27 Settembre 2009

Dove inizia lo scandalo?

 
Una perfezione formale che ricorda i dipinti antichi, per soggetti scomodi, difficili da digerire. Dal sadomaso ai surfisti, ai paesaggi selavatici dell’Alaska. E’ il sogno americano di Catherine Opie, fotografa, attivista e gay. Oggi in mostra al Guggenheim di New York.

di Barbara Casavecchia


Onesta. Per Catherine Opie, la chiave del suo lavoro di artista e fotografa è tutta lì, in quella parola acqua e sapone, scomodissima. Come il raccontarsi senza trucchi, mettendosi in gioco. Ancora più scomoda, quando sei una giovane e robusta leather fyke (lesbica in pelle) californiana, tatuata, combattiva, abituata a non nascondersi e a giocare con le proprie fantasie, in versione sadomaso o Daddy/Boy, tramite il proprio aler ego Bo. “L’unico modo in cui puoi evitare che la gente usi chi sei contro di te, è essere onesta e aprirti per prima, parlare di te prima che parlino di te”, scriveva in Sister Outsider Audre Lorde per sua stessa definizione “nera, lessbica, madre, poetessa e guerriera”, tra le ispiratrici di quella terza ondata che a fine anni Ottanta ha cambiato radicalmente il femminismo, americano e non. Opie sembra averla presa alla lettera, scegliendo come arma l’autoritratto. Di schiena, con inciso a bisturi sulla pelle nuda il disegno di una casetta con camino, un filo di fumo, il sole e due ragazze che si tengono per mano (Self-Portrait/Cutting, ’93). Di fronte, un cappuccio S/M sul viso, le braccia coperte di piercing, la parola Pervert incisa sul petto (Self-Portrait/pervert ’94)- la stessa che s’intravede ancora tra i suoi seni, mentre allatta il figlio, (Self-Portrait/Nursing. ’04).
Immagini difficili da ignorare, ma anche da digere o rigettare al primo sguardo, per via di una perfezione formale ispirata a Mapplethorpe (Opie ne ha curato una mostra a Washington, quattro anni fa) e alla pittura antica: un linguaggio familiare, comprendibile, elegante che cattura subito gli spettatori. Dal suo debutto alla newyorkese 494 gallery nel ’91,
la sua popolarità è cresciuta stabilmente, consacrata da mostre, premi come il Citybank e l’Aldrich Award, dall’insegnamento a Ucla. Ora, a chiudere il cerchio, arriva una massiccia retrospettiva al Guggenheim New York, a cura di Jennifer Blessing (dal 26/9 al 7/1, www.guggenheim.org) che ne ripercorre l’intera carriera, senza censure.
Opie ha iniziato a fotografare a nove anni, quando viveva a Sundasky, Ohio. A tredici si è trasferita con tutta la famiglia a Rancho Bernardo, un suburb benestante di San Diego, poi a San Francisco, per frequentare l’Art Institute, e infine a Los Angeles, dove si è diplomata a CalArts – e oggi vive con la sua compagna, Julie Burleigh, la figia di lei e il proprio figlio di sei anni Oliver. I suoi primi lavori li ha pubblicati sulla rivista porno-femminista On Our Backs, ma a farla conoscere è stata la serie Being and Having, tredici ritratti ravvicinati su sfondo giallo, dedicati al altrettante “baffute”, dall’identitità volutamente ambigua.
Con gli anni, non ha abdicato al ruolo di testimone, lanciandosi in un viaggio on the road da novemila miglia per documentare senza clamori il privato di tante famiglie lesbiche (Domestic ’98), con larco anticipo sulla versione televisiv, sdoganata e glaumourizzata a puntino, di una fetta di quel mondo: The L Word – che le ha reso omaggio invitandola a comparire in un episodio, quando un suo vernissage fa da sfondo all’incontro tra le protagoniste. Però Opie ha continuato a esplorare includendo panorami urbani, ritratti di surfisti e giocatori universitari di football, scenari rurali in rovina, paesaggi grandiosi dell’Alaska, avventurandosi Into the Wild. A scandagliare, insomma, i confini mutevoli del sogno americano. La cui formula magica, anche sotto l’ombra minacciosa e sessuofoba di Sara “Barracuda” Palin, sembra restare ostinatamente: Yes, I can.
“COSA NON SONO: MONODIMENSIONALE”
Il Guggenheim ha intitolato la sua mostra American Photographer. Si riconosce in questa definizione?
“All’inizio mi ha sorpreso, poi ho capito che avrebbe funzionato. Mi piace il cortocircuito implicito di quel titolo. Io parto sempre da una riflessione sull’identità, quindi sono felice che il pubblico possa interrogarsi su senso di un aggettivo come “americano”. Per me, ben lontano dalla retorica conservatrice, infarcita di nazionalismo e patriottismo, con cui ci hanno storditi negli ultimi anni. E speriamo che le atrocità dell’amministrazione
Bush finiscano presto!”.
Stile a parte, è difficile associare le immagini shock e autobiografiche dei primi anni Novanta all’epica del football giovanile…
