18 Aprile 2013
Exibart

Speciale Biennale/parlano gli artisti del Padiglione Italia


Per l’ottavo appuntamento veneziano, Marinella Paderni dialoga con Francesca Grilli, artista “espatriata” in Olanda. Lei e la scelta della performance sono al centro dell’incontro

Sin dagli albori del tuo lavoro nel 2005, giovanissima, hai esordito con la performance quando questo linguaggio non era ancora tornato all’attenzione delle istituzioni museali e della curatela internazionale. Ci racconti la genesi di questa scelta controcorrente e che cosa porta nel tuo lavoro la pratica performativa?
«C’è un Arcano Maggiore chiamato ‘Ruota della Fortuna’, in questa carta si sottolinea il movimento rotatorio e vorticoso della sua superficie e la stabilità del suo centro. Prendo questo come esempio per cercare di riflettere sul significato di corrente, che paragono alla superficie della Ruota della Fortuna e il controcorrente che è il suo centro. Essere controcorrente è semplicemente essere veri con sé stessi. Quando vi è una chiamata, una visione che spinge per prendere forma, un’urgenza espressiva, non può essere ignorata, altrimenti non si e’ fedeli a sé stessi, al proprio centro: questa riflessione è stata per me l’accettazione della performance. La performance è entrata nella mia vita come una necessità, umana e personale prima di tutto. Ora ne ho fatto mio linguaggio, realtà espressiva attraverso la quale mi viene spontaneo esprimere la primordialità e la forza della mia ricerca artistica. Le correnti vanno e vengono, la Ruota può girare in un senso o nell’altro, ma bisogna essere lungimiranti e credere nelle proprie visioni, prendersi le proprie responsabilità, a discapito di quello che ti accade intorno».
Tutta la tua ricerca artistica è pervasa da alcune tematiche centrali collegate all’identità, al tempo, al linguaggio del corpo e alla resistenza dei limiti. Come li hai declinati e sviluppati nei tuoi lavori?
«Credo ad una ricerca incessante della propria verità, che si sfiora solo attraverso un incredibile sforzo, fisico, mentale. Questa fatica non è tuttavia fine a se stessa, ma profondamente appagante, ne si intravedono i confini proprio grazie alla spinta del suo limite, laddove inizia la trasformazione, la liberazione di se stessi per tramutarsi in altro. È proprio sul limite, sul punto di massimo sforzo, che si intravede un’immagine altra, di svelamento, di massima fragilità, di verità. Penso alla performance Enduring Midnight, dove la cantante lirica ormai in una fase conclusiva della sua carriera, cantando ancora nel mezzo della notte, ci rivela se stessa, la sua forza più intima, la sua passione più vorace. È un’immagine che va al di la della bellezza, ma che contiene l’unicità e la forza di esistere, nonostante tutto».
La voce e la musica sono altri due leit motiv presenti nella maggior parte delle tue opere. Esprimono ciò che l’arte visiva cerca oggi incessantemente, dare forma a emozioni e realtà spesso imponderabili come la passione. Che significati rivestono all’interno della tua ricerca?
«La manifestazione, più che la rappresentazione, mi ha sempre conturbata. Cerco quindi di riportare nelle mie opere, proprio questo aspetto. Il suono è immateriale, ma riesce a comporre, dare una voce ai sentimenti, plasmare la materia di cui siamo fatti, senza necessariamente avvalersi di una forma specifica».
In un’epoca contraddistinta dalla smaterializzazione del reale e dall’egemonia dei dispositivi virtuali nella relazione con l’altro, come interpreti la tendenza artistica attuale alla ricerca di “esperienze” in cui la presenza fisica e diretta è messa in gioco e rinegoziata?
