2 Settembre 2022
il manifesto

No Master Territories, a Berlino

di Carola Spadoni


La mostra No Master Territories, di cui a suo tempo avevamo dato notizia nella rubrica Altri luoghi, altri eventi, si è chiusa a Berlino il 28 agosto 2022. Anche se dopo la chiusura, riteniamo importante pubblicare questo interessante servizio e la preziosa intervista con le curatrici.

(La redazione del sito)


La Haus der Kulturen der Welt di Berlino ha ospitato fino al 28 agosto «No Master Territories», uno sfavillante giardino di immagini in movimento che proiettano infinite essenze di donne e del femminile. Guardando la mostra da qualsiasi angolo si ha la sensazione di essere in un caleidoscopio. Territori senza padrone. Un auspicio da estendere ovunque e per chiunque, preso in prestito dalla filmmaker e teorica vietnamita Trinh T. Min Ha. Sa di utopia delle pratiche e delle lucide follie di decenni in cui si disfaceva e rifaceva il mondo in collettività e nel segno internazionale della solidarietà. Come sottolinea Min Ha nel suo libro When the Moon Waxes Red, «Lei che sa di non poter parlare degli altri se non parla di sé stessa, lei che sa di non potersi occupare della Storia senza occuparsi della sua storia, sa anche che non può fare un gesto senza attivare quel movimento da e per la vita». L’altra inappropriata (the «Inappropriate Other») che rifiuta il pensiero binario, le dicotomie e attraversa le soglie di ciò che è concesso e non. Proprio come l’immagine principale della mostra, un fotogramma del film Untitled 77-A di Han Ok-he del 1977 in cui la filmmaker coreana taglia pezzi di pellicola con le forbici in un crescendo performativo nel quale delle immagini si accostano continuamente alle precedenti nel creare nuovi mondi. Ci son voluti due anni e mezzo di ricerca delle curatrici Erika Balsom e Hila Peleg insieme ad un team internazionale, degno di un film festival blockbuster, per scandagliare, raccogliere e selezionare, da mezzo mondo, film non fiction fatti da donne. L’importanza di questa mostra per la storia del femminismo e dei media è evidente tanto quanto per la storia del cinema indipendente; storicizza un periodo in cui i mezzi e le modalità distributive e di circolazione dei film si moltiplicarono oltre le sale e i cineclub inondando contro culture, soggiorni, cortili e centri di attivismo e militanza. Anni in cui i mezzi di produzione si alleggeriscono e le possibilità di filmare la quotidianità e le forme di opposizione e resistenza della miriade di movimenti diventano alla portata di molte. Sono anni in cui il personale diventa politico, in cui l’imprevisto, dai più conformisti, soggetto storico femminile irrompe ovunque, in fabbrica e quartiere, cucina e camera da letto. La potenza che sposta, a volte scardina, i padroni fuori dai territori per mettersi di nuovo al mondo, crea inedite alleanze e linguaggi, la resistenza e il rifiuto dello status quo travolge forme e contenuti. Sia la mostra che il catalogo sono concepiti nel rendere evidente l’importanza di questi lavori e di queste geneaologie per i nostri giorni. Le curatrici dichiarano di aver voluto delineare vari percorsi nella produzione delle immagini in movimento per mettere al centro una critica alla separazione in generi cinematografici della non fiction. Nella categoria non fiction troviamo inclusi il cinema sperimentale, quello educativo, il documentario, la videoarte, i cinegiornali, film prodotti per la televisione come il caso di Processo per stupro del 1979, presente in mostra.

