5 Novembre 2005
il manifesto

36 artiste

 

Le nuove vestali Alle Scuderie Aldobrandini di Frascati, «Altre Lilith», trentasei artiste internazionali in un percorso che mette in scena ibridazioni e identità multiple. Da Orlan a Manzelli
Il percorso Bambine demoniache, ritratti dark, carcasse di animali. Un universo alla rovescia raccontato da serie fotografiche, pennelli, sculture, opere digitali fra biogenetica e memoria privata
Arianna di Genova

Trentasei artiste in mostra per raccontare la prismatica identità femminile, tra ibridazioni del corpo e morphing «mentale». Nelle Scuderie Aldobrandini di Frascati – fino al 27 novembre – si potrà camminare fra i sogni e gli incubi delle autrici selezionate dalle due curatrici della manifestazione, Rosetta Gozzini e Gabriella Serusi (catalogo Gangemi editore). Il titolo suggerisce la notte popolata da Altre Lilith e chiama in campo le vestali dell’arte del terzo millennio (così recita invece il sottotitolo). E in scena va soprattutto il «body» nelle sue metamorfosi, puzzle impazzito tra tecnologia e epidermide. L’architettura fantastica è il concetto chiave per reinterpretare l’identità nel XXI° secolo e le artiste sono maestre eccelse nel prodursi disinvoltamente in questo spostamento continuo. Il viaggio all’interno della de-territorializzazione parte dai simulacri degli abiti, tutine-rifugio, materiali post atomici «cuciti» da Lucy Orta (Birmingham, 1966) per approdare poi alle mutazioni digitali di Orlan, un tempo paladina delle sculture carnali incise sul suo stesso corpo e oggi icona ibridata con antichi totem. Il cyberbody si fa mediatico, l’apparenza prende il posto della realtà chirurgica e lo schermo quello del tavolo operatorio.

La mostra di Frascati si propone dunque di essre una mappatura in soggettiva delle trasformazioni possibili: adattamenti a stereotipi femminili, domesticità che diventano selvagge, animalesche presenze che frugano in angosce inconsce. La strategia artistica fa cortocircuito con la biogenetica: gli sdoppiamenti di Janieta Eyre, teatrali fantasmi esistenziali, indicano la nuova strada della contemporaneità. Londinese, sceglie il travestimento per entrare in contatto con le «maschere» di eroine e principesse che assumono i tratti bestiali di presenze demoniache, inquietanti «errori» di natura. Anche Floria Sigismondi (Pescara, 1965) scardina il mondo dell’autobiografia e si ritrae come strega malefica accompagnata da un perfido gatto/cane di misteriosa provenienza, raccontando con quell’immagine la favola dark dell’insondabilità materna.

Le bambine della sudafricana Nicky Hoberman, piccole fanciulle dalle teste smisurate, gli occhi felini e criniere inverosimili, sono più simili ad animali pronti all’aggressione che a dolci figurine dell’infanzia. La crudeltà del loro atavico sguardo, quello scomparire di ogni tratto di umanità, rimanda alle donne dipinte da Margherita Manzelli. Potrebbero essere le sorelle maggiori, cresciute troppo in fretta, delle bambine non addomesticate di Hoberman.

Decostruire ogni cliché attraverso l’inafferabilità di una forma-corpo, rendendo nomade e «liquida» la personalità dei soggetti, è allora l’arma vincente per queste artiste che, pur nella loro diversità, esplorano la memoria, la nostalgia, l’aberrazione, la biopolitica, la transitorietà (nelle adolescenti sorridenti e già svanite di Yumi Karasumaru). La bulgara Gemisheva imprigiona il corpo in vestiti surreali. In Out of Myself , una sposa imbrattata del sangue che cola da una carcassa animale, lancia uno sguardo penetrante allo spettatore che si sente voyeur fuori posto, testimone di una qualche tragedia storica narrata solo per ellisse. La turca Sukran Moral mostra una donna incinta, corpo mutante/doppio per eccellenza e la ribattezza come Cristo, mimando con le braccia la croce del martirio. C’è anche Bülbul, volto di ragazza (è l’artista medesima) ingabbiato, con un’acconciatura di uccellini non più abili al volo, bestiole ormai impagliate. La napoletana Donatella Di Cicco (classe 1971) invece preferisce sconnettere, nelle sue foto, una serie di azioni quotidiane, tutte compiute da donne, in stazioni ferroviarie abbandonate o supermercati in disuso. Atmosfere apocalittiche, da day-after, che parlano del ritratto di una generazione costretta a fare i conti ogni giorno con l’assoluta precarietà del proprio mondo.

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