24 Giugno 2007
il manifesto

Abramovic, baci senza desiderio


Gianfranco Capitta

Pensa con i sensi, senti con la mente. La suggestiva epigrafe dell’esposizione della Biennale arte potrebbe felicemente sposarsi con la performance presentata da Marina Abramovic al festival della danza, ma fuori da superati confini di genere artistico. In realtà il lavoro, quasi un’installazione, è costruito e messo in opera da una dozzina di allievi dell’artista di Belgrado, riuniti sotto la sigla di Indipendent performance group. Giovani e di paesi diversi, si esibiscono in contemporanea nello stesso luogo, secondo una modalità sperimentata anche altrove, ad esempio un paio d’anni fa a Avignone. Diversi anche per approcci estetici, sotto il comune denominatore di un titolo, The erotic body, ingannatore. Generosa come la si conosce, Abramovic si è riservata un ruolo di concertatore dell’evento.
L’ingresso mette subito alla prova. Una ragazzona prosperosa attende immobile dentro una garitta vetrata, porgendo le labbra da un foro per un bacio. E viene in mente naturalmente un’altra indimenticabile prova di ingresso, in una lontana performance dell’Abramovic anni 70, con gli spettatori costretti a varcare la soglia delimitata dai corpi nudi di Marina e Ulaj. Qui tutto è più raddolcito, più disincantato, lo spirito del tempo è meno crudo. Ma anche più opaco. Si batte il proprio nome su una vecchia macchina da scrivere, verrà utile più avanti. Ci si comincia a aggirare nei vasti spazi del teatro alle Tese, in fondo all’Arsenale, non lontano dalle sale in cui Giuseppe Penone mette in mostra le sue «sculture di linfa», tronchi centenari di larici rivestiti di pelli animali, travi scavate e riempite di resina – c’è quasi un rispecchiamento fra questi due diversi modi di guardare al vivente. Ecco una giovane donna incerta in mezzo a una distesa ordinata di scarpe di ogni tipo, prima di sceglierne un paio troppo grande per lei, con cui inscena la gelida passerella dei suoi «passi d’amore». Ecco un’impari coppia che si scambia strani baci su un letto, lui mingherlino, lei decisamente più florida. Un corpo che nella distanza sembra ridotto al solo torso, come una frammentaria statua dell’antichità classica. Un ragazzo fa un training di sopravvivenza su un materassino gonfiabile dall’inequivoca forma fallica. Una ragazza orientale porta in giro con un moto lentissimo una attonita nudità. Un’altra fa una sorta di danza del ventre con una lama fissata al bacino che taglia le pareti di carta del cubo in cui agisce. Un’altra ancora scrive con la parte bassa del corpo il nome degli spettatori, lettera per lettera. Non ci sono percorsi prestabiliti. Non c’è un tempo, perché non c’è rappresentazione. Ci si può muovere o fermare a guardare. Lasciarsi conquistare dai momenti in cui con più forza l’azione investe il pubblico con l’intensità della presenza fisica dei performer. Come quella che incessantemente sbuccia barbabietole, con le mani che si vanno colorando del colore del sangue.
Quel che manca, ed è assenza troppo fragorosa per non essere pensata, è proprio il corpo erotico. Lo dice già la staticità della situazione, inconciliabile con i moti del sentimento erotico. C’è piuttosto in gioco una decostruzione dell’eros che ne lascia scoperte le facce giocosa e funerea. Non è un caso che l’immagine finale, usciti da lì, sia quella di una Ofelia che dondola immobile sull’acqua nel bacino delle Gaggiandre, circondata dai fiori. Corpo sottratto al desiderio.

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