20 Giugno 2015
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Il vestito dell’altro

di Francesca Pasini

Un tour milanese attraverso mostre e opere di questa inizio estate. Incontrando soggettività diverse, mondi vicini e lontani attraverso cui interrogarsi. Perché l’arte è questo.

Anche se non biologico, l’opera d’arte è un soggetto vivente. Una delle sue prerogative è di allontanare l’intersoggettività dal conflitto tra autonomia e dipendenza. Il soggetto-opera, infatti, interagisce attraverso la propria storia “personale” e, soprattutto, rendendo visibili immagini del sé che erano imprigionate. Una specie di “carattere impersonale”, aperto, che ognuno può accogliere perché la figura non è fuori, ma dentro il dialogo tra sé e l’altro. Si determina un “luogo terzo” dove avviene la mediazione per incontrarsi in reciproca autonomia, senza opporsi o separarsi. Le distinzioni agiscono all’interno delle soggettività sprigionando tratti imprevisti del sé che entrano nel dialogo. E questo si rinnova di volta in volta. Il soggetto-opera rimane lo stesso, ma i suoi messaggi e le sue mediazioni cambiano in alleanza con gli sguardi di osservatori e osservatrici.

Questa è la base dell’universalità dell’arte che, da un lato supera il tempo lineare (succede anche di fronte a opere del passato), dall’altro rende visibile la differenza tra uomini e donne, non come opposizione binaria (soggetto – oggetto), ma come un dialogo con l’altro da sé, interno sia all’opera, sia allo sguardo di chi la osserva. In questi ultimi giorni, ho incontrato soggetti con i quali ho stabilito momenti di intersoggettività.
Comincio da “Fashion as Social Energy”, a cura di Anna Detheridge e Gabi Scardi, Palazzo Morando, Milano fino al 30 agosto. La storia riguarda il vestito dell’altro, cioè le tradizioni psicologiche, che si addensano nella pratica estetica di vestire il corpo. Il vestito è la forma più spontanea per assorbire gli scarti emotivi, i segni identificatori, le memorie e la rappresentazione del corpo. Spesso si abbreviano le distanze e si arriva al proverbio “l’abito non fa il monaco” o al suo contrario. Se l’abito è un’opera-soggetto possiamo, invece, cogliere l’emozione di un’alterità che vorremmo provare. È il caso di Luigi Coppola e Marzia Migliora: Io in testa, 2013, (foto di home page, di Francesco Niccolai). Una straordinaria processione di copricapo di carta da giornale, issati su aste, che, dalla classica barchetta dei muratori, si trasformano in “teste”. I tratti somatici sono titoli, foto, articoli. Il giornale è il vestito che indossiamo ogni giorno, ma Io in testa adesso cos’ho? Ho la memoria di una cultura civica, che non sempre affiora dai giornali. Intanto scorrono i treni affollati di Kimsooja, davanti a panni sbattutiti, lavati, strizzati, tinti incessantemente lungo le strade. Siamo a Mumbai, il movimento dei panni corre al ritmo dei treni verso il mercato globale (foto sopra). Un vestito collettivo, che scolora nella disparità. Giro l’angolo e in una vecchia vetrina di legno vedo gioielli, falsi, kitsch, bellissimi, raccontano l’abito che classifica l’etnia rom (Roma Coats -Gypsy Globales). Maria Papadimitriou fa scattare lo sgambetto. L’alterità non trova pace nella bellezza sotto vetro di questi gioielli. La mediazione che offre però mi ricorda che il radicalmente altro, esiste e resiste anche nell’arte.
