6 Giugno 2015
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Gaza, la stanza chiusa

di Davide Frattini

 

DEIR AL-BALAH – Il 19 novembre del 2013 Nidaa Badwan ha chiuso la porta della sua camera e non è più uscita per quattordici mesi. Il giorno prima i miliziani di Hamas l’avevano fermata mentre aiutava un gruppo di giovani a preparare una mostra.
«Perché porti quei pantaloni larghi? Devi indossare il velo non quel cappello colorato di lana. Sei strana, chi sei?».
«Un’artista».
«Che vuol dire? Che cos’è un’artista e soprattutto che cos’è un’artista donna?».

La stanza dell’isolamento, della prigionia autoimposta, è piccola nove metri quadrati, una sola finestra, una lampadina appesa ai fili elettrici. Le pareti sono colorate: adesso una è blu-verde oceano, quella di fronte coperta con un arcobaleno di cartoni per le uova. Cambiano come cambia l’ispirazione di Nidaa e soprattutto la luce naturale. «A volte devo aspettare ore per trovare i contrasti, le ombre che sto immaginando», racconta. A quel punto lo sfondo è già allestito: strumenti musicali (un oud, una chitarra rotta), una vecchia macchina per scrivere, una cucitrice, gomitoli di lana, una scala di legno da imbianchino.
Nidaa indossa il costume, risistema l’inquadratura e scatta: autoritratti dove il volto quasi non si riconosce, composizioni che a Marion Slitine, specialista francese di arte contemporanea palestinese, fanno pensare «alle nature morte di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, ai chiaroscuri di Caravaggio, alle scene teatralizzate e neo-classiche di Jacques-Louis David».
Per Nidaa sono le uniche scene che vuole vedere. Non ha lasciato la casa neppure durante i cinquanta giorni di guerra tra Israele e Hamas l’estate scorsa. La famiglia è scappata da questo villaggio nella parte centrale della Striscia e si è rifugiata verso la città di Gaza. La ragazza, 28 anni, è rimasta sotto i bombardamenti, circondata dalla distruzione. L’opera composta in quelle settimane la mostra mentre si rovescia in testa un secchio pieno d’acqua e vernice rossa, un macabro «ice bucket challenge» per raccontare il sangue attorno a sé.

«Questo spazio – dice mentre accarezza la macchina fotografica – mi ha dato la libertà che fuori non potevo trovare. Libertà dal grigiore e dalla bruttezza di Gaza, dall’assedio israeliano, libertà dalle imposizioni degli uomini di Hamas». La prima foto scattata sembra rivolta a loro e forse a tutti i maschi: Nidaa imbraccia l’oud e impone con il dito di piantarla a un gallo combattivo.
La seconda ringrazia la madre che con il padre, i due fratelli, le tre sorelle non l’ha mai abbandonata: «Nei primi mesi di autoreclusione ho pensato di suicidarmi, erano molto preoccupati. La mamma ha cominciato a lasciare davanti alla porta, oltre al cibo, piccoli compiti: i pomodori da tagliare, un’insalata da preparare». Nell’inquadratura sbuccia le cipolle, piange, anche di gioia, sono le prime opere, quelle che le hanno permesso di ricominciare. Nata Abu Dhabi, è tornata a Gaza con i genitori nel 1996 dopo gli accordi di Oslo: «C’era tanta speranza allora, mi sono sentita a casa, ho potuto studiare Belle Arti».
A gennaio gli amici l’hanno convinta a uscire almeno per qualche ora. Avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione della sua mostra «Cento giorni di solitudine», portata a Gerusalemme e in giro per la Cisgiordania dal Centro culturale francese. Gli israeliani non le hanno concesso il permesso di lasciare la Striscia, gli organizzatori hanno cercato di allestire un collegamento via Skype da Gaza e Nidaa ha accettato di andare da loro: «E’ saltata l’elettricità, niente evento. Lo stesso problema a casa quando devo fotografare. Così uso la luce naturale, è più affidabile: non posso interrompere la relazione tra il sole e la mia stanza».

Da allora ha lasciato la camera altre due volte per visitare l’istituto francese nella Striscia, chiuso al pubblico dopo la strage alla rivista parigina Charlie Hebdo e le proteste degli estremisti palestinesi per la nuova pubblicazione delle vignette che raffigurano Maometto.
Quando è per strada, adesso tira su il velo appena qualcuno si avvicina, porta gli occhiali scuri e tiene una mano davanti agli occhi: «Voglio guardarmi intorno il meno possibile per non rovinare le visioni che mi aspettano nella mia stanza».

Nidaa Badwan

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(Corriere della Sera, giugno 2015)

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