8 Aprile 2009
la Repubblica

L’artista in fuga dai nazisti a censurati dai comunisti

 

di Barbara Casavecchia


Al muro è schierata una miriade di piccoli corpi grigi decapitati, in piedi, braccia lungo i fianchi, impercettibilmente diversi. Sono i Bambini con cui Magdalena Abakanowicz accoglierà i visitatori: 90 figure in ceramica vulnerabili e minacciose, perché «tutte le moltitudini sono senza testa. Hanno reazioni pericolose, da organismi senza cervello». Tra fantasia e inquietudine, del resto, e sfruttando in modo originale i media più diversi, dalla morbidezza arrendevole dei tessuti alla durezza dell’ acciao corten, si è sempre sviluppata la ricerca di Abakanowicz. Che ha una biografia da romanzo d’ appendice. Classe 1930, figlia di un’ aristocratica polaccae di un nobile russo di origini tartare (discendente del mongolo Abaka-Khan, pronipote di Gengis), cresce in campagna tra domestici e precettori, fino all’ invasione nazista del ‘ 39. Si rifugia a Varsavia (dove vive tuttora), e con l’ avvento del regime comunista nasconde le proprie origini per accedere agli studi. All’ Accademia, la sua passione «politicamente scorretta» per l’ arte astratta viene punita con sfilze di zero in pagella, e la sua mostra d’ esordio (nel 1960) viene chiusa a poche ore dall’ inaugurazione. Scomoda anche la posizione del marito Jan, che diventerà leader di Solidarnosc. Eppure, nulla di tutto ciò le ha impedito di rimanere legata al proprio paese, di perseguire con ostinazione la carriera, di insegnare (all’ Accademia di Belle Arti di Poznan e all’ UCLA), di viaggiare ed esporre in tutto il mondo. La mostra alla Fondazione Pomodoro ripercorre liberamente mezzo secolo di carriera di Abakanowicz, che ne ha curato personalmente (insieme ad Angela Vettese, direttrice della Fondazione, sotto la cui egida sembrano in crescita le «quota rosa»: a fine anno, sarà la volta di un’ antologia della spagnola Cristina Iglesias) la scelta delle opere e l’ allestimento, perché «la scultura per me non è un bell’ oggetto da guardare, ma l’ esperienza di uno spazio da sperimentare»- da cui il titolo: Space to Experience. In un angolo, campeggia la spettacolare installazione Embriology (creata per il Padiglione Polacco alla Biennale di Venezia del ‘ 79), un agglomerato di oltre 600 «gusci» cuciti a mano con fibre di iuta, garza, cotone, canapa; dall’ alto pendono gli Abakans neri e rossi, le sue opere più note (che nel ‘ 65 le valsero il Grand Prix alla Biennale di Sao Paulo e la ribalta internazionale), sculturebozzoli avvolgenti, sensuali, che tesseva a mano «per via delle circostanze: all’ epoca avevamo diritto solo a due stanze». In ordine sparso, le 11 figure de La corte di Re Artù in acciaio inossidabile fuso a vista, destinate a una piazza di Varsavia. E ancora, due enormi Teste in acciaio: una porta il sigillo della fonderia bolognese Venturi Arte, dove negli anni ‘ 80 Abakanowicz ha scoperto la tecnica del bronzo, preparando la sua gigantesca Katarsis per il parco della scultura della Fattoria di Celle, in Toscana. Come è approdata a Milano? «Ho conosciuto Arnaldo Pomodoro anni fa, per caso, come succedono quasi tutte le cose. Ma abbiamo continuato a rimanere in contatto, a parlarci e confrontarci,e alla fineè arrivata questa mostra. Che per me è la testimonianza di quanto sia necessario comunicare, sempre, a dispetto delle distanze geografiche e culturali. Perché l’ arte è un linguaggio al di là delle parole.» Fondazione Pomodoro via Solari 35, inaugurazione domani ore 18.30, fino al 26 giugno.

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