Un altro abito che ha molto a che fare con l’abitare è il cibo. In questi mesi di Expo è ovunque. Nel documentario/video d’artista Il faut donner à manger aux gens?-  realizzato, nel 2014, da Paola Anzichè e dall’antropologo Ivan Bargna a Douala nell’Ovest del Camerun – è una chiave di contatto con l’Origine con la maiuscola. Mangiare è la prima facoltà dell’abitare. Il focolare lo abbiamo tutti dentro, ma qui lo vediamo nella sua regolarità, povera, precaria, in mezzo a una vegetazione densa, verde, polverosa, interrotta da baracche, veicoli, telefonini. È diversa, ma non così tanto dai brandelli di boschi, di acque, di lagune che ancora esistono dietro la porta delle nostre case. La natura non rispetta confini, continenti: ovunque fascino e paura si ripetono. Ci fanno riconoscere qualcosa, rispetto a forze che invece conosciamo pochissimo. Tutto il film racconta il cibo mentre viene cucinato, cercato, comprato, mangiato. Relazioni, affetti, fame, riti, indicano senza enfasi, con delicatezza, con rispetto, il centro della vita. Che si può fare per l’Africa? Probabilmente nulla. L’Occidente e la sua arte più che trasferirsi là, devono rispondere a una domanda tremenda: mangiare il cibo degli altri (le sue risorse) cosa ha che fare con il centro della vita?
Poi sono andata a Genova e il vestito dell’altro mi ha fatto vedere, qualcos’altro.
Galleria Pinksummer ospita, fino al 31 Luglio, The Icelandic Love Corporation, un trio di artiste che, da quando si sono incontrate all’Accademia di Reykjavík nel 1996, non si sono più lasciate. Il loro baricentro è la performance e il nylon, anzi i collant. Un materiale sintetico, elastico, forte, che alla più piccola smagliatura si disfa. Il “vestito” con cui creano sculture, oggetti, scene, fa cortocircuito con lo stereotipo della seduzione femminile, con la smagliatura sociale, culturale, con l’inquinamento ambientale. È anche un ponte con i “Circoli di Cucito”, dove negli anni ’80 le loro madri mettevano in pratica la relazione tra donne, raccontandosi come vivere e cambiare la vita.  In galleria, una grande parete a strisce di collant colorati, fa da quinta: si passa attraverso e si “va al cinema”. Qui c’è la registrazione della performance Think Less – Feel More. Oggetti, sculture, suoni fanno spazio alla conoscenza emotiva (feel more) più che all’ordine razionale (think less). Sono oggetti disposti a ragnatela, che invitano a tessere la tela della propria soggettività emotiva. Il filo di nylon forte, ma che subisce le smagliature, è il materiale che disfa il binomio “soggetto-oggetto”.
L’ambiente, la storia, le culture hanno prodotto sensibilità sostanziali all’abitare. Oggi siamo spesso dislocati nei “vestiti degli altri”, perché è facile connettersi, ma Michelangelo Consani (Prometeo Gallery, Milano, fino al 31 luglio, a cura di Matteo Lucchetti), tocca una profondità che non si può vivere da lontano. Dall’attrazione per il Giappone ci porta dentro l’influenza dei disastri nucleari, Hiroshima, Nagasaki, Fukushima, ma la storia che racconta è fatta di frammenti, incandescenti eppure “normali”. Come se non fossero dall’altra parte del mondo, ma dentro il mondo. Le Cose Potrebbero Cambiare, dichiara nel titolo. Come? Indossando il vestito di chi ci coinvolge. E così il piccolo video dei maiali che scappano dagli allevamenti dopo lo scoppio di Fukushima ci mostra l’ambigua libertà attuale. Mentre, nel busto dell’agronomo Masanobu Fukuoka, appare quella libertà che può essere garantita solo da se stessi. Per riconciliare l’equilibrio di cultura, scienza, coltura, Fukuoka (1913 – 2008) abbandona la chimica e si dedica a un’agricoltura seguace del Buddhismo Zen. Consani lo plasma in terracotta giapponese, incorpora il vuoto in modo che il volto vecchio, dolce, intenso, sembri appena sospeso sulle spalle. Un meraviglioso ritratto del cambiamento che segna una vita, sprigiona un sé, aperto a un’intersoggettività dove uomini, donne, natura cercano di stare insieme.
(exibart.com, 20/6/2015)
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