La maggior parte delle filmmakers e artiste in mostra esercitavano altre attività e a volte erano meglio conosciute come editrici, giornaliste, insegnanti, antropologhe, coreografe. Le indicazioni sulle storie ed attività delle filmmakers si possono seguire nella documentazione sul retro delle postazioni di ogni film o video esibito. Attraverso le documentazioni capiamo come spesso i rapporti di lavoro, collaborazione e amicizia creavano reciproche influenze artistiche che generavano nuove produzioni ed alleanze nel segno della solidarietà. All’entrata della mostra il banner di Cauleen Smith Comfort the Afflicted del 2018 ne dichiara le intenzioni: «affliggere i privilegiati, confortare gli afflitti». Le curatrici sono esplicite nel rendere evidente il lavoro femminista sulla memoria e sulle geneaologie come nel caso della rinomata scrittrice Alice Walker che in seguito alla ricerca della tomba di Zora Neale Hurston in Florida, al tempo abbandonata e senza nome, pubblica un articolo nella leggendaria rivista Ms. nel 1975 che genera un rinnovato interesse per la scrittura della antropologa, filmmaker e scrittrice afroamericana. Neale Hurston a seguito di studi etnografici gira dei film del suo lavoro sul campo, field works, di cui un girato in 16 mm nel 1928 in Florida è in mostra. Pour mémoire girato al funerale di Simone de Beauvoir del 1987 da Delphine Seyrig, cineasta, attrice e anche una delle fondatrici del Centre Simone de Beauvoir, è un omaggio doppio a tutte le presenze accorse a salutare la grande scrittrice, attraverso loro la celebriamo e la ricordiamo.

Il cinegiornale Congrès international des femmes à Moscou, girato da Esfir Shub, che lavorava soprattutto come montatrice e che produsse nel 1946 per l’Incontro internazionale delle donne per la pace e contro il fascismo a Mosca, racconta la grande partecipazione delle delegate. Il congresso fu ospitato quell’anno a Mosca perché critico sull’invasione coloniale in Algeria, quindi ostacolato in Francia. Si riflette sulla rappresentazione del cinema stesso nei lavori di Sara Gómez e Barbara Hammer, vediamo gli effetti che i film hanno sul loro pubblico. Il primo, Mi aporte, girato dalla cineasta afrocubana per l’anniversario dei dieci anni della rivoluzione e completato nel 1972, su commissione della Federación de Mujeres Cubanas responsabile per l’avanzamento delle donne nel processo rivoluzionario, viene poi censurato e tolto dalla circolazione. Riemerso di recente e restaurato, mostra le discrepanze tra l’atteso cambiamento per i diritti delle donne e la realtà contingente, incluso un dibattito del pubblico in maggioranza femminile che ne discute la rappresentazione e rende espliciti i problemi di disuguaglianza. Nel film della Hammer, Audience del 1983, vediamo interviste al pubblico prima e dopo tre proiezioni della stessa regista. I contesti sono quelli del cinema lesbico militante femminista in cui si dibatte di desiderio tra donne, rappresentazione di sesso esplicito, e dell’idea di proiezioni solo per donne. Un altro itinerario della mostra è dato con l’esplicita critica ai media e alla rappresentazione dominante del femminile. Molti film e video, spesso con tagliente ironia e umorismo, spostano la tipica descrizione della donna da oggetto a soggetto che incarna visioni non conformiste. We aim to Please di Margot Nash e Robin Laurie del 1976 è un divertente assalto agli stereotipi femminili del trucco, della giusta posa, del canone commerciale di bellezza. Paper Tiger TV, uno storico gruppo di media busters newyorkesi, nel video del 1993 Sisterhood TM fa già il verso al femminismo neoliberal delle donne-in-carriera-a-qualsiasi-costo usando lo schema visivo della pubblicità. Prowling by Night in 16mm del 1990, è un’ilare animazione sulla prostituzione e le sue disavventure a Toronto; gli incontri con il poliziotto di quartiere che regolarmente esige prestazioni gratuite, gli appuntamenti dal ginecologo, la clientela regolare e quella del fine settimana. Il film è composto con disegni realizzati dalle prostitute stesse e l’audio dei loro discorsi. Uno dei temi principali, la legalizzazione della prostituzione. Nella documentazione sul retro della postazione la fanzine Stiletto riporta articoli sul film, accenni all’autrice il cui nome è Gwendolyn, al gruppo di ricerca femminista Studio D sostenuto da fondi del governo canadese, le date di proiezione in un circuito di cooperative sociali e centri di comunità sociale.

