1 Ottobre 2008
il manifesto

L’arte di Claude Chaun tra la vita e la scena

 

Riscoperta negli anni ’90 dopo un lungo oblio, l’opera dell’artista francese è ora al centro, in Italia e fuori, di un nuovo lavoro di scavo. Che tenta di ricostruire il senso più profondo di un progetto radicale, indifferente all’ordine di qualsiasi classificazione.


di Antonello Frongia

Di cosa parliamo quando parliamo di Claude Cahun? Fotografa surrealista negli anni ’20 e ’30, riscoperta da Rosalind Krauss e Jane Livingston nell’importante mostra del 1985 L’amour fou. Photography and Surrealism , ha cominciato a essere studiata a fondo all’inizio degli anni ’90, grazie al lavoro di scavo del poeta e storico francese François Leperlier, che ne ha ricostruito le vicende artistiche e biografiche. Da allora Cahun è divenuta un caso dibattuto nella storiografia femminista e nei gender studies , soprattutto in riferimento a quello che appare il tema dominante della sua ricerca: l’autoritratto en travesti come messinscena performativa del corpo, della propria caleidoscopica identità, del limite incerto tra vita e arte. Oggi le sue fotografie fanno parte delle maggiori collezioni museali e sono oggetto di una messe di libri e dissertazioni. E il suo personaggio androgino, con i capelli corti che contraddicono i grandi occhi malinconicamente infantili, è divenuto addirittura un modello per i giovani artisti. Questo slittamento interpretativo – che dal surrealismo ha portato Cahun nell’attualità del gender-bender – è ora utilmente tracciato da Clara Carpanini in Vedermi alla terza persona. La fotografia di Claude Cahun (Editrice Quinlan), il primo studio in italiano interamente dedicato all’artista francese, che fa seguito al recente inquadramento proposto da Federica Muzzarelli nel volume Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra Otto e Novecento (Atlante 2007).

Provocatorie incertezze
Uno dei pregi di Vedermi alla terza persona è quello di suggerire un percorso di lettura dell’opera fotografica di Cahun – dalla new woman degli anni ’20 al Surrealismo negli anni ’30 – senza tentare di costruire un quadro interpretativo totalizzante. Se, come ha scritto Camille Paglia in Sexual Personae , «tutta l’arte, in quanto culto dell’oggetto nella sua autonomia, è una fuga dalla liquidità», il problema posto dall’opera di Cahun è proprio quello di un’arte radicale che rimane indifferente all’ordine (maschile) delle classificazioni. Forse non è un caso che in alcune fotografie conservate nel suo archivio, che documentano una riunione surrealista del ’36, un riquadro a matita sia intervenuto a escludere l’artista dalla rappresentazione ufficiale del consesso, nella quale spicca la figura iconica di Breton. La sostanziale estraneità di Cahun rispetto ai guerreschi schieramenti delle avanguardie si misura a partire dalla sua vicenda biografica. Nata Lucy Schwob nel 1894 a Nantes da una famiglia di intellettuali – lo zio era lo scrittore simbolista Marcel Schwob, amico di Gide, Verlaine, Oscar Wilde e Alfred Jarry, che gli dedicò Ubu Roi – Cahun studiò a Oxford e alla Sorbonne, iniziando giovanissima a occuparsi di letteratura e politica e dando forma, attraverso lo pseudonimo, a un alter ego ambivalente e androgino. A Parigi, dove si trasferì all’inizio degli anni ’20 con la compagna, sorellastra e artista Suzanne Malherbe ( alias Marcel Moore), Cahun prese parte alle controversie artistiche del movimento surrealista. Inizialmente vicina all’Association des écrivains et artistes révolutionnaires, fondata dal Partito Comunista, nel ’34 pubblicò Les paris sont ouverts , un polemico pamphlet trotzkista contro la politica culturale del Partito e la «letteratura proletaria» di Louis Aragon, e si unì nel 1935-36 al gruppo Contre-attaque di Bataille e Breton. Nel ’38, fra i timori per il clima antiebraico instauratosi a Parigi, Claude Cahun e Marcel Moore si trasferirono in una proprietà di famiglia sull’isola inglese di Jersey, nel Canale della Manica. Sotto l’occupazione tedesca, dal ’40 al ’45, Schwob e Malherbe furono al centro della resistenza clandestina, diffondendo fogli antinazisti e dando asilo a un prigioniero ucraino fuggito dai campi di lavoro. Arrestate nel ’44, furono condannate a morte, e in prigionia, in nome di un patto condiviso, tentarono il suicidio. In seguito la sentenza venne sospesa e alla fine del conflitto furono liberate. Continuarono a vivere sull’isola, nella casa restituita dopo la confisca e il saccheggio dei nazisti. Claude Cahun morì nel 1954 in uno stato di debolezza fisica e psichica, circondata dal silenzio; Malherbe nel 1972, dopo aver tentato invano di donare alla Bibliothèque Nationale l’archivio personale della sua compagna. In realtà lo sfondo biografico dell’avventurosa vita di Claude Cahun funziona come i teli stesi in molti suoi autoritratti, che contribuiscono a definire un provvisorio campo d’azione e a inquadrare la fisionomia del personaggio, ma non occupano mai completamente l’immagine. Una delle sfide poste dall’opera di Cahun è proprio la provocatoria incertezza che introduce tra il mondo della vita e quello della rappresentazione. Benché per trent’anni Cahun abbia lavorato insistentemente sulla messinscena teatrale e sulla moltiplicazione delle sue personae , di rado ha reso pubbliche le sue immagini in mostre o pubblicazioni. Nel ’30 un suo autoritratto apparve sulla rivista Bifur , mentre dieci fotomontaggi firmati «Claude Cahun e Marcel Moore» apparvero a corredo di Aveux non avenus , una sorta di antiromanzo della stessa Cahun con una introduzione di Pierre Mac Orlan. Nel ’36 l’artista partecipò con alcune sculture alla Exposition surréaliste d’objets alla galleria Charles Ratton (per la quale Breton la incaricò di scrivere il testo critico). Nel 1937 apparve la sua ultima pubblicazione prima dell’esilio da Parigi: una serie di fotomontaggi a corredo di Le Coeur de Pic , un libro di poesie di Lise Deharmes. L’archivio fotografico di Cahun, praticamente inedito, riemerse fortunosamente solo negli anni ’70, quando un appassionato di surrealismo, John Wakeham, acquistò a un’asta, per poco più di venti sterline, due lotti di fotografie, lettere, libri (con dediche di Breton e Aragon) e un disegno di Michaux.