“E’ stato uno sviluppo consapevole, il mio modo per misurarmi con la dimensione documentar. Molti sono rimasti spiazzati quando, dopo il successo di Portraits alla Biennale del Whitney del ’95, mi sono messa a fotografare in bianco e nero le freeway di Los Angeles, vuote, alle cinque del mattino, con minuscole stampe al platino. Il fatto è che non volevo essere fraintesa. Quei lavori legati alle modificazioni del corpo e alla mia appartenenza alla comunita queer di San Francisco, avevano attratto molta attenzione, ma anche troppe etichette facili. Se c’è una cosa che non sono è monodimensionale. Così, anziché puntare su soggetti queer, ho cercato di espandere uno suardo queer.
Sul tema è tornata di recente, con In and Aurond Home (’05), una serie incentrata sulla sua famiglia e il quartiere dove abita, South Central, una delle aree più difficili di Los Angeles.
“E’ il vecchio adagio sul politico e personale. Rispetto a ciò che sostiene la destra conservatrice, a che punto siamo con l’affermazione che la mia famiglia non può essere una famiglia, o rispettata come tale? Certo, adesso io sono professore a Ucla, ho una compagna fantastica, un figlio, una bella casa, sto vivendo il mio American Dream. A cosa succede dentro e fuori dalla mia porta? Dovrei diventare compiacente? Credo che, come artista, sia mia responsabilità non farlo.
E’ una serie molto intima, spesso tenera, come la foto di suo figlio in tutu rosa davanti allo specchio.
“Se ne è detto e scritto di tutto, ma per me è soprattutto un congegno che svela come vediamo i bambini – che io adoro – proiettando su di loro le nostre fantasie. Con la serie Children del ’04 ho ritratto in studio un gruppo di preadolescenti, al massimo tredicenni: alcuni li conoscevo, altri no. Ho cercato di lasciarli essere chi volevano, provando a far emergere in superficie il nocciolo, un po’ della persona che saranno da adulti”.
L’altro cardine del sul lavoro è la dimensione urbana; con le sue geografie, come nelle American Cities, che porta avanti da un decennio.
“La mia tesi al CalArt, Master Plan (”88), era un’analisi dell’area in cui sorge l’università: Valencia, una delle planned communities (comunità progettate) più grande degli Usa, con un breviario di regole e divieti alto come una Bibbia. Ho scattato oltre ducento foto, molte sulle case-modello in mostra. Mi interessava capire cosa significasse andare a vivere in un posto così, protetto, recintato, un mondo perfetto che ne esclude tanti altri. Come si costruisce la propria identità e visibilità pubblica, la propria “facciata”. American Cities è iniziato con la serie dei Mini-Malls, architetture banali, anonime, caratteristiche di Los Angeles che tutti cercano di ignorare e che invece, con le loro insegne, segnalano l’aspetto multiculturale della città”.
Le sue immagini sono sempre molto belle. Colori saturi, composizione ineccepibile,simmetria, pose classiche. Sembrano quadri.
“E’ una scelta precisa. Quando lavoravo ai primi ritratti, ho capito che se avessi creato una piattaforma estetica al mio lavoro, la gente avrebbe reagito in un modo diverso. Alle foto di Being and Having avevo messo una cornice in legno. Con i Portraits, immortalavo i miei amici con lo stesso sfondo damascato e lo sguardo che Enrico VIII ha nei dipinti di Holbein, per ammantare di regalità una comunità che di solito viene patologizzata. A me, più che l’idea della bellezzaa in sé, con tutti i suoi luoghi comuni, interessa come ridefinirla, tradurla in seduzione, per coinvolgere lo sguardo più a lungo. Così il cervello si mette in moto. No, non elimino niente, sopratutto ora che la fotografia viene definita in base alla sua capacità di manipolare la realtà. Ci sono autori come Struth o Gursky che fanno di tutto per perfezionare un’immagine, e sono certa che se Canaletto vivesse oggi, sarabbe un mago di Photoshop. A me invece, interessa il contrario: escludo nei miei “panorami” tutto quello che c’è davvero, lì, in quel momento. Del digitale mi piace la fluidità: per un progetto recente in Alaska, ho comprato una Hasselblad da 39mila
megapixel, che mi permette di lavorare senza cavalletto. Mi piace di essere tornata alle radici, quando scattavo per strada. Così possso starmene straiata su una spiaggia, davanti al Pacifico, a guardare i surfisti che aspettano per ore l’arrivo di un’onda. Anche l’oceano è uno spazio pubblico, anche quella è una comunità che lo occupa seguendo le proprie regole”.

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