9 Gennaio 2008
il manifesto

Grandangolo per l’epopea di una fotoreporter partigiana

 

Patrizia Dogliani

Gerta Pohorylle, in arte più conosciuta come Gerda Taro, giovane donna, fotografa antifascista, morta in Spagna, sul fronte di Brunete, a soli 27 anni, il 25 luglio 1937. Ma soprattutto, per i più, la compagna, la moglie, l’amante di Robert Capa. Ovvero di André Friedmann, in arte e per tutta la vita Robert Capa, considerato uno, se non il più importante fotoreporter di guerra della metà del XX secolo. Per quasi sessant’anni l’opera di Gerda è stata oscurata, o forse ancor peggio confusa, con quella di Capa. Finalmente la ricerca di una studiosa tedesca, Irme Schaber, rende giustizia a Gerda, prima con una biografia apparsa in Germania nel 1995 e poi con la cura di una mostra fotografica, e del relativo catalogo, che si è chiusa il 6 gennaio all’International Center of Phography di New York. La biografia ha avuto una traduzione francese e più recentemente una bella edizione italiana, voluta con determinatezza e con passione da un gruppo romano di fotografe e di storiche della fotografia, riunitosi nell’associazione «Gerdaphoto» (Irme Schber, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, traduzione di Elena Doria e prefazione di Elisabetta Bini, DeriveApprodi, pp. 263 e ricco inserto fotografico, euro 18).
Da Lipsia a Parigi
Sino al libro di Schaber, sapevano poco di Gerda anche coloro che avevano studiato la storia della fotografia negli anni dei Fronti popolari e della Guerra civile spagnole. Gerda Taro era conosciuta essenzialmente attraverso alcune sue foto pubblicate sui primi grandi rotocalchi degli anni Trenta: i francesi «Vu» e «Regards», il nascente americano «Life». Si sapeva di lei grazie alle cronache del tempo che avevano giudicato le esequie parigine e le successive commemorazioni pubbliche della Taro sino al 1938 come tra le più forti e toccanti cerimonie politiche del Fronte popolare. I più informati la credevano una esule tedesca di origini ebraiche, analogamente a Capa, d’origine ebraico-ungherese. Era sì nata sì a Stoccarda nell’agosto 1910, ed era vissuta a Lipsia, ma in realtà la sua famiglia proveniva da quell’area della Galizia che era passata dopo la Grande guerra alla Polonia dando alla famiglia Pohorylle una cittadinanza polacca.
La prima grande qualità del libro è di ricostruire la vita ma soprattutto la complessa epoca di Gerda in quattro grandi affreschi. Il primo è composto dalle origini e dalla rete familiare ebraico mitteleuropea dei Pohorylle, la loro cultura cosmopolita e nel contempo piccolo-borghese, e l’adozione della Germania weimariana come società moderna, ricca di opportunità per tutti coloro dediti al commercio e agli affari. Secondo affresco, la scoperta dell’impegno politico a Lipsia tra circoli giovanili filocomunisti negli anni chiave 1932-33. Terzo grande affresco, la Parigi tra il 1933 e il 1936. Gerta vi arriva nell’autunno 1933, fuggendo alla Germania oramai nazificata, non solo per motivi politici e razziali ma anche alla ricerca di nuove opportunità ed esperienze, con un bagaglio povero ma essenziale per chi come giovane e soprattutto come donna si muoveva in quei tempi: conoscenze linguistiche e una rete di contatti che si allarga nei mesi successivi ai circoli dell’emigrazione antifascista soprattutto tedesca nella capitale francese.
Gerda non fu mai una militante professionista, al servizio di un partito, la politica era da lei vissuta con passione insieme ad amori, incontri, letture, viaggi, in una situazione di grande precarietà e spesso di fame sofferta con la leggerezza di chi aveva vent’anni. La sua vita cambiò nel settembre 1934 quando incontrò André. Irme Schaber mostra con chiarezza che Friedmann-Capa non fu il solo amore e forse neanche il «grande amore» di Gerda, anche se successivamente Capa dichiarò che Gerda era stata il grande amore della sua vita e quindi di riflesso si fa di lui l’«assoluto amore» di lei. Nacque però un sodalizio amoroso, amicale e soprattutto professionale. Gerta diventa Gerda, André si trasforma in Robert. Quest’ultimo trasmette a Gerda le sue conoscenze professionali di fotografo e Gerda mette al servizio di Capa le sue capacità imprenditoriali e le sue conoscenze linguistiche e diviene ben presto anch’essa una fotoreporter.