Lungo una parete sono in mostra la serie di foto di Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream del 1980-81, in cui la fotografa ritrae momenti topici della vita quotidiana femminile a New Delhi ricreando insieme a delle attiviste femministe un ‘teatro di sé stesse’ come soggetto e presenza critica. I tanti percorsi continuano con il primo film di Tracy Moffat Nice Coloured Girls del 1987, con ritratti e autoritratti disseminati in tutta la mostra, Christiane Diop e Assia Djebar del 1985-87 di Sarah Maldoror, Soft Fiction di Chick Strand del 1979, Paola di Rony Daopoulo e Annabella Miscuglio, girati in Super 8 tra il 1973 e il ’76, Essere donne di Cecilia Mangini del 1965. Il femminismo italiano degli anni ’70 è presente e ben raccontato nel catalogo dall’affilata penna della storica dell’arte e femminista Giovanna Zapperi. In apertura del catalogo che funge non solo da compendio ma espande il progetto espositivo, un verso di Adrienne Rich ne restituisce la complessità, «We who are not the same. We who are many and do not want to be the same» (Noi che non siamo le stesse, noi che siamo molteplici e non vogliamo essere le stesse).

Intervista alle curatrici

Abbiamo chiesto a Erika Balsom e Hila Peleg, curatrici della mostra «No Master Territories», qualcosa di più sulla coralità dell’evento anche in rapporto alle politiche identitarie contemporanee.

«La mostra – ci dice Erika Balson – nasce dall’esigenza di rivedere la mancata storicizzazione di tante esperienze avvenute nell’ambito femminista delle immagini in movimento e di donne artiste e filmmaker che hanno operato fuori dai canoni precostituiti. Con gli occhi di oggi tornare alle generazioni delle madri e delle nonne per raccogliere le origini e segnare genealogie dei temi scottanti. Nasce anche dall’idea di un femminismo che rifiuta la dominazione in tutte le sue forme, che si occupa non solo di genere ma dei diritti dell’ambiente, della difesa delle risorse naturali, dei diritti sociali civili, delle oppressioni coloniali e dello sfruttamento delle risorse umane. L’idea era fin dall’inizio di realizzare la mostra con una metodologia che rispecchiasse queste intenzioni. Non c’è quindi una narrazione lineare e dominante che rispecchia il pensiero di noi curatrici ma vari percorsi che il pubblico può scegliere a seconda dei propri interessi specifici. C’è anche un programma di film da vedere nell’auditorium e una biblioteca in cui sono raccolti i libri da cui abbiamo scelto alcuni dei testi pubblicati in catalogo. Un’ispirazione per mantenere le coordinate di un’idea centrifuga della storia e della cronologia e tradurla in un pensiero espositivo è stato il testo di Lis Rhodes Whose History? (La Storia di chi?) del 1979. Un’altra chiave da cui abbiamo voluto prendere le distanze è l’idea dell’autore/autrice che abbia uno stile riconoscibile, che abbia prodotto un consistente numero di film per essere riconosciuta tale, e che lavori a tempo pieno come regista. Questo non è il caso per la maggior parte delle filmmakers e artiste incluse in questa mostra che spesso avevano altri lavori ed erano conosciute per altri ruoli professionali.

A questo proposito avete menzionato nella presentazione le filmmakers della Germania dell’Est che potevano lavorare anche nella non fiction con formati come il 35 mm, l’accessibilità ai mezzi e le loro condizioni di produzione erano spesso migliori che in molti paesi dell’occidente.

