Milano, venerdì 9 marzo 2012. A distanza di sei anni da “Balkan Erotic Epic” all’Hangar Bicocca, Marina Abramovic torna nel capoluogo lombardo. Tra undici giorni si apre “The Abramovic method”. Al PAC, l’artista sta seguendo l’installazione dell’intero percorso. L’abbiamo incontrata.
Marina Abramovic (Belgrado, 1946; vive a New York) è arrabbiata. Accanto al suo ritratto, sulla copertina di Io Donna, saranno pubblicate queste frasi: “Sono un’artista estrema, con il corpo pieno di cicatrici provocate dalle mie performance. Ma sono sexy e quando amo lo faccio con tale intensità da non riuscire a respirare. Ora però non ho tempo per un nuovo uomo e sapete cosa mi piace moltissimo? Collezionare case”. Marina è incredula, delusa. “Quella non sono io”, afferma l’artista. Ecco dunque, per Artribune, Marina Abramovic: quella vera.
Che cosa si intende per method?
Ritengo di trovarmi in una nuova terza età della mia vita. Sento di avere abbastanza esperienza e conoscenza per creare, per giovani generazioni di artisti e per il mio pubblico, un percorso chiamato The Abramovic method. È un progetto che non ho potuto realizzare prima perché ho dovuto, nel tempo, raggiungere e acquisire il giusto sapere per attuarlo. Solo oggi posso delineare un sistema composto da diversi esercizi attraverso i quali prepararsi a interagire con oggetti caratterizzati da determinate energie, con minerali oppure con magneti. Elementi attraverso i quali raggiungere una speciale condizione psichica. Un nuovo stato mentale.
Viviamo in una società molto disturbata, abbiamo perso il nostro centro. La tecnologia ha preso il posto di tutto per noi. Non siamo più in contatto, con la telepatia, con le frange più estese della percezione o con i sogni che spesso vengono interrotti da sonniferi, dalla televisione, dall’alcool o dalle droghe. Anche la nostra relazione con la natura è disturbata e il problema più grande riguarda il fatto di non avere tempo per stare con se stessi e niente altro. E questo sta diventando sempre più cronico nella nostra società.
All’interno dell’Abramovic method sarà possibile vivere esperienze composte da molte sfaccettature. Se qualcuno mi affiderà il suo tempo, io lo trasformerò in esperienza. Quando il pubblico arriverà al PAC, dovrà disfarsi di ogni gadget. Niente computer, cellulari, iPhone, orologi. Ognuno dovrà affidarmi tre ore della sua giornata. E solo alla fine, quando si sarà fatta esperienza del metodo, solo allora si tornerà nel mondo, portando con sé qualcosa di speciale.
In che senso si può affermare che gli occhi di Marina Abramovic sono diventati specchio emotivo per la gente?
Mi sono serviti tre mesi di tempo al MoMA per essere incondizionatamente lì, presente per il pubblico. Ogni volta che volevano, dovevo essere vulnerabile e solo per loro. In questo modo ho fatto sì che il pubblico non fosse più considerato come un gruppo, ma avesse il tempo e lo spazio per rappresentare la propria individualità. La performance consisteva nell’avere sedute di fronte a me persone singole. Individui che potevano rimanermi vicino senza limiti di tempo, anche un giorno intero se fosse stato necessario. Essere a disposizione come artista e dare loro il mio amore incondizionato a completi estranei mi ha fatto vivere l’esperienza di essere lo specchio delle loro anime e di loro stessi. In quel momento io non ero più me, il tempo non riguardava più me medesima. Io ero solo un tramite del loro essere-con-se-stessi.
Parlando di The Artist is present al MoMA, che cosa, a tuo parere, la parola nasconde o cancella nel comunicare? E in quale senso il silenzio è fondamentale?
