19 Febbraio 2005
il manifesto

Allegria delabré di Francesca Woodman

 

Due mostre romane All’American Academy e all’associazione Doozo, assaggi da diverse stagioni artistiche, divise tra paura e speranza
Elena del Drago

Nella sua breve, intensa, parabola esistenziale, gli anni trascorsi a Roma furono per Francesca Woodman, anche dal punto di vista artistico, particolarmente felici. Tra la primavera del 1977 e l’agosto dell’anno successivo, infatti, Woodman risedette in un appartamento trovato per lei dal ceramista Nino Caruso non lontano da Piazza delle Cinque Scole dove aveva sede, a Palazzo Cenci, la Rhode Island School of Design, che offriva la possibilità ai suoi studenti migliori di passare un intero anno in Italia. Insieme all’amica Sloan Rankin, la giovane fotografa tornò così in Italia dove aveva soggiornato più volte e strinse amicizia con gli animatori della leggendaria libreria Maldoror di Via di Parione, vero e proprio deposito di cultura altra, e con gli artisti della scuola di San Lorenzo, Dessì, Gallo e Ceccobelli. Si condivideva il bisogno di ritrovare una nuova narratività figurativa dopo un decennio all’insegna dell’impegno politico, e di dialogare proprio attorno alle possibilità del fare artistico nuovamente orientato alla biografia. Negli interni romani Woodman ritrovò quell’aspetto delabré, amatissimo, della sua casa di Providence, quelle pareti scrostate che offrivano testimonianze di storie passate, ma più in generale un’atmosfera di creatività calorosa, del tutto slegata da immediati risultati professionali, che le fornì un momento di provvisoria, sebbene tormentata, allegria. A Roma due esposizioni, all’American Academy e all’associazione culturale Doozo, tornano a riflettere sulla straordinaria figura di questa artista, con un’attenzione particolare proprio agli anni italiani. Negli spazi espositivi di Doozo si incontrano alcune tra le immagini più iconiche di Francesca Woodman selezionate da Pascale Trombadori: una dalla serie Self-Deceit, strutturata attorno ai riflessi di uno specchio e agli inganni della rappresentazione, oppure l’autoritratto, Easter `78, con l’artista accovacciata in un interno bianco segnato da un angolo, in un’assorta concentrazione.

Nella sede dell’istituzione statunitense, invece, la curatrice Elisabeth Janus è riuscita a riunire proprio gli scatti realizzati in Italia e in America con l’amica Sloan, grazie all’aiuto di quest’ultima che ne è attualmente proprietaria. Nudi, ritratti e autoritratti, che restituiscono in modo struggente proprio quell’alternarsi di paura e speranza espresso unicamente attraverso pose del corpo imposte da un’autentica, fisica, necessità e veicolate verso soluzioni formali sorprendenti. Tra le opere esposte, Untitled del `75, (Depth of Fields) che procede per contrasti formali e concettuali: la donna in primo piano siede nell’ombra, coperta da diversi strati, sembra chiusa in se stessa e gira lo sguardo, insicura, verso un altro corpo femminile inondato invece dal sole che si offre alla vista dello spettatore. Non manca poi il Fish Calendar, almanacco composto da sei giorni soltanto, dal 1 al 6 marzo, dove corpi nudi e anguille (comprate al mercato di Piazza Vittorio) assumono posizioni complementari, e una serie di fotografie che abbandonano la nudità per avvicinarsi invece, improvvisamente, a travestimenti bon ton con quei vestiti vintage che, in tempi non sospetti, Francesca Woodman collezionava, utilizzava e faceva indossare alle sue modelle. L’atmosfera, quasi festosa, è interrotta dalla magnifica Abandoned House, scattata a Providence nel 1976 in cui un corpo appare, immateriale e fragile come un fantasma, sulla soglia di un camino, in attesa di sparire definitivamente, autentico presagio di morte. Particolarmente commovente anche la sezione documentaria con le fotografie scattate durante l’allestimento della prima mostra personale italiana, al piano inferiore della libreria Maldoror, il curioso carteggio che la precedette e le lettere scambiate con il gallerista Ugo Ferranti.

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