19 Febbraio 2007
l'Unità

Donne & arte, dalla rivolta al museo

 

Valeria Trigo

Esauriti tutti gli “ismi”, pare che la diversità sia l’unica fonte da cui trarre nuovi stimoli. Ed ecco che le minoranze diventano, come per miracolo, le vere protagoniste. Un fenomeno che dilaga, ormai, ovunque: dai reality al Parlamento. Democrazia allargata? Piuttosto, specchio di una società “targetizzata”, dove anche i piccoli gruppi (di consumatori) vanno coccolati. E, mentre si discute di diritti dei conviventi, c’è già chi pensa a produrre confetti lilla per le future coppie gay. Che inglobare la differenza sia un buon affare, l’arte lo ha già intuito da tempo. Solo il secolo scorso, è pieno di maledetti riabilitati post mortem (spesso, anche in vita), proprio per la loro eccentricità. Ma, in un sistema sempre più complesso e diversificato, anche l’attributo generico di “diverso” si è dovuto specializzare. Così, mentre i cultural studies sondavano un mondo ancora poco conosciuto, il mercato pregustava i suoi vantaggi economici. Perché le persone, dopo il tramonto dell’Occidente, avrebbero iniziato a guardare altrove. Sulla carta, un’ottima occasione per seppellire le vecchie categorie e aprirsi all’altro. Di fatto, l’ultima versione del capitalismo, che spaccia per tolleranza il bisogno di conquistare nuovi spazi. Ultimamente, tra i più sdoganati, è proprio l’universo femminile e, ovunque, si è pronti a giurare che il futuro sarà in mano alle donne.
Una nicchia che inizia ad allettare anche i musei, da sempre collezionisti di rarità. E passerà di sicuro alla storia il simposio The feminist future: theory and practice in the visual arts, ospitato dal MoMa di New York a fine gennaio. Due giorni di dibattiti e conferenze, “sold out” con grande anticipo, segno che ormai il femminismo fa tendenza. Del resto, le ospiti erano star di prima grandezza. In pratica, il gotha del movimento che nelle arti visive ha sfidato l’egemonia maschile. A cominciare dalla storica dell’arte Lucy Lippard che, a 70 anni, non ha perso la sua ironia e, davanti a una platea gremita, ha commentato: “Beh, direi che è un bel risultato per un “ismo”. Specialmente in un museo che non ha mai dimostrato grande attenzione per le donne”. Un successo inaspettato che dimostra come la creatività femminile sia ancora un’ospite rara negli spazi istituzionali. E un paradosso che spegne la carica eversiva di un fenomeno, in aperta contestazione con i luoghi deputati al fare arte. Non è un caso che al convegno abbia tenuto banco un’icona dell’avanguardia degli anni ’70 come Marina Abramovic. La stessa che, trent’anni fa, con il compagno Ulay scioccava il pubblico della Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Una performance memorabile, Imponderabilia, con i due artisti in piedi, completamente nudi, all’ingresso della mostra. Impassibili, nonostante il viavai di visitatori che, passando, sfioravano i loro corpi.
Protagoniste della convention newyorkese anche le Guerrilla Girls (www.guerrillagirls.com), un collettivo fondato a metà degli anni ’80, che oggi conta un centinaio di artiste. La loro filosofia è un cocktail dissacrante di ironia e provocazione. Mascherate da gorilla e ribattezzate con i nomi di artiste defunte, in onore alla loro memoria, sono famose per azioni, vagamente situazioniste, sui media o in giro per il mondo. Dove il fine è: “Mostrare il sessismo, il razzismo, la corruzione nella politica, nell’arte e nella cultura pop”. Baccanti che non si intonano al rigore apollineo di un museo e la loro presenza al MoMa lascia, quantomeno, perplessi. Del resto, come negare a un branco di scimmione il sogno di sentirsi principesse per un giorno? E come reprimere lo slancio progressista di quello che già i futuristi chiamavano il “cimitero” delle opere d’arte?
Ma la seconda primavera è appena iniziata e sta per arrivare anche a Los Angeles, con la mostra Wack! Art and the feminist revolution, dal 3 marzo al MoCa. Sempre a New York, invece, il 23 marzo inaugurerà Global feminisms al Brooklyn Museum, dove aprirà anche l’Elizabeth A. Sackler Center for Feminist Art, con uno spazio permanente per l’installazione The dinner party di Judy Chicago. Esposta per la prima volta al MoMa di San Francisco nel ’79, è stata accusata di pornografia e denunciata dal Congresso come un affronto alla virtù e alla modestia delle americane. L’opera mette in scena un grande banchetto, allestito per trentanove ospiti d’onore, dalla dea della Mesopotamia Ishtar a Virginia Woolf, da Saffo a Santa Brigida. A dare scandalo erano soprattutto i simboli decorati sulla porcellana, varie trasposizioni della vulva, per rivendicare la propria sessualità. Un manifesto contro la tirannia maschile che, dalla censura del puritanesimo yankee, è finito nel “tempio delle Muse”.
Negli anni ’70, anche in Italia il femminismo ha prodotto una generazione impegnata a rinnovare le procedure tradizionali dell’arte, come la serie di interventi realizzati dall’Associazione “Donna Arte” a Frascati (Rm), tra il giugno e il luglio del ’77. Una squadra di sole donne per un progetto che univa tutte le forme artistiche, in uno scambio diretto con la comunità. “Il nostro fine – dicevano – è creare un’area di azione non ghettizzata, un canale di comunicazione non eterodiretto, una circolazione di idee non per “cento” persone che fanno notizia”. Oggi, la cittadina laziale continua a interessarsi alla questione dell’identità femminile, “ferita ancora aperta sul corpo dolorante delle società ipermoderne dell’occidente, o di quelle del sud del mondo in via di sviluppo”. La novità (o l’involuzione, a seconda dei punti di vista) è che, dalle strade e dalle piazze, le artiste si sono trasferite nel museo. Ma non volevano uscire dal ghetto? Dopo trent’anni, pare non sia cambiato molto: è solo un gineceo di lusso per legittimare uno status, solo in apparenza, paritario. Tra i pochi spazi di autogestione rimasti, Internet. Ed è qui che le giovani, remixando i codici della loro generazione, affilano le armi dell’ingegno e dell’umorismo. Come Laurina Paperina, figura emergente della scena italiana, che nella serie Sexual Drawings, ironizza sui ruoli sessuali e i rispettivi cliché. Un esempio? “Le passere sono tutte delle grandi gnocche”. Parola di papera.

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