28 Agosto 2020
Corriere della sera

Patrizia Cavalli: «Vivo senza amore da anni. Non chiamatemi poetessa, sono poeta»

di Roberta Scorranese


«Non provo più amore».

Ma da quanto tempo?

«Da anni».

E come si sta senza amore?

«Male, tristi. Con una specie di sapienza a posteriori che non consola. Però sono troppo narcisa per azzardare un sentimento che potrebbe non essere ricambiato».

Ma la felicità non è un rischio? Non sta forse nel «fecondo coraggio», come diceva Natalia Ginzburg, il segreto dell’andare avanti?

«Boh».

Roma, Campo de’ Fiori, l’afa di un agosto deserto di persone, la casa all’ultimo piano — senza ascensore —, Patrizia Cavalli affondata sul divano che cerca da dieci minuti una posizione comoda appoggiando i piedi sul tavolino di fronte. Fogli, quadretti, piccole sculture sottili appese alle pareti, oggetti inutili e medicine sono il paesaggio di questo incontro, che sarà pieno di pause, sospiri, immaginari salti temporali per riacchiappare ora questo ora quel ricordo. Patrizia Cavalli è la nostra maggior poeta vivente.

Perché si fa chiamare «poeta» e non «poetessa»?

«Perché poetessa fa ridere, dai. Non mi è mai passato per la testa l’idea di farmi chiamare poetessa. Sembra quasi una presa in giro».

La stessa Elsa Morante, quando decise di sostenerla, le disse: «Patrizia, sei poeta, sono felice».

«A lei devo tutto, avevamo un rapporto complesso, umorale, esattamente come la sua natura. Ma ricordo un episodio. Una volta eravamo a tavola io, lei e Sandro Penna. Penna c’aveva quella vocetta gne gne e diceva: “Elsa, Elsa, sei contenta di stare a pranzo con due poeti?”. Morante lo gelò: “Io sono più poeta di voi”».

«Con passi giapponesi» è un libro di prose. La voce di Cavalli è naturalmente la stessa. Com’è nato il libro?

«Non c’è stata una vera intenzione. La prosa fa parte di me, io ho sempre scritto molto, ho uno stanzino pieno di note e appunti. I testi qui raccolti sono brevi, almeno per la maggior parte, indago il linguaggio».

Nata a Todi nel ‘47. In Umbria l’adolescenza. Poi Roma, alla fine degli anni ‘60 per studiare filosofia. Come sono stati i primi anni romani?

«Disperati».

Perché?

«Difficili anche sul piano topografico: mi perdevo nelle strade e siccome mi vergognavo a chiedere informazioni capitava che vagassi da sola per ore o che rimanessi fissa in un posto come un baccalà».

Poi questa casa, dove lei abita dal 1972.

«Prima occupavo un piano della casa di un tizio sposato ma gay. La moglie piangeva sempre e la capivo: aveva scoperto di stare con uno che amava i maschi. Gli innamorati si somigliano tutti».

Lei non è mai stata attratta dai maschi?

«Solo da ragazzina, sui dodici o tredici anni. Mi piaceva il mio vicino di casa a Todi, ma non era un’attrazione erotica. Era un’altra cosa. Più conformista, direi. Era come se stessi sperimentando qualcosa che non capivo bene».

A Kim Novak lei ha dedicato la sua prima poesia.

«Avrò avuto sì e no dieci anni. Quella donna mi faceva impazzire, mi sembrava un angelo. La poesia — la ricordo benissimo — faceva così:

Chi sei tu dunque

Kim, Kim, Kim Novak?

Sei forse l’angelo che appar di tratto?

Sei forse luce, calore e sogno?

Sì vedo, in te vedo il bene, la luce e la speranza.

Credo, in te credo con l’anima mi’ intera»

«Con l’anima mi’ intera», addirittura un’elisione.

«Evidentemente quello mi sembrava vera poesia, quell’attenzione alla lingua».

Sta scrivendo in questo periodo?

«No, non scrivo da almeno quattro mesi. La malattia, dicono, al momento s’è ritirata ma queste maledette cure che ho fatto mi hanno portato via l’energia e la memoria. Come si fa a fare poesia senza memoria? La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere. Le parole devono avere una potenza intrinseca, il lavoro del poeta è sceglierle tra tante altre. Ma io non ci riesco sempre ora».

Che cosa prova in quei momenti?

