21 Luglio 2014

Le notti travagliate di Monsù Desiderio

da Alias “il Manifesto” domenica 20 luglio 2014

di Fausta Garavini

Un misterioso pittore francese del Seicento, nell’ultimo romanzo di Fausta Garavini. Coloriture d’epoca della lingua, stile lucido e aereo, senso di rovina… L’orizzonte letterario è quello dell’amica maestra Anna Banti ma il libro insegue altri rovelli creativi

A subirne il fascino sem­bra sia stato per primo tra i con­tem­po­ra­nei André Bre­ton, che affian­can­dolo a «geni» come Gior­gio de Chi­rico e Gustave Moreau sug­ge­riva in L’arte magica di inter­pre­tare le sue «ricer­che for­mali» secondo «certe cor­re­zioni dell’angolo visivo subite dall’ottica moderna», piut­to­sto che attri­buirle al sem­plice «capric­cio o al desi­de­rio di stra­nezza». Appas­sio­nato col­le­zio­ni­sta dei suoi qua­dri, con quelli di Bar­to­lo­meo Sche­doni e Michiel Sweerts, sarà in epoca più pros­sima il Bruno Sarac­cini delle Mosche del capi­tale, in cui Paolo Vol­poni lo descrive «pit­tore bianco e allu­ci­nato di edi­fici e di piazze in rovina e di fiam­meg­gianti mar­tiri». Sfi­dando l’anatema lan­ciato da Roberto Lon­ghi negli anni cin­quanta, un «arruf­fone pre-surrealista» lo liquidò con per­fi­dia, al miste­rioso, per­tur­bante Fra­nçois de Nomé dedica ora il suo sesto romanzo Fau­sta Garavini. Chi sia que­sto «pit­tore di archi­tet­ture fan­ta­sti­che squas­sate da silen­ziosi cata­cli­smi», quali i dati certi nella bio­gra­fia del mae­stro sei­cen­te­sco nativo di Metz e a lungo con­fuso sotto uno stesso nome con il con­ter­ra­neo Didier Barra, l’autrice lo spiega nelle poche righe di avver­tenza pre­messe in Le vite di Monsù Desi­de­rio (Bom­piani, pp. 317, euro 22,00) alla nar­ra­zione vera e pro­pria: anzi, quasi a met­tere sul tavolo le pro­prie carte, vi tra­scrive per intero il breve docu­mento in cui sono con­te­nute le sole noti­zie atten­di­bili sulla sua vicenda. Si tratta di una scelta sin­to­ma­tica, poi­ché rive­lando subito al let­tore gli unici ele­menti sicuri su cui ha potuto lavo­rare (l’età appros­si­ma­tiva in cui Fra­nçois lasciò Metz per Roma e quella in cui lasciò poi Roma per Napoli, la morte del padre ante­ce­dente la par­tenza per l’Italia, i nomi della madre e della moglie e del mae­stro romano di cui fu a bot­tega), Fau­sta Gara­vini cer­ti­fica la realtà cor­po­rea del suo pro­ta­go­ni­sta ma insieme riven­dica per sé la neces­sità deci­siva di inven­tare. E come inven­tare la sto­ria di un pit­tore se non affi­dan­dosi ai suoi qua­dri? Que­sta la sfida teme­ra­ria cui allude anche l’insolito, enig­ma­tico plu­rale adot­tato dal titolo. Rac­chiuso tra un pro­logo e un epi­logo sal­dati in sequenza cir­co­lare, con­dotto in terza per­sona, il romanzo è prov­vi­sto di una strut­tura fer­rea: quat­tro parti scan­dite dalla sim­me­tria geo­gra­fica dei due viaggi cono­sciuti di Fra­nçois e delle due città ita­liane in cui abitò. Con spa­valda, incan­te­vole mae­stria l’autrice affre­sca die­tro il suo pit­tore pae­saggi e strade e per­sone, ne affolla l’esistenza di incon­tri, trat­teg­gia per lui una quo­ti­dia­nità ricca di colori e di affetti, gli regala insomma una vita vera. Die­tro il tempo este­riore dei fatti flui­sce però scom­pa­gi­nan­dolo una seconda e più clan­de­stina e per Gara­vini senza dub­bio più vera vita dell’artista. «Non sono in grado di spin­germi oltre su que­sta trac­cia, di scio­gliere il tes­suto di rebus che sor­regge que­ste scene invase d’irrealtà, que­sti sogni pie­tri­fi­cati», dichia­rava la scrit­trice in un sag­gio dedi­cato nel 2006 a Fra­nçois de Nomé su «Para­gone», certa tut­ta­via che quella «pit­tura di sin­go­la­rità stu­pe­fa­cente» esprima «qual­cosa che non viene detto altrove da nes­suna parte, né in un altro secolo né in un altro