9 Marzo 2012
Artribune

Abramovic: dubbi di metodo

 


“The artist is present” a Milano. Per tre mesi. L’evento più atteso e hyped della stagione è il soggiorno milanese della più importante performance artist vivente. Il passato, il presente e il futuro di Marina Abramovic tra due mostre, una performance, film e conferenze.

 

Marina Abramovic (Belgrado, 1946) non soltanto è il nome più autorevole della performance art contemporanea ma anche l’artista tout court senza pari in termini di notorietà e riconoscibilità mainstream. Livelli da rockstar acquisiti grazie a una capacità comunicativa e mediatica impressionante (e anche spregiudicata, a giudicare dalla scelta dei recenti palcoscenici televisivi italiani).
La parte storica della mostra presso il PAC offre un compendio di una carriera straordinaria: Dragon Head, Nude with Skeleton, Nightsea Crossing Conjuction in coppia con Ulay fino al penultimo The Artist is Present, la performance al MoMA che ha monopolizzato l’attenzione dell’artworld newyorchese e dell’uomo della strada per tre mesi, rendendo l’arte performativa pop nel senso migliore del termine, un incontro/scontro tra l’artista e la massa.

 

Che si trattasse di discorsi attorno al ruolo dell’artista (come in Art must be beautiful o nella serie Rythm), di discorsi sociopolitici (si veda Balkan Epic) oppure relativi alle dinamiche interpersonali e sociali scandagliate nelle performance in split con il compagno Ulay, la Abramovic è sempre stata capace di mettere il proprio corpo (e i suoi limiti psicofisici) al servizio di un’idea radicale, spesso perturbante e poetica insieme, come può essere dotare di una rosa e una pistola carica alcuni potenziali aguzzini oppure percorrere la Grande Muraglia da direzioni opposte per dirsi addio.
Se poco si può obiettare sul passato e anche sul futuro (una fondazione per giovani artisti e un museo in Montenegro) è ancora da scrivere, il presente suscita qualche perplessità.

 

La performance milanese, The Abramovic Method, vede l’artista nel ruolo d’istruttrice e supervisor di un gruppo di iniziati in camice bianco che accompagnano ventuno prescelti attraverso alcune strutture afferenti alle tre posizioni fondamentali dell’essere umano (in piedi, supino, sdraiato) e alle proprietà energetiche di determinati minerali e magneti. Ogni volontario deve “consegnare il proprio tempo” (e quindi orologi, telefoni, smartphone…) alla Abramovic in cambio di un attestato a fine trattamento. L’ambientazione da Spa, il carattere clinico-messianico del percorso e la nozione stessa di “metodo” che evoca il Dogma di Von Trier o altri tentativi di putsch autoritari sull’estetica sono abbastanza deboli come critica al logorio della vita moderna. Potrebbe essere una variazione ironica sulla sterilizzazione dell’esperienza proposta dai dogmatici del fitness a ogni costo ma sembra, ci auguriamo di no, una deriva verso territori pericolosamente new age.

 

 

 

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