28 Novembre 2009
Alias

La chimere dei corpi

di Lea Vergine

Trisha Brown l’ho vista per la prima volta nel 1973 alla galleria milanese di Franco Toselli. Si trattava di un’azione senza alcun tipo di accompagnamento sonoro se non quello delle rincorse, dei salti, della frizione dei corpi, direi tonfi sordi più che suoni… era il periodo in cui la Brown racconta­va: «…negli ultimi cinque anni sono stata associata all’interpretazione di sistemi tecnici che permettessero agli esseri umani di camminare sulle pareti, di scendere da una costruzione di sette piani, di sembrare liberi di cadere oppure di essere sospesi nello spazio neutrale, opere in cui le preoccupazioni principali sono l’anti-gravità e il movimento che si registra in circostanze straordinarie. La mia opera corrente – Accumulazione– comprende esclusivamente movimenti, non frasi, non musica. La struttura dell’opera è rigida, il movimento predeterminato…». La giovane donna americana, con una maglietta e un pantalone di maglina grigia, a volte largo sul corpo e a volte aderente come il suo corpo in sequenze allora scandalose e, comunque, ai (imiti dell’assurdo per l’ossessione di sfidare le leggi di gravità; e l’equilibrio s’affermava e si rompeva di continuo. C’erano tutti i caratteri per inserirla nel libro II corpo come linguaggio. La body e storie simili.
Ma da dove arrivava Trisha Brown? Senza risalire alia danza libera di Isadora Duncan e di Loie Fuller è d’obbligo ricordare quella modern dance per cui ebbe meritato successo la celeberrima coreografa Marma Graham. Dopo l’altrettanto straordinario Mercé Cun-ningham, da poco scomparso, con la sua new dance esplode, di seguito, la post-modern dance con Trisha Brown e Simone Forti, Jo-an Jonas, Yvonne Kainer e, se non sbaglio, sporadicamente anche Meredith Monk.
Giustamente nel depliant di presentazione si legge che la Brown inventa «un nuovo linguaggio contrapposto alle stilizzazioni del balletto moderno… la sua danza è un flusso inarrestabile di corse sospese, cadute improvvise, slanci giocosi, prese schivate; il movimento è in costante attività, in una estrema fludità di tutte le parti del corpo»; e si ricordano tappe significative della sua carriera quando crea nel 1978 Water’moiore nel 1983 Set and Reset, dove «il corpo disarticolato si lancia in diverse direzioni e tutto è strutturato nello spazio da forme su cui la coreografa ha lavorato nel decennio precedente; la linea, l’onda, l’eco, il doppio, lo specchio, lo sfasamento, l’armonia». Nel 1986 è invitata a curare la coreografia di Carmen, regista Lina Wertmuller, in scena al San Carlo di Napoli. Dal 1981 aveva utilizzato composizioni musicali come quelle di Laurie Anderson e lavorato in collaborazione con artisti minimal quali Donald Judd. Nel 1995 lavora su Bach e poi su Anton Webern. Si segnala, nel 1998, per un Orfeo di Monteverdi nel quale «fa danzare i cantanti e volare i danzatori». E poi ancora mette in scena Salvatore Sciarrino e, inoltre, si dedica anche al disegno. Un uragano…
Per il Festival Red (Reggio Emilia Danza) si è assistito, nella enorme sede per tre piani della Collezione Maramotti a Reggio, alla prima esclusiva in Italia, realizzata con la collaborazione della Max Mara e dell’Associazione Teatrale Emilia Romagna, di sei coreografie della Brown (dal 1970 al 1973), i famosi Early Works eseguiti da sette ballerini (si può definirli cosi?) della compagnia di danza da lei fondata. Negli spazi Maramotti, dove è visitabile gratuitamente la prestigiosa collezione suggerita e, talvolta, scelta da quello straordinario poeta e studioso che è stato ed è Mario Diacono, si sono rivisti, dopo circa quarant’anni, i lavori un tempo interpretati personalmente dalla Brown.
Scenografia quindi particolarissima: di qui una tavola con frutta di Mario Merz e di là il gigantesco libro-scultura di Anselm Kiefer, da una parte Matthew Bamey e dall’altra Mimmo Paladino, Gerhard Richter e Claudio Parmiggiani fino agli ultimi acquisti Kelley Walker e Jessica Stockholder.
Due esecutori, imbracati in una serie di panni inseriti su di una gratìcola di corde, si abbandonano inerti tenuti dalle stoffe; altri sembrano esercitarsi lungo un asse di legno; sotto la barca di Parmiggiani alcune fanciulle ripetono movimenti sincroni, sdraiate per terra; e così via. Ma questi piegamenti, torsioni, contorcimenti, gesti tra dottrina Zen e palestra, sembrano non scioccare più nessuno. Perché? Ci si chiede se anche per la Brown, carismatico e sulfureo personaggio, come per Carmelo Be­ne, per fate un esempio nostrano, l’emozione, lo sbigottimento, Hfrisson non scaturissero dalla loro stessa presenza. Come qualche cosa che, senza l’autore, cambia, perde tensione e resta irripetibile.
C’è però un pezzo intitolato Spanish Dame con la musica di Bob Dylan che dura quattro minuti: le interpreti sia addossano le une alle altre sino a fermarsi davanti a un muro. Difficile da comunicare detto così. Ma ecco che in quest’ultimo pezzo, misteriosamente, l’idea che sottende la rappresentazione riesce a destare la partecipazione appassionata del pubblico.
Due ore dopo, al Teatro Valli, ogni remora si dissolve, ogni sensazione di esercitazioni inerti o dì déjà vu scompare. Sarà il palcoscenico (la giusta distanza nonostante tutto), le luci, la musica, chissà! I tre brani appartengono all’ultima produzione della Brown. Rapiti dalle creature platoniche tutte tese in movimenti scolpiti nella più effimera delle materie quale lo spazio, gli spettatori ristanno a mirare la cerimonia visiva che ha un’evidenza e un’intensità specifca dal momento che presenta una danza assolutamente non convenzionale anche rispetto alla produzione contemporanea.
Queste chimere corporee, queste tante «figure del corpo», sono figure musicali il cui accumulo, e poi scioglimento, dà la significanza che sono, del corpo, a volte metafora, a volte annullamento o scomparsa. Si determina una simultaneità visionaria contratta, una «meravigliosa serenità» che è come un desiderio mentre i gesti dei danzanti, spesso simili ai «gettati» strumentali, assumono rilievo rispetto ad ogni altro elemento.

 

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