«Una sensazione di impotenza. Il corpo che cede, la stanchezza, la sensazione di non esserci. Perché il corpo è tutto. Il corpo è il teatro delle nostre cose, senza il corpo non ci siamo. La memoria è poi anche conforto, con la memoria ci sentiamo interi. Io invece adesso non sempre mi sento la vita davanti. Qualche volta risorge, a tratti e all’improvviso e allora corro a catturarla, a fissarla. Con immagini o con parole».

Il «corpo è tutto»?

«E certo, e di che vuoi parlare, dell’anima? Ma dai. Il corpo è dove sperimentiamo la conquista e la perdita».

In «Con passi giapponesi» uno dei brani più belli è quello in cui si racconta lo sguardo delle donne sulle altre donne: chirurgico, spietato.

«Vero. Uno sguardo che ho sentito più volte su di me e che ho visto spesso da donna a donna. Come uno sguardo unico, che mai sarà rivolto agli uomini».

Una delle poche cose che nessun uomo riuscirà a mai a prenderci?

«Forse».

Lei ha trascorso molto tempo senza pubblicare.

«Non sono una che apre la bocca per dargli fiato. Ho scritto cinque libri di poesie, è tanto. Non mi pesa stare senza scrivere».

Ma a settembre uscirà una nuova raccolta, «Vita meravigliosa».

«È fuori dal tempo, un libro dove ho messo tante cose. Compreso un poemetto dal titolo “Con Elsa in paradiso”».

Quando Elsa (Morante) decideva chi portare in paradiso si creava la coda: «anche io, anche io!» dicevano tutti. Morante però ci portava sempre Patrizia, perché Patrizia lo meritava.

«Ecco, a un certo punto scrivo “ah come mi piaceva questo andare facile, sicuro, senza dover competere”. Non sono stati anni felici, ma ricordo che succedevano cose, che preparavo cene, che sapevo cucinare benissimo e che c’era sempre tanta gente. Adesso, alla sera, il trovare gente da avere intorno è una preoccupazione».

Non riesce a stare da sola?

«Non mi piace, alla sera non ci riesco».

Quali sono stati i suoi anni felici?

«Non credo che ci siano anni felici. Ci possono essere stagioni felici. O giorni».

Lei racconta di una gita in un paesaggio svizzero e parla di felicità.

«Sì, quella volta sì. C’erano tutte le cose che mi rendono felice. C’era un luogo pianeggiante, d’acqua o di terra, poco importa. Poi c’erano dei sentieri, poi un qualcosa da salire o da scalare. Il bosco. Sì, quella volta sono stata felice».

Bella la parte in cui descrive il cicaleccio delle persone che erano con lei, persone che non stanno bene da nessuna parte e che si riconoscono perché non sanno stare zitti.

«Davvero ho scritto questo? Non me lo ricordo».

Ha scritto tanto di sé.

«Ma nella poesia il lato biografico conta poco. Certo, io ho parlato e parlo tanto di me, le poesie in cui parlo d’altro saranno sì e no un terzo».

Perché?

«Perché ogni tanto la vita mi si ripresenta accanto e allora cerco di catturarla e di scriverla».

Patrizia Cavalli ha una pelle bellissima. Questo è un fatto concreto, qualcosa che può toccare con mano.

«L’ho sempre avuta. Mi dicono anche che ero bella da ragazza ma io non me ne sono mai accorta. Ecco, forse sono stata felice ma non me ne sono accorta. Forse è stato un godimento oggettivo, quello della mia bella giovinezza, ma non soggettivo. Non c’ero e dunque non ho vissuto. A volte si vivono intere vite senza esserci».

(Una delle poesie della nuova raccolta finisce così: «senza sapere che in realtà ero bella»)

Lei è gelosa?

«Moltissimo. Lo sono sempre stata. Gli amori sanno essere diversi l’uno dall’altro e modulare ogni risposta è fatica, ad un certo punto tutto diventa lotta e rivalsa».

E che adolescente è stata?

«Ricordo un anno tremendo, ad Ancona, dove ci eravamo spostati per motivi di lavoro di mio padre. Volevo comandare i giovani ufficiali della Marina che alloggiavano vicino a casa nostra. Avevo promesso loro di rifornirli di divise di nordisti e sudisti, ci avevano creduto. Li comandavo, mi ubbidivano. Ero forte».

Patrizia, ma è vero?

«Nella poesia conta il vero?»

No. Crede in Dio?

«Ma che domanda è?»

Una domanda legittima. Risponda.

«No, piuttosto allora preferisco Apollo».


(Corriere della sera, 28 agosto 2020)

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