1 Novembre 2005

Anche nell’arte qualcuna rilancia il rapporto con l’uomo

 

di Zina Borgini

A Molte artiste, dopo anni di elaborazione politica fatta dal femminismo, hanno preso una forza che le porta con più potenza alla ribalta nel panorama mondiale e spesso usano il corpo come agente di messaggi politici; va di conseguenza che l’opera abbia una connotazione ben precisa che rispecchia la loro posizione sessuata, i loro modi di sentirsi donna e quale tipo di donna incarnare.
Anche se ritengo, come la maggior parte delle artiste che si esprimono singolarmente, che l’arte è essenzialmente un mettere in luce un sentire soggettivo e personale, non posso tacere che alcune hanno provato a lavorare e concepire opere con degli uomini in comunione di percorso.
Lo scultore Mario Merz e la moglie Marisa, sono un esempio per il loro lungo percorso artistico basato su una grande passione per l’arte povera, la tenace professionalità di entrambi e una relazione da sempre segnata da una differenza molto evidente: la personalità istrionica e prepotente di Mario eccedeva su quella di Marisa che, più misurata e riflessiva nella coppia, riservava tutto il suo clamore per creare opere squisitamente poetiche e vigorose.
Un esempio significativo è quello di Marina Abramovic´. Nata a Belgrado nel 1946, è una performer che agisce preferibilmente sul suo corpo. Ha iniziato a lavorare negli anni della rivendicazione femminile, gli anni Settanta, i suoi lavori giovanili sono una rivolta agli stereotipi dettati dalla famiglia e dalla società a una giovane ragazza che deve diventare una “donna”.
L’energia messa in campo nel suo percorso artistico cambia forma e natura. Nelle sue prime performance, tra cui le famose RyhthM 0 e Thomas Lips del 1975 ha usato la sua parte più propriamente “maschile”: “Le emozioni che mi guidavano erano coraggio ed estrema radicalità e anche una buona parte di violenza su me stessa, tanto da indurmi a pensare che se non avessi cambiato qualcosa, sarei andata sicuramente verso la morte”. La svolta avviene quando nel 1975 incontra Ulay, artista tedesco nato nel suo stesso giorno. L’attrazione tra i due è folgorante e da subito incominciano, oltre che a vivere insieme, a realizzare performance in coppia. È proprio durante questo periodo che Marina Abramovic´ scopre e utilizza, all’interno dell’opera, la parte che lei definisce più propriamente femminile. L’immagine ideale a cui danno vita i due artisti, rispetto alla loro collaborazione, si focalizza in una specie di androgino composto dalle loro due personalità. Spesso amano relazionarsi idealmente a una fotografia conservata da Ulay che ritrae lo scheletro di due gemelli siamesi uniti al petto, la zona del cuore. Marina e Ulay collaborano per ben dodici anni spendendosi sino in fondo. A un certo punto però qualcosa nella loro relazione comincia a incrinarsi. Il problema che prende corpo risiede nella diversificazione progressiva della volontà dei due: Ulay vorrebbe segnare una linea di confine tra la vita privata e quella pubblica mentre Marina vorrebbe continuare a mostrare completamente le dinamiche insite nella coppia. Questa differenza crea problemi tanto che, durante una performance, lui lascia il campo per primo e considera ridicolo che Marina prosegua il lavoro senza di lui. Dice Marina: “Non volevo ammetterlo prima, ma usai tutte le mie forze per fare anche la sua parte”. Non gli perdona di aver dubitato, nel suo lavoro non ammette il dubbio. La divaricazione si radicalizza sempre più e una venticinquenne cinese di cui Ulay si innamora li porta a una separazione definitiva che si manifesta in un abbraccio celebrato sotto la Grande Muraglia Cinese dopo aver camminato per tre mesi partendo ognuno da un capo opposto.
Commenta l’artista: “Il rapporto con l’altro è senza dubbio una delle occasioni più importanti che gli esseri umani possiedono per l’arricchimento personale, ma è importante che prima di aprirsi all’altro, si sia soddisfatti di se stessi. Nella vita di ognuna c’è sempre qualcun altro che viene, qualcun altro che va: se ricerchiamo negli altri il nostro centro, siamo spesso tristi e insoddisfatti”.
Da quel momento la Abramovic´ torna a lavorare sola (occasionalmente con altri) e indaga la sua nuova natura che comprende entrambi gli aspetti maschile e femminile, finalmente unificati in una ritrovata unità. Il suo lavoro si arricchisce di uno sguardo più ironico. Gli eventi e i materiali che l’artista decide di includere variano da replica a replica secondo il punto di vista che decide di adottare.
Un altro esempio è quello di Ilya & Emilia Kabacov, coniugi ucraini, presenti alla Galleria Lia Rumma di Milano: insieme mettono in preziose cornici il loro lavoro iniziato una decina di anni fa, lavoro di matrice tipicamente concettuale che si fonda sulla totale trasformazione dello spazio espositivo, quasi a divenire una rappresentazione teatrale; facendo riferimento alla loro storia individuale, legata alle condizioni di vita nella Russia post stalinista, indagano le condizione del genere umano, spesso con molta ironia.
Christo e Jeanne-Claude, una coppia di artisti che lavorano insieme dal 1966, definiti i maestri dell’impacchettamento, amano ritenersi artisti nomadi, perché le loro opere, quasi sempre interventi sulla natura o sui monumenti, sono disseminate nel mondo, hanno fatto della temporaneità la loro scelta estetica. Le loro installazioni non durano mai più di due settimane, e tutto il materiale usato viene poi riciclato. Affermano: “Riteniamo che l’aspetto temporale e provvisorio del nostro lavoro abbia un senso d’urgenza e d’amore. Nella vita le cose che amiamo di più accadono una volta sola”.
E ancora, Grazia Toderi (artista della nuova generazione) e il compagno Gilberto Zorio (precursore dell’arte povera) provano a rappresentare la loro commistione con un’azione inusuale e innovativa: accogliendo reciprocamente un lavoro dell’altra/o all’interno di una propria mostra personale installata in due gallerie diverse di Pescara, Grazia Toderi alla Galleria Vistamare con Rendez-vous e Gilbero Zorio alla Galleria Rizziero con Torre-Stella. Due mostre, due gallerie, due titoli con un’unica posta in gioco, a mio avviso: quella di creare una parità generatrice artistica autonoma all’interno di una relazione amorosa.
Nei casi ricordati come in altri, c’è stato uno staccarsi dall’altro per auto definirsi, c’è stato un uso dell’altro per emergere o un riprendersi reciproco nella fusionalità o ancora un riprendersi con signoria per le nuove generazioni. Queste sono le leve che saltano all’occhio nelle coppie di artisti, dinamiche tutte percorribili che portano a modificazioni, a rimettersi in discussione, che rilanciano la creatività, che si affidano o si sfidano: tutto è lecito se il risultato è un buon lavoro e ne guadagna la relazione.

 

Lettura consigliata:
Lea Vergine, L’altra metà dell’avanguardia, Il Saggiatore 2005.

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