paese». È con esat­tezza chi­rur­gica que­sto «qual­cosa» che il romanzo inse­gue per inchio­darlo al suo significato. Pro­ta­go­ni­sta malin­co­nico e sen­si­bile, Fran­ce­sco diventa nel libro un pit­tore che pensa, non un uomo di mestiere ma un arti­sta tor­men­tato dagli arcani que­siti del pro­prio lavoro, dalla ricerca di un altrove che solo la pit­tura gli con­sente di rag­giun­gere. Fau­sta Gara­vini esplora i suoi qua­dri inter­pre­tan­done il vistoso sim­bo­li­smo in chiave erme­tica, ricon­duce il mistero in appa­renza inspie­ga­bile delle sue figu­ra­zioni alle cor­renti magi­che da cui fu attra­ver­sato il secolo vio­lento e fosco che ebbe in sorte di abi­tare. Addi­rit­tura deci­fra un’iscrizione abrasa nell’edificio peri­co­lante rap­pre­sen­tato su una tela indi­can­dovi un chiaro mes­sag­gio con­tro la tiran­nide. Incubi, visioni, sogni a occhi aperti: mobile e lus­su­reg­giante, la vita inte­riore di Monsù Desi­de­rio pal­pita sulla pagina intrec­cian­dosi alla sua più lineare vicenda quo­ti­diana, ne rischiara l’opera acqui­stan­done spes­sore e luce. I rovelli di Fran­ce­sco, le sue fan­ta­sma­go­ri­che osses­sioni non appar­ten­gono però solo al suo tempo né alla sua pittura. «Cosa speri get­tando lo scan­da­glio nel buio di que­ste anime? Da bam­bina, chia­ma­vano me per ripe­scare col graf­fio la brocca caduta nel pozzo. Ci vuole una bugiarda, diceva Finaia, il colono. La verità, lo sai, è come un oggetto in un pozzo senza fondo che non si rie­sce mai a por­tare a galla. Il graf­fio della bugiarda farà emer­gere solo la chi­mera che c’illude: non ci è dato cono­scere ciò che un’anima inquieta può rac­chiu­dere nel pozzo del suo segreto inson­da­bile», ammo­niva la nar­ra­trice di Diletta Costanza (1996) par­lando con se stessa. È mera­vi­glio­sa­mente com­patto, gre­mito di echi il mondo poe­tico che Fau­sta Gara­vini ha costruito negli anni con i suoi romanzi: la nostal­gia del pas­sato insieme al disa­gio per un pre­sente ino­spi­tale, il sen­ti­mento fatale di rovina, la con­vi­venza di epo­che diverse e il dia­logo sot­ter­ra­neo con i morti, lo scam­bio ine­sau­sto tra imma­gi­na­zione e realtà sono i temi che sem­pre più esatti ne inner­vano le pagine fino a popo­lare le notti tra­va­gliate del pit­tore di Metz. Né ha senso distin­guere tra nar­ra­zioni nella sto­ria e rac­conti in veste con­tem­po­ra­nea, se il per­so­nag­gio più vicino al cuore di Fran­ce­sco si direbbe nel suo feb­bri­ci­tante mono­lo­gare il pro­ta­go­ni­sta dell’onirico Dia­rio delle soli­tu­dini (2011), il foto­re­por­ter per cui «tutto è mes­sin­scena» e ogni imma­gine costi­tui­sce «un’analogia del mondo, non una rap­pre­sen­ta­zione». Parole che certo, oltre a Fran­ce­sco, sarebbe pronta a sot­to­scri­vere l’autrice. L’ha d’altra parte spie­gato Anna Banti che «pre­sente e pas­sato sono un istante da cat­tu­rare e strin­gere come una luc­ciola nella mano» e che «non ci rie­sce chi vuole». Appare dun­que allu­sivo che Fau­sta Gara­vini rivolga un omag­gio all’amica e mae­stra intro­du­cendo nell’ultima sequenza romana di Le vite di Monsù Desi­de­rio un pit­tore «col­le­rico e mane­sco» di nome Ago­stino, certo quel Tassi che giu­sto un anno dopo userà vio­lenza alla gio­vane Arte­mi­sia Gen­ti­le­schi. Nient’altro che un oriz­zonte let­te­ra­rio comune, una comune incli­na­zione figu­ra­tiva avvi­cina però ad Arte­mi­sia il romanzo di Fra­nçois de Nomé: l’autrice vi inse­gue rispo­ste diverse affron­tando diversi pro­blemi crea­tivi, padro­neg­gia un suo stile lucido e aereo, inventa una lin­gua in cui la colo­ri­tura sei­cen­te­sca non è capric­cio né calco ma indi­spen­sa­bile stru­mento nar­ra­tivo. Afferra la sua luc­ciola e sa tenerla stretta nel palmo.

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