Gli scatti dal fronte spagnolo
Vivono insieme la Parigi del Fronte popolare trionfante alle elezioni del maggio 36. Ma soprattutto, insieme ad altri giovani fotografi fuggiti al fascismo, come Chim, Namuth e Reisner, vivono la guerra di Spagna.
La Spagna incide profondamente sulla loro esperienza umana e soprattutto modifica la loro professione, perché il mercato delle immagini cambia radicalmente dal luglio 1936. La guerra civile spagnola proietta l’immagine cinematografica e fotografica in una dimensione nuova, politica, propagandistica, di mercato internazionale dominata oramai da grandi testate giornalistiche e da agenzie di stampa. Basta una foto, l’essere sul luogo e al momento giusto, avere coraggio, per fare la fortuna di un fotografo, come accade a Capa con il Miliziano che cade.
Perché Gerda fu dimenticata nel secondo dopoguerra? Nell’ultima parte del volume l’autrice cerca di dare una risposta. Il ricordo familiare scompare: la famiglia Pohorylle, rifugiatasi in Serbia, viene sterminata all’inizio della guerra, la tomba di Gerda creata da Alberto Giacometti al cimitero di Père-Lachaise distrutta durante l’occupazione tedesca. Ma soprattutto diviene difficile l’individuazione di molte foto scattate da Taro: «Per scarsa conoscenza e burocratismo, interessi commerciali e ignoranza, le fotografie che inequivocabilmente portavano il timbro Photo Taro divennero foto di Capa», scrive Schaber, a causa di interventi successivi da parte di agenzie di stampa e persino dell’indipendente Magnum. La sua vita poi fu mitizzata con errori biografici grossolani nella Repubblica democratica tedesca nel tentativo di crearne un modello eroico di combattente comunista per la gioventù comunista.
Il libro di Schaber che viene presentato in questi giorni a Roma e a Bologna è quindi importante perché ci restituisce un profilo di donna e di artista; a volte le indagine introspettive e psicologiche dell’autrice sono un po’ ingenue e forzate, ma il suo tentativo di individuare i soggetti, la messa a fuoco, lo stile, i luoghi delle immagini, l’occhio in definitiva di Gerda, è apprezzabile e rende il volume un bel libro di storia e di fotografia, e in definita rende giustizia alla Taro, e ad altre fotogiornaliste di guerra che l’hanno seguita, come l’associazione «Gerdaphoto» ha fortemente voluto in questi mesi.
uivocabilmente portavano il timbro Photo Taro divennero foto di Capa», scrive Schaber, a causa di interventi successivi da parte di agenzie di stampa e persino dell’indipendente Magnum. La sua vita poi fu mitizzata con errori biografici grossolani nella Repubblica democratica tedesca nel tentativo di crearne un modello eroico di combattente comunista per la gioventù comunista.
Il libro di Schaber che viene presentato in questi giorni a Roma e a Bologna è quindi importante perché ci restituisce un profilo di donna e di artista; a volte le indagine introspettive e psicologiche dell’autrice sono un po’ ingenue e forzate, ma il suo tentativo di individuare i soggetti, la messa a fuoco, lo stile, i luoghi delle immagini, l’occhio in definitiva di Gerda, è apprezzabile e rende il volume un bel libro di storia e di fotografia, e in definita rende giustizia alla Taro, e ad altre fotogiornaliste di guerra che l’hanno seguita, come l’associazione «Gerdaphoto» ha fortemente voluto in questi mesi.

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