17 Ottobre 2009

La signora degli oggetti cattivi


Da Venezia a Parigi, da Vancouver a Torino, Mona Hatoum, artista palestinese, traduce in minacce quotidiane i drammi del mondo
di Adriana Polveroni


Mona Hatoum, artista palestinese nata a Beirut nel 1952, è una donna tosta. Senza dubbio intransigente, ha uno sguardo che pare osservare da una “giusta distanza” il suo passato, il mondo dove vive, anche la sua arte, che, sebbene fedele a precisi criteri, in 30 anni è anche molto cambiata. La fedeltà risiede nel mantenere ferma la tonalità ambigua che pervade le sue opere e nell’attenzione all’idea del conflitto. Che è soprattutto intimo, e si è espresso all’inizio attraverso il corpo (i video tratti dalle performance anni ’80), poi in allestimenti in cui protagonisti sono diventati gli oggetti. Banali, come scolapasta e grattugie, ma ingranditi a tal punto da apparire alieni. Oppure alterati dalla presenza di altri oggetti fuori luogo: zerbini di benvenuto puntellati di aghi, cucine ingabbiate da filo spinato. Come se per comunicare occorresse varcare quelle maglie in filo spinato, appoggiare i piedi su tappeti chiodati: e i rapporti normali diventano molto rischiosi, evocando costantemente la possibilità che il familiare si trasformi in qualcosa di minaccioso, diventi, da rassicurante, perturbante. Dove, in filigrana, si legge l’instabilità, la fragilità della nostra epoca. Sentimenti vivi e pungenti come gli aghi dei suoi tappeti. Ma Mona Hatoum, con piglio assai più leggero (lei la chiama la “componente surrealista” del suo lavoro, accanto “al minimalismo, al concettualismo, a molta arte a me contemporanea”) racconta anche di corpi, o parti di essi, defunzionalizzati. Apparentemente buffi, ma altrettanto perturbanti: collane di capelli, graziosi triangoli pubici fatti di peli appoggiati su una sedia che paiono fare il verso a Magritte. Mette in opera dei cortocircuiti dai quali emerge lo straniamento, un senso di non appartenenza sempre più diffusi anche per i flussi migratori caratteristici del nostro mondo. Lo fa con eccentriche combinazioni che rielaborano il sentimento dell’esilio, vissuto per lei assai acceso, visto che nel ’75 quand’era casualmente a Londra, non poté più far ritorno a Beirut perché intanto era scoppiata la guerra civile. Da tanti anni la Hatoum ha rovesciato la condizione di esiliata “in positivo”, diventando cittadina del mondo, invitata da musei, istituzioni internazionali. Si è appena conclusa una sua mostra alla Querini Stampalia di Venezia, ne ha due in corso alla Fondazione Merz di Torino e alla galleria Continua di S. Gimignano e il 24/10 inaugura una personale in un museo privato a Vancouver, la Rennie Collection. A novembre sarà in residenza al Mac/Vai, vicino a Parigi, e nel 2010 ne avrà un’altra, a lei molto gradita, al Beirut Art Center.

 


La sua storia personale spesso si sovrappone al suo lavoro. Che legame c’è veramente tra queste due realtà?
“Si tende a leggere il mio lavoro artistico attraverso la lente del mio passato: ma è una regola che vale per tutti, chiunque interpreta il mondo a partire dalla propria esperienza. Non esiste qualcosa come una realtà oggettiva. Non c’è dubbio che l’esperienza modelli il mio modo di vedere il mondo, ma a me non interessa illustrare tali processi, né razionalizzarli. Il dato biografico entra nel mio lavoro in maniera inconscia”.

 


Sono passati anni da quando è andata via da Beirut: qual è oggi il suo approccio alla realtà politica della Palestina?
“Nella mia vita quotidiana c’è sempre la presenza della Palestina: non è sempre esplicita, mi sento più coinvolta dalla dimensione psicologica che da precisi fatti storici accaduti”.

 


Si sottolinea spesso la componente femminista del suo lavoro, la cultura post-coloniale, in qualche modo la globalizzazione. Ma, soprattutto, nell’immaginario artistico contemporaneo lei incarna l’essere straniera. Si riconosce?
“L’essere straniera è qualcosa che si avverte sempre nel mondo in cui si vive: si percepisce nel mio lavoro, credo, ma non solo perché “tutto il mondo è una terra straniera”, come dice il titolo di un libro di Edward Said che mi ha influenzato molto. La psicologia dell’esilio produce una sorta di dislocamento e può capitare che il significato d’un oggetto non sia più chiaro, o che oggetti molto familiari diventino minacciosi, forse perché c’è un trauma associato a essi”.

 


Si riferisce alla casa, all’esperienza domestica?
“Sì, anche. La casa, che è il luogo dove si svolgono soprattutto le funzioni materne, quindi un luogo protettivo, si può trasformare anche in una trappola, in una prigione”.
Pensa alla cultura araba, dove la donna vive in uno stato di sottomissione?
“Niente affatto, tale realtà riguarda tutte le donne, e forse più in Occidente che altrove, perché lì la tecnologia può essere molto pericolosa. Invece spesso sento dire: “questo non ci riguarda”, come se la violenza, l’essere controllati appartengano al mondo arabo. In Occidente l’architettura per le classi meno abbienti esercita un controllo programmatico. In Palestina no, l’architettura è più fluida, anche organica, non agiscono dispositivi di regolamentazione”.

 


Lei ultimamente mette il corpo, con il quale ha lavorato molto, più in secondo piano. Come mai?
“Il corpo che più mi interessa coinvolgere nel mio lavoro non è il mio, ma quello dello spettatore: l’interazione col pubblico, dove ciascuno ha reazioni diverse, mi attrae di più”.

 


Uno dei suoi temi forti è l’ambiguità, la casa-trappola va in tale direzione. Ma colpiscono molto le immagini belliche che emergono da una lanterna magica, le granate che ha realizzato in vetro di Murano con colori trasparenti, belli.
“Volevo far vedere qualcosa di affascinante, sensuale: e che si riconoscesse la vera natura dell’oggetto solo in una fase seconda guardandolo attentamente, il che non si fa spesso”.

 


Pensa che la guerra, la violenza possano essere attraenti?
“No, almeno per chi si trova dalla parte sbagliata. Penso che al fondo della guerra ci siano sempre ragioni economiche”.

 


A proposito di soldi, come giudica gli artisti che vanno nei territori di conflitti, o disagiati, e scattano foto, girano video che poi rivendono a caro prezzo nelle fiere mondiali?
“Penso che il messaggio sia in fondo la cosa meno importante nel lavoro artistico: quello che conta di più, secondo me, è il linguaggio”.

Print Friendly, PDF & Email