Emanuele Trevi
Tra le varie zone in cui si suddivide il centro storico di Roma, le lunghe strade che uniscono via della Lungara alle pendici del Gianicolo, dominate dalla mole del carcere di Regina Coeli, hanno conservato un’atmosfera d’altri tempi, silenziosa e trasognata. Pochi i negozi, pochi i passanti, e anche il rumore che dovrebbe provenire dal traffico che scorre senza tregua lungo il Tevere si riduce a un mormorio remoto e indistinto. Da molti anni Giosetta Fioroni lavora al centro di questa strana isola urbana, in un grande studio che possiede la scabra eleganza di una vecchia officina di riparazioni. Ma al termine di una breve scala, si accede a un bellissimo e inaspettato giardino pensile, con terra sufficiente a farci crescere un melograno. Dall’altra parte della strada, incombe un raggio del vecchio carcere.
A poche settimane dal suo ottantesimo compleanno (il 24 dicembre), Giosetta Fioroni è l’esatto contrario di un’artista serenamente appagata da quello che ha fatto. Ha custodito in sé la fiammella dell’inquietudine e dell’esperimento che forse, di tutte le componenti dell’ispirazione, è la più fragile e insieme la più preziosa. E dire che due anni fa Germano Celant ha dedicato ai suoi dipinti una splendida monografia (edita da Skira), un vero e proprio monumento critico, di quelli che si possono dire definitivi. Eppure, non c’è monumento, non c’è riconoscimento che potrebbe mettere Giosetta al riparo dalla suprema tentazione: che è pur sempre quella di rimettere tutto in gioco, affrontando le nuove idee con la trepidazione dell’esordiente. Questo accade quando si vive la propria carriera come una fiaba, un percorso iniziatico, un sogno. Più che un itinerario rettilineo, una specie di spirale dove le illuminazioni improvvise e i sussulti del cuore contano più di ogni continuità. «Il fatto è — mi dice con l’aria un po’ incerta di chi confessi un peccato invece di enunciare una poetica — che alla mia bella età, invece di accontentarmi di ciò che sono, ho cominciato a covare in me una serie di immagini, che corrispondono ad altrettanti ritratti di ciò che sarei potuta essere, o diventare. Una galleria di identità alternative, o di aspetti di me inespressi, latenti, impossibili».
Da questa difficile ricerca, che si potrebbe definire come una nuova frontiera del narcisismo, è nata un’opera inquietante e sorprendente, portata a termine assieme a Marco Delogu, che — con la sua sapienza di fotografo — ha catturato questo pulviscolo di fantasmi, di identità alternative. La mostra, inaugurata al Macro di Roma il 6 novembre, si intitola L’altra ego. Sono quindici immagini di grande potenza emotiva, come altrettante confessioni provenienti dal nucleo più nascosto e inviolabile di sé, che però è sempre altrove, ama nascondersi e apparire dove meno te lo aspetti, come un bambino innocente e perverso. Esplicito è il riferimento letterario alle Vite immaginarie di Marcel Schwob. Ma mentre il grande scrittore simbolista, antesignano di Borges, scriveva biografie di artisti e celebri assassini del passato, qui l’energia dell’immaginazione è tutta concentrata su un unico soggetto, che ammicca dalla pluralità dei suoi travestimenti. A volte l’impressione è quella della discesa agli inferi, a volte quella di un’improvvisa liberazione. È con il rigore di una vera e propria body artist che Giosetta Fioroni ha scelto i costumi, le parrucche, i trucchi e tutti gli altri accessori che servivano a dar corpo alle sue identità immaginarie. «Mi era capitato in mano un vecchio numero di “Harper’s Bazaar”, dedicato ai rapporti tra arte e moda. Qualche stimolo all’invenzione mi è venuto da lì. Ma è stato un lavoro lunghissimo, pieno di incognite, di incertezze». In fin dei conti, intervenire sul proprio aspetto, evadendo dal recinto dell’apparenza quotidiana, è un’operazione magica ancora più che un processo artistico. E tutte le operazioni magiche contengono in sé una buona dose di imponderabile, una serie di effetti capaci di stravolgere tutte le cause evidenti.
Tutta l’opera di Giosetta Fioroni è condizionata da questo scarto: da un lato c’è il «mestiere», inteso come padronanza tecnica e disciplina; dall’altro si annidano la sorpresa, l’illuminazione, l’allargamento improvviso della conoscenza. Anche quando la conversazione si ritrae dal presente evocando tempi ormai remoti, la sensazione è che Giosetta, raccontando i suoi anni di noviziato artistico, non abbia vissuto un’esperienza molto diversa da quella di Topolino apprendista stregone nel celebre episodio di Fantasia. Come l’eroe di Walt Disney, ha evocato forze superiori, e se ne è fatta trasformare nel momento in cui tentava di piegarle a sé.
Che destino migliore potrebbe auspicarsi un artista? E come in tutte le fiabe che si rispettino, svolgono un ruolo decisivo certi «aiutanti magici», incontrati per caso nei momenti di scoraggiamento. Come quel giorno, a metà degli anni Cinquanta, in cui Giosetta Fioroni, studentessa delusa dai suoi professori e incerta del suo futuro, aggirandosi per i corridoi dell’Accademia di Belle Arti, in via di Ripetta, notò una porticina nera, con un cartello che invitava a iscriversi alla «Scuola libera di nudo». E fu così che avvenne l’incontro col primo, indimenticabile maestro: Toti Scialoja, «più grande ancora come poeta che come pittore. Eravamo una decina d’allievi, oltre a me c’erano Festa, Kounellis. Toti ci insegnava i maestri della regia russa, o i segreti del cinema di Buster Keaton. Era capace di mimare splendidamente tutto quello di cui parlava. Ed era stato uno dei primi a rendersi conto della grandezza dei pittori americani del dopoguerra».
Ed ecco gli incontri con De Kooning, con Rothko, con Twombly… Ascoltandola parlare, viene in mente che se fosse nata nel Settecento Giosetta sarebbe stata una di quelle perfide e deliziose autrici di lettere e memorie, capaci di infilzare un intero carattere con un colpo d’occhio infallibile e una manciata di parole esatte. Ecco Rothko sulla spiaggia di Fregene, molto reticente riguardo ai segreti della sua pittura, timidissimo. «Si tuffava in mare tenendo per la mano la moglie e la figlia, una famiglia di obesi silenziosi, affamati di fettuccine». De Kooning, invece, era «il fascino personificato», e mentre me ne parla Giosetta mi mostra una vecchia foto del pittore americano, conservata in una cornice ovale. «Gli organizzai una festa di compleanno, a casa mia in via delle Orsoline. La mattina dopo ho trovato in giro cento bottiglie di whisky».
Continuerei a lungo a collezionare queste perle della memoria, ma mi accorgo che il gioco la immalinconisce un po’. «Che vuoi che ti dica: sto per compiere ottant’anni, e ancora amo tutto della vita: i giorni di sole e di pioggia, i negozi, gli animali, i peli grigi che vedo sulla tua barba. Non mi sono preparata… Non so accettare che presto non ci sarà più niente!». E non c’è nessuna saggezza d’occasione, nessuna filosofia astratta che potrebbe consolarla. Semmai, c’è da star sicuri che troverà il modo da sola, Giosetta, per allungarsi la vita: continuando a tessere i fili colorati della sua storia, rischiando, mettendo a repentaglio ogni idea di sé troppo comoda e stabile per essere vera.
Emanuele Trevi