Intervista a cura di Roberto Lambarelli
Sei nata a Kabul alla vigilia dell’ invasione sovietica. Hai vissuto in India e in Germania, attualmente vivi negli Stati Uniti. Qual è la tua formazione,quale la tua cultura di riferimento?
Una cosa chiara da subito è che nel momento in cui vieni sradicato a causa della guerra o per necessità economiche, cominci a guardare quasi tutto in modo provvisorio. Te ne rendi conto perché devi creare nuove relazioni con lingue, persone,climi e caratteristiche geografiche diverse e perché facendo ciò vedi il tuo intero passato da una prospettiva che modifica le tue relazioni con ogni cosa. In altre parole, capisci che la maggio parte delle cose è arbitraria, che un posto dove stare vale l’altro e che nessun luogo sarà mai un “punto di riferimento” o un fondamento per quello che fai nella vita; oltre al fatto che ti muovi nel mondo con un senso di apertura, un senso di giustizia, senza pensare a cosa è tuo e cosa è degli altri. Non ho mai capito questo senso di proprietà che molte persone hanno verso la loro cultura. Come possono possedere la cultura? Voglio dire, sono stata influenzata dagli scritti di Margherite Duras tanto quanto sono rimasta colpita dalle splendide dimore e dai costumi dei “kuchis”, le popolazioni nomadi afgane.
A proposito dei tuoi lavori è stato scritto: “Her work fuses the tropes of ‘Western’ formalism with the numerous aesthetic traditions Islamic, Buddhist, Hindu, pagan and nomadic”. Secondo te cosa prevale a livello formale e cosa a livello della poetica, delle idee?
Penso che i miei lavori siano tentativi di dare una qualche forma al nomadismo delle idee, che a loro volta sono veicoli per relazionarmi al mondo. Spero si comprenda che all’inizio è poco più che una sensazione,poi diviene l’unione di questa sensazione– immagine, suono, una catena di parole – con qualcos’altro che potrebbe essere esso stesso un’idea, un viso, o un’altra sensazione. Quando vedo una rovina, un’immagine di completa desolazione o distruzione, stabilisco con questa un rapporto su molti livelli e ognuno di questi è associato o ad una forma o ad un contenuto. L’immagine potrebbe rappresentare la distruzione, ma so che al di là della forma certamente c’era la morte e il lavoro è, quindi, un tentativo di trovare un posto per piangere questa morte. C’è, quindi, poesia in questo perché una volta che il lavoro è realizzato non penso ci siano molte persone che possano dire di cosa tratta: il riferimento infatti è ammorbidito così che ci si possa sedere da qualche parte accanto al lavoro e pensare. Voglio rompere il circolo di vendetta e controvendetta, della forma e del rifiuto della forma.
Nel tuo lavoro utilizzi differenti media: video, film, fotografia, installazioni, performance… Tra questi ce n’è uno che si avvicina di più alla tue esigenze espressive e per quali ragioni?
In un certo qual modo è il progetto su cui sto lavorando a determinare quale mezzo espressivo sceglierò. È una decisione che in un certo senso viene fuori da sé e non posso dire nulla a riguardo. Quella che finisce per essere chiamata opera, è un dialogo con così tante cose che deve essere chiamata piuttosto un’ opera di scelte: è un dialogo con l’immediata materialità della rovina in cui sto lavorando, per esempio, con la storia che intrappola la rovina, con la mia stessa posizione al suo interno, con i miei tentativi di trovare una via d’uscita, uno spostamento dalla furia che le persone possono sentire verso altri luoghi che diffondono desiderio di vendetta. E davvero è per questa ragione che non ho specifici riferimenti e per qualcuno questa può essere una posizione pericolosa perché hanno la sensazione che non ti si possa dare fiducia dato che non possiedi una forte lealtà, e quindi potresti tradire facilmente. Non so perché alcuni chiamino l’impulso verso la giustizia e il perdono, un possibile tradimento. Mi è indifferente essere un traditore o quello che vuoi. Anche un lavoro certe volte può tradire la forma che gli altri pensano potrebbe essere la più consona.
In alcuni tuoi lavori si evidenzia la ricerca di una condizione esistenziale, in altri l’impegno politico. Inoltre, come concili queste due componenti? Come ti posizioni nell’attuale dibattito tra centro e periferia, tra nazionalismo e internazionalità, tra identità e nomadismo culturale?
Se fondo l’aspetto politico e quello personale, lo faccio inconsapevolmente. Mi sforzo costantemente di disarmare lo spettatore e di metterlo davanti ad una traccia storica – una rovina, un riferimento ad un evento, ecc. – e poi creo dei passaggi nel lavoro che sono riflessioni sul contenuto dell’opera. Qualsiasi cosa accada allo spettatore avviene secondo il suo modo di relazionarsi al lavoro, sia attraverso il solo aspetto documentaristico, sia nell’unione dell’ aspetto poetico e di quello offerto dalla realtà.