Perdiamo sempre troppe energie a parlare senza dire nulla di importante. Spesso parlare ci allontana, ci difende dallo stare semplicemente con noi stessi. Quando rimango in silenzio, di fronte a una persona a me completamente estranea e comincio a guardare nei suoi occhi, è come aprire una porta su un’altra realtà. Al MoMA, un giorno, ci fu un uomo che rimase sette ore. Cominciammo a sederci l’uno di fronte all’altra la mattina e finimmo la sera, senza mai scambiare una parola. Dopo quell’incontro, ne avemmo altri 20. Di volta in volta, si tatuò sul braccio 21 numeri, come una traccia della sua performance. Senza sapere nulla di lui, ho cominciato a guardare quell’uomo e a conoscerlo in un modo così intimo che non mi sembrava di aver mai compreso tanto nemmeno un membro della mia famiglia. Dopo che la performance terminò, ovviamente, lo incontrai. Fu la cosa più difficile al mondo parlargli senza poter cominciare la conversazione con domande del tipo “chi sei?” o “come stai?”. A tutti gli effetti quell’uomo era un completo estraneo eppure, per quel che era intercorso, lui, per me, non lo era affatto.
Cos’è dunque la verità nella performance?
La verità nella performance è la verità della performance in sé. Se il performer non è presente a se stesso, e dunque non aderisce come un tutt’uno alla propria mente e al proprio corpo, in un determinato spazio e tempo, allora la performance non potrà essere valida. Il pubblico lo sentirà immediatamente, comincerà a perdere attenzione e poi ad andarsene. Il performer deve avere la forza necessaria della consapevolezza. Energia utile a far percepire una presenza che non può concedersi, né altrove né al di sotto di una totalità. Solo allora sarà possibile riportare l’attenzione del pubblico in un solo punto per forgiarla a quel preciso istante. Quando lo spettatore sarà, con la propria mente e con il proprio corpo, nello stesso luogo e nello stesso tempo del performer, allora potrà avvenire una sorta di scambio di energie. E il tempo non esisterà più.
Nel presente il tempo non esiste. Il tempo vive nel passato e nel futuro perché è lì che lo possiamo pensare. Ma nel presente, quando sei completamente nell’hic et nunc, non c’è tempo. Appena sussiste la giusta energia, l’audience entra nello spazio senza tempo del performer e finalmente l’esperienza trasforma la vita in verità. È ugualmente difficile, semplice e immateriale arrivare a un punto in cui la vita diventa così vera da superare il reale.
Una volta hai affermato che il pubblico può ucciderti, parlando di Rhythm 0 (1975).
Com’è cambiata o è evoluta in te questa idea?
All’inizio, quando facevo esperienza dei diversi tipi di performance, era fondamentale cercare di capire tutto quel che poteva succedere avendo il pubblico vicino. In Rythm 0 il pubblico interagiva con me attraverso 72 oggetti. Mi facevo scrivere, incidere e ogni persona aveva il diritto di fare qualsiasi cosa con me. Di fatto ero diventata un oggetto anch’io, il 73esimo, proprio come quella pericolosissima pistola con il proiettile all’interno. Ecco perché alla fine ho potuto affermare che il pubblico avrebbe potuto uccidere. Ma adesso ho capito che il mio compito è diverso, ora posso elevare lo spirito umano e non mortificarlo. Ora dono tutto il mio amore incondizionato al mio pubblico, che ricambia con il suo amore incondizionato. Ora ho cambiato prospettiva, solo perché ogni mio progetto ha e ha avuto intenti diversi. Ora sono nella fase in cui infondo amore incondizionato.
Come l’arte ha cambiato il tuo corpo?