Un accordo messo in dubbio
Come per Eugène Atget, che in vita accumulò migliaia di fotografie senza pubblicare quasi nulla, anche per Cahun il problema è oggi ricostruire il senso più profondo di un’opera liquida, fatta di indistinzioni e di travasi, che rifiuta di identificarsi nella forma chiusa del singolo oggetto fotografico o nelle parole-chiave delle avanguardie storiche. In questo senso, molto lavoro resta da compiere perché il corpus completo delle ricerche di Cahun possa essere considerato nella complessità che compete a un progetto di vita. Tra i materiali conservati nel Jersey Archive compaiono non solo gli autoritratti, ma anche una quantità di soggetti meno attuali: fiori, paesaggi, composizioni di oggetti e scene di vita quotidiana, come quella di Cahun che conduce al guinzaglio il suo gatto. Dubbi, inoltre, permangono rispetto a una parte dell’archivio, censurato e distrutto dai nazisti al momento del suo arresto.
Ancora controverso, peraltro, rimane il ruolo intellettuale avuto da Suzanne Malherbe/Marcel Moore, che di molte fotografie è l’autrice materiale. Tutti questi elementi contribuiscono a tenere aperta la riflessione su una artista che la critica contemporanea ha spesso teso ad attualizzare entro la contrapposizione tra arte modernista e postmoderna. La riscoperta di Cahun ha coinciso negli anni ’90 con quella di Lady Clementina Hawarden e di Virginia Oldoini (la Contessa di Castiglione), fotografe «private» che come Cindy Sherman, attraverso l’insistente messinscena del (proprio) corpo femminile, hanno minato alla base due stipulazioni consolidate dell’approccio classico: l’autonomia formale del soggetto fotografico e il gentlemen’s agreement che lega l’autore e lo spettatore. Ma forse, al di là delle dispute teoriche, in Cahun c’è stata più consapevole malinconia che militante avanguardia: la sua insistente ripetizione dell’io disegna in sbalzo il riconoscimento del non-io, la ricerca di una soggettività al di là di quelle che lei chiamava «le maschere perfette».

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