Erika Balsom: Nel mondo socialista la dichiarazione di uguaglianza tra i sessi era ufficiale, faceva parte dei programmi di partito e di stato, di conseguenza le esperienze femministe sono state molto diverse rispetto all’ovest. Abbiamo scelto film dalla Germania dell’est, dalla Polonia, da Cuba, una deliziosa animazione russa sulla giornata internazionale della donna, l’8 marzo. Questo è un ulteriore percorso all’interno della mostra.

Come considerate il supporto teorico ed espositivo del mondo accademico quando si occupa del femminismo intersezionale e di temi come la decolonizzazione e la restituzione pur mantenendo modalità a senso unico, non dialogiche e sostanzialmente gerarchiche?

Erika Balsom: Io vengo dall’accademia, quindi mi è molto familiare il tuo discorso. Molte di noi hanno sofferto nelle maglie iperproduttive dell’accademia di questi ultimi anni dove la pressione per una professionalità performativa è costante. Pubblicare con regolarità, congegnare corsi che siano di successo, che abbiano un alto numero di iscritti, presenza sui social media, fare costante promozione di se stesse, e competere per risorse sempre più scarse. Tutte dinamiche tipiche del mondo neoliberale. Di fatto nella mostra un filone centrale è quello della critica al femminismo neoliberale che sembra esserne diventata la forma dominante negli ultimi anni, in cui il successo individuale e l’affermazione professionale a tutti i costi sovrastano qualsiasi altra forma e possibilità di emergere. Un femminismo che si realizza per poche privilegiate alle spese della maggioranza. A ricordare che la solidarietà è qui protagonista e ha un peso diverso dalla sorellanza (sisterhood), abbiamo voluto ad accogliere il pubblico il banner di Cauleen Smith. Bisogna lavorare, lottare e creare le circostanze perché la solidarietà esista e renderla salda con il mutuo rispetto delle differenze, mentre la differenza con la sorellanza è che quest’ultima è di solito un concetto e un modo di porsi tra donne quasi in automatico, senza troppe questioni. Le collaborazioni che abbiamo messo in atto per la mostra vengono da queste esigenze così come l’accessibilità del nostro testo che volevamo fosse fruibile da tutte e tutti, non solo da addetti ai lavori o a studiose.

Hila Peleg: Abbiamo saputo oggi dalla responsabile del dipartimento d’educazione del museo che c’è un grande interesse a visitare la mostra da parte di studenti e insegnanti, le richieste arrivano non solo dalle università, anche da classi delle superiori e ne siamo molto contente. L’opuscolo gratuito ad esempio è ricco anche di testi e informazioni approfondite in un linguaggio accessibile a chiunque.

Un altro approccio importante che si evince dai lavori in mostra è la volontà di esporre lo sguardo sullo stigma della donna difficile, sulla filmmaker in opposizione, considerata tale da e in un sistema prettamente patriarcale e oppressivo che viene spesso reiterato anche da figure intellettuali interessanti e in contesti illuminati. Come esporre e rivoltare gli effetti di questo sguardo?

Erika Balsom: Sappiamo bene in tante cosa significa quello che hai appena descritto, non si può certo essere sempre gentili e disponibili in circostanze oppressive o di sfruttamento. Va sempre appurato e considerato da chi è giudicata difficile una donna, e in quali circostanze lavorative e produttive. Un esempio di come abbiamo introdotto questo tema è Processo per stupro, un lavoro fondamentale e quasi insostenibile che abbiamo fortemente voluto. Sì, mi ricordo di averne visto delle parti in tv da piccola e fu tanto importante quanto impressionante realizzare il livello di discriminazione istituzionale verso le donne.

Immagino.

Erika Balsom: Invece di arroccarci in un sentimento vittimista della donna difficile che compiange sé stessa, abbiamo scelto lavori che creano nuovi sguardi e nuovi mondi, in collettività e con ogni mezzo possibile. Video e film prodotti a volte contro ogni previsione.


(il manifesto, 16 luglio 2022)

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