18 Agosto 2007
IO DONNA

L’opera è mia e la gestisco io

 

Susanna Legrenzi

La nonna che corre in moto con il boyfriend, il rito del bagno turco, l’incontro tra madri e figlie. Negli Stati Uniti il binomio arte e femminismo va in mostra da New York a Los Angeles. Obiettivo: sovvertire le regole di un gioco che relega sotto il 5 per cento la presenza delle donne nei musei.
La geometria dei tavoli – evidente, il rimando – è quello di un triangolo equilatero. In tessuto bianco, apparecchiato per trentanove con piatti in ceramica dall’altrettanto evidente ispirazione anatomica, rende omaggio a quelle donne che hanno lasciato un segno nella storia, da Saffo a Isabella d’Este, a Emily Dickinson.
A realizzarlo con l’aiuto di quattrocento volontarie è stata Judy Chicago, una delle artiste più celebri e impegnate degli anni Settanta. Quando The Dinner party, titolo dell’opera, fu esposto per la prima volta al Moma di San Francisco era il 1979. All’epoca – nonostante la folla di curiosi – i critici lo bollarono come pura pornografia, mentre (i più puritani) membri del Congresso lo considerarono un affronto alla modestia e alle virtù delle americane. Oggi, a circa 30 anni di distanza, la grande abbuffata femminista – che il settimanale Newsweek ha classificato fra le non molte altre opere che hanno avuto effetti sconvolgenti nella storia dell’arte – è tornata in mostra a New York.
A ospitarla è il Brooklyn Museum, dove è stata inaugurato uno spazio di 8 mila metri quadri, dedicato alla consacrazione del potere rosa: l’Elisabeth Sackler Center for Feminist Art, che prende il nome da Elisabeth Sackler, prodiga collestionista d’arte, nonché figlia di Arthur, uno dei maggiori “benefattori” del Metropolitan Museum. L’evento ha registrato grande successo.
Alla vicenda, il mensile statunitense Art news ha dedicato una copertina, sottolineando il grande ritorno del femminismo, quanto meno quello applicato all’arte. Ma non è solo il Brooklyn Museum a viaggiare in questa direzione. Da New York a Los Angeles, il nuovo corso ha coinvolto molte altre importanti istituzioni artistiche, dal Moca al Moma, dove una due giorni in rosa ha riunito questa primavera centinaia di incanutite pantere nere.
Tra loro, la nota curatrice Maura Reilly: “Finalmente ci stiamo infiltrando, per usare un termine militare, anche nelle stanze del comando”.
La sfida? Ridiscutere le regole di un gioco reputato ancora sessista. Lo confermano i numeri denunciati dallo storico movimento delle Guerrilla Girl che anni addietro – lanciando lo slogan “Le donne devono essere nude per entrare al Met?” – calcolò che la percentuale di artiste esposte al Metropolitan Museum non superava il 5 per cento, mentre l’85 per cento dei nudi in mostra ritraeva corpi femminili. Era il 1989. Col tempo poco nulla è cambiato. Sempre al Met, la presenza delle artiste si è inbissata al 3 per cento, mentre lo scorso autunno il Village Voice notava che solo il 26 per cento delle grandi mostre mewyorkesi di stagione era dedicato alle donne.
Basterà, adesso, un calendario capitanato nei prossimi mesi dal tour di due grandi mostre al femminile come Global Feminisms e Wack! Art and the Feminist Revolution a rimettere in discussione i recinti stretti di un ghetto? Quando Judy Chicago mise in scena The Dinner Party spiegò: “Con quest’opera abbiamo voluto mettere fine al ciclo di omissioni che hanno escluso le donne dalla storia”. Oggi Marina Abramovic dice: “Quando vedo mostre femministe – mi spiace dirlo – penso sempre che le opere non siano buone. L’arte è buona o cattiva, non importa chi al fa”. Tesi sposata dalla gallerista Barbara Gladstone che, senza lasciarsi sfiorare da logiