di Olga Gambari
TORINO – Eroi, ma quante eroine? L’ eroismo femminile declinato nella mostra Eroi ha le caratteristiche dell’ intimità e della tenacia. Un piccolo ma granitico eroismo quotidiano, che circumnaviga la dimensione autobiografica, trasformando il vissuto comune in forme di resistenza e sopravvivenza universale. Louise Bourgeois, scomparsa un anno fa, ha amato e vissuto molto, percependo senza tregua l’ estrema solitudine interiore che accompagna la condizione esistenziale. In Cell XX del 2000 due teste in stoffa bianca sono racchiuse in una gabbia e raccontano la coppia. Si fronteggiano, una più grande dell’ altra, in una convivenza difficile basata su rapporti di forza, in cui sembrano coabitare l’ amore e l’ odio, la scelta e la dipendenza. Appaiono dio e l’ uomo, il genitore e il figlio, il maschio e la femmina, la madre e il feto, colui che è in qualche modo diverso e il resto del mondo. Soli e insieme allo stesso tempo, come Marina Abramovic nel video The hero del 2001, dedicato al padre. In sellaa un cavallo bianco l’ artista sta immobile, finché le forze la sostengono, reggendo una bandiera anch’ essa bianca, mossa dal vento. Diventa un elemento scultoreo mimetizzato nel paesaggio naturale, unendo il passato al presente, nel ricordo del padre che sarà sempre con lei ma è, ormai, già altrove. L’ immagine di questa amazzone è un simbolo romantico, un vessillo della caducità umana di fronte all’ eternità: il tempo che passa, che spazza via le storie in un unico flusso di oblio. Fragili esistenze che eroicamente, nel loro microcosmo, continuano a essere testimoni. La responsabilità civile della memoria respira anche nel lavoro murale A chaque stencil une révolution del 2007 di Latifa Echakhch. Un blu intenso cola da centinaia di fogli di carta carbone incollati a parete. Le tracce delle parole e dei pensieri scritti e copiati, rimasti come una registrazione, si perdono e diventano liquide, ormai irriconoscibili nelle pozze sul pavimento. Calpestarle sembra un sacrilegio, trasformate in concrezioni di pittura astratta. A volte, invece, c’ è la carne degli individui a ricordare, come la pelle segnata da un hula hop intrecciato di filo spinato che marchia Sigalit Landau nel video Barbed Hula del 2000. Tatuaggi dolorosi su un corpo che diventa politico, luogo di un accadimento che da privato si apre a un senso collettivo. Un’ autoflagellazione a cui l’ artista israeliana fa raggiungere un ritmo ipnotico, in un’ espiazione di qualcosa di commesso e subito insieme, che travolge la sua terra da generazioni. Una fisicità che coinvolge anche il ritratto a olio di Jenny Saville, un’ origine del mondo in cui c’è un corpo che si offre scomposto, eroico nel suo essere spudorato e sincero: senza esibizionismi mostra caratteristiche sessuali femminile, un seno, e maschili, un pene. Un’ identità in transito dal titolo indicativo di Passage 2004-2005. È un’ istantanea che arriva dal desiderio di libertà invocato dalla sessualità di ognuno. Essere se stessi rimane il maggior eroismo possibile, più difficile se si è donna. –