento progettuale verso il disegno dello spazio che emerge nel lavoro delle progettiste più che in quello dei loro colleghi? 
Le donne sono fra loro diverse, come lo sono gli uomini. Ed entrambi i sessi sono fra loro incomparabili. Dipende dalle condizioni (politiche/culturali) in cui si lavora, dal momento storico, dalla committenza, dal mercato, per citare solo alcune delle sovrastrutture con le quali ogni professionista si trova a operare; dagli interessi di ciascuna verso il progetto di architettura piuttosto che per il design, verso il paesaggio piuttosto che per la pianificazione urbana, verso la piccola scala artigianale piuttosto che per la macrostruttura, verso le infrastrutture piuttosto che per i sistemi tecnologici complessi. Le donne hanno dimostrato una grande duttilità nel muoversi attraverso questi universi spaziali, flessibilità e intuito, pazienza e coscienza del proprio essere femminile, autocritica e autoironia. È chiaro che la diversità di genere non è un’invenzione della contemporaneità. Ne siamo diventate più consapevoli e fiere.

Il campo dell’architettura, della professione e del cantiere sono sempre stati territori prevalentemente appartenenti al mondo maschile. Anche l’ambito teorico, legato alla ricerca e alla critica è stato quasi sempre rappresentato da autori maschili; addirittura è forse più facile farsi venire in mente nomi di note progettiste, piuttosto che di autrici, ricercatrici o storiche dell’architettura. Quali sono, secondo lei, le principali ragioni di questo fenomeno? 
Sicuramente, una disparità di occasioni, sia nell’ambito professionale, che in quello accademico. Ma ciò che mi sembra importante sottolineare è che questa tendenza si sta ribaltando. I contributi delle donne al pensiero storico-critico in architettura sono molto aumentati nell’ultimo trentennio. Nella gran parte dei casi si tratta di un lavoro che è più capillare, che esamina i dettagli, che opera sui microcosmi senza pretendere di creare teorie globali. È una storia che si interroga, che introduce il dubbio come apparato investigativo, che si confronta anche con altre discipline, allargando il campo a contenuti nuovi e a un racconto pieno di sorprese.


(il manifesto, 2 gennaio 2022)

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