La mia vita non cambia l’arte. È la mia arte a cambiare la mia vita. Nella mia vita avrei potuto avere tutto più facilmente, se solo avessi chiesto di meno. Se solo, ad esempio, fossi stata più pigra, o avessi speso tutto il mio tempo tra libri, passeggiate all’aperto e pessimi film alla televisione. Ma non avrei fatto nulla di quel che ho fatto fino ad oggi. Io creo sempre concept che sono difficili, duri e dai quali io stessa sono molto spaventata. E nel momento in cui li realizzo, ognuno di loro mi cambia la vita. Le cose che non conosco, le cose che temo, quelle difficili finiscono per contare veramente. Nella vita reale la gente va incontro a tragedie tremende, a malattie e sofferenze che portano vicino all’esperienza della morte. Queste sono situazioni che cambiano la vita. La felicità non cambia la vita di nessuno: è uno stato che non si vuole mai alterare. Ecco perché io metto in scena difficoltà e momenti pericolosi: per superarli e infine liberarmi delle paure. Come una sorta di catarsi.
Da questo punto di vista sono interessanti le due mostre che sto per inaugurare: una qui al PAC e l’altra, in parallelo, da Lia Rumma (With Eyes Closed I See Happiness). Al PAC il pubblico verrà edotto sull’Abramovic method e su come questo possa cambiare la loro stessa vita. Mentre da Lia Rumma potrò mostrare al pubblico cosa sta succedendo a me e a che stadio della mia vita io sia. Sarà un percorso fatto di fotografie, ritratti con gli occhi chiusi, perché la felicità viene dall’interno e non dall’esterno. Inoltre, per la prima volta nella mia vita, ho creato una sorta di scultura tridimensionale, che rappresenta la mia testa di cera trafitta da differenti cristalli. È una sorta di healing experience sculpture, perché rievocherà la potenza guaritrice dei cristalli. Inoltre, al PAC ci sarà una sedia sulla quale ognuno si potrà sedere avendone accanto una più piccola, creata per lasciare riposare il proprio spirito. Questo secondo progetto proviene e, in un certo senso oltrepassa, The artist is present, mostrando un altro tipo di lavoro sul corpo.
Come la tua famiglia ha influenzato la percezione del tuo corpo di fronte al mondo?
Ho avuto una famiglia davvero difficile e un’infanzia altrettanto difficile. È stato molto duro combatterli e opporre loro resistenza, ma questo mi ha reso più forte. Quando ho cominciato a realizzare le mie performance nella ex Jugoslavia, ho dovuto fronteggiare la mia famiglia. Specialmente mio padre e mia madre, che mi criticavano direttamente e continuavano a chiedersi quale tipo di educazione mi avessero dato, che cosa mi portasse a tagliare il corpo o a bruciare la stella comunista a cinque punte. Il mio intero percorso è davvero cominciato contro tutto e tutti. I mie professori, all’accademia, sostenevano che dovevo essere internata in manicomio, perché quella che io facevo non era arte. Io apparivo come una specie di nonsense. Sono dovuti passare anni e anni. Venti, trent’anni per riuscire a far capire che la mia era arte, pratica accolta, in fondo, solo negli ultimi dieci anni al massimo. Andare contro ogni aspettativa e ogni credo rende più forti. Soprattutto quando si sfidano le regole del mercato. Nella performance non c’è merce, non c’è un prodotto da vendere, tutto deve rimanere immateriale, non fisico. Anche se esistono foto, video-installazioni e oggetti legati al momento della performance, questa deve comunque continuare a essere la forma d’arte più immateriale che esista.
Marina Abramovic in versione Beuys
Si può affermare che il tuo corpo rappresenti il limite e non solo un limite?
Credo che tanto il corpo fisico abbia un limite quanto la mente che lo abita non ne abbia. Credo che il mio attuale lavoro sia concentrato sulla mente, tanto perché essa si presenti sempre come illimitata, quanto perché, attraverso il mio percorso, ho capito cosa sia il corpo. Se si chiudono gli occhi, in meno di tre secondi si può essere ovunque si voglia. Non ci sono limiti né di tempo, né di spazio né di dimensione. E questa è la più logica testimonianza, la più diretta intuizione di tutto il mio lavoro.
Ci spieghi la tua decisione di rimettere in scena lavori di altri performer (includendo Beuys, Nauman, Acconci e perfino te stessa)?