«Annuso nell’aria un cambiamento, profondo, nel presente. Spesso le arti contemporanee sono state algide e inaccessibili. La presenza della relazione, dell’emotività era quasi penalizzante. Per quanto mi riguarda vi era un grave scollamento tra umano ed espressione artistica, una mia preoccupazione che questa dimostrazione di distanza e distacco, fosse invece lo specchio proprio di un’umanità persa, imbambolata e inaccessibile. Mi sembra invece che il sangue sia tornato ad intiepidirsi, non ancora a bollire, ma a risvegliarsi. Di conseguenza l’esperienza ci scuote, non ci lascia impassibili, ci cambia. E si ritorna al gesto semplice, all’urgenza di seguire quell’urlo che ci ha risvegliato».
Ora che la performance è tornata ad essere un linguaggio espressivo particolarmente consono alla giovane ricerca internazionale, cosa puoi leggere in controluce del tuo apporto, di quasi un decennio, al rinnovamento di questa pratica?
«Mi auguro per le generazioni a venire, che abbiano le fortune e le difficoltà necessarie per poter scavare il letto del loro fiume. Perseguire l’arte performativa significa accettare i limiti dei mondi che ti possono ospitare, le arti visive, il teatro di ricerca, e cercare appunto di solcare la propria strada. Auguro loro di non farsi abbagliare dalla buona o dalla cattiva sorte, ma di cercare una propria posizione solida, che spesso corrisponde ad una sedia scomoda».
Ci sono delle difficoltà nell’essere un’artista performativa rispetto al circuito delle gallerie? La performance è un’opera d’arte difficile da collezionare, soprattutto in Italia, e talvolta difficile anche da esibire nei musei: penso alla tua bellissima performance Moth (2009) che hai potuto mostrare solo all’interno di teatri, e non nei musei, a causa di una burocrazia rigida in materia di sicurezza. Per alcuni tuoi lavori, ti è stato più semplice operare all’interno del teatro sperimentale d’avanguardia? 
«Il teatro sperimentale e’ più versatile quando si tratta di ospitare linguaggi che possono sfociare in diverse forme, anche tecnicamente rischiose. Per altre caratteristiche invece ha una sua rigidità, temporale soprattutto. Tecnicamente alcune performance hanno effettivamente sofferto a causa della loro complessità e pericolosità di esecuzione, ma proprio questi due ingredienti sono la loro forza, non avrei potuto evitare di fare diversamente. L’esistenza di queste modalità espressive sempre più presenti nei linguaggi artistici, che prevedono azioni in vita, vanno a scardinare la staticità museale, suggerendo nuovi formati. Mi sento comunque fortunata, per il supporto che ho avuto alla mia ricerca performativa, talvolta difficile da comunicare al sistema, ma questa e’ un’esperienza personale, non una modalità».
La chiamata al Padiglione Italiano della 55° Biennale di Venezia è stata preceduta da una residenza presso il MACRO di Roma per il quale hai prodotto l’installazione sonora Variazioni per voce (2012). Com’è nata l’opera? E in che relazione si pone con la residenza romana?
«Sono stata felice di ritornare in Italia proprio in occasione di questa residenza. Ho colto l’opportunità per riascoltare l’Italia. Attraverso Variazioni per voce, ho potuto riflettere sul concetto di censura dell’opera e dell’espressione artistica, individuando un importante concetto che sta alla base del presente del nostro Paese, la responsabilità, verso noi stessi, verso l’opera d’arte. Lo spettatore era invitato a scegliere se attivare l’installazione, consapevole della possibilità di distruzione della medesima: ad ogni ascolto la mia voce incisa su cera, si consumava, modificando e cancellando l’opera stessa».
L’invito a partecipare alla 55° Biennale di Venezia ti ha posto di fronte ad una nuova, importante sfida. Come stai vivendo questo momento e cosa ti aspetti da quest’esperienza?
«Mi sono isolata sulle montagne trentine, gentilmente ospitata da Centrale Fies. Ci rimango tre mesi. Stare attaccata alla terra mi fa bene in questo momento. Cerco di fare un lavoro che mi rispecchi, che non mi tradisca».

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