La decisione è stata presa al di fuori di ogni schema. La performance è una no mainstream art, proprio come lo erano il video e la fotografia. Terre di nessuno. Spesso, se si guarda alle performance degli Anni Settanta, Ottanta e Novanta, oggi se ne ritrovano elementi nella moda, nel design, nel teatro, nella danza, nella pubblicità, ma degli artisti che le hanno realizzate non se ne conosce più nemmeno il nome. Bisogna ricreare quelle performance per tornare a porre l’attenzione su chi le ha ideate e sull’origine di un certo tipo di percorso. Anche i critici devono capire che alcuni giovani artisti non fanno altro che copiare senza prendere alcuna conscia ispirazione da chi ha fatto la storia della performance.
Il mio è quasi un dovere: il miglior modo per mantenere in vita i lavori di Beuys o Acconci è renderli nuovamente performance. Così ho ripreso anche performance alle quali non ho assistito ma dalle quali sono sempre stata affascinata e le ho fatte diventare una sorta di omaggio cosciente. Per prima cosa, infatti, ho chiesto permesso all’autore o, in caso di morte, alla fondazione degli artisti stessi. In secondo luogo, il nome dell’autore originale compare sempre nella performance che rievoco. Ho ricevuto molte critiche per questo tipo di progetto. Eppure credo che sia da egoisti vietare di rimettere in scena vecchie performance: chi si oppone ne nega la sua formale natura vivente.
Potresti descriverci il futuro della tua fondazione, disegnata da Koolhaas?
The Center for the Preservation of Performance Art sorgerà a Hudson, New York, e sarà una mia sorta di eredità, un’istituzione che conserverà anche la memoria delle performance che propongo. All’ingresso, ogni visitatore vestirà una sorta di camice che gli servirà per assistere a diversi tipi di esperimenti. La gente potrà sdraiarsi su apposite sedie fornite di ruote e visionare le performance attraverso speciali schermi oculari. L’edificio è stato pensato su due livelli, all’interno si potrà mangiare e persino dormire. Al centro verrà costituita una sorta di rampa, the sleeping arena, un’apertura. Così, dall’alto, si potrà assistere alle attività al piano terra, facendo diventare i dormienti parte della performance. Inoltre ci sarà un Educational Department, una biblioteca, ci sarà la stanza per la meditazione, la stanza dei minerali e persino la stanza dei magneti. All’interno verrà insegnato non solo l’Abramovic method, ma verranno accolti progetti di artisti e autori che producono lavori di lunga durata (come David Lynch). Questi tipi di lavori che si spingono nel tempo sono la chiave per la trasformazione, tanto per lo spettatore quanto per il performer. Un accesso reale per una nuova dimensione.
Qualche anticipazione del tuo tour in Sudamerica?
Al momento ci sono due tipi diversi di progetti che verranno realizzati nel 2014. Come sai, sto lavorando con i minerali e vorrei continuare su questa linea. Un mio lavoro verrà attuato su un terreno brasiliano di una foresta centenaria, una riserva privata nella quale animali, minerali e piante rare sono inviolabili. Sarà un privilegio per me, perché i visitatori, a qualche chilometro da San Paolo, potranno sperimentare l’Abramovic method nella natura. Poi, con Eugenio Viola, proseguiremo questo stesso tour che cominceremo in Colombia, per poi proseguire in Perù, Argentina per poi tornare alla Pinacoteca di San Paolo. Il Sudamerica ha questa caratteristica: dal sottosuolo provengono i minerali che io utilizzo per le mie performance e che io, attraverso i miei lavori, riporto al luogo d’origine. Per me è molto importante questo tour, seguito da un giovane curatore, perché sono molto interessata al fatto che il mio lavoro viva, venga tradotto e venga trasmesso alle giovani generazioni.
Ginevra Bria
Milano // fino al 10 giugno 2012
Marina Abramovic – The Abramovic Method
a cura di Diego Sileo e Eugenio Viola
PAC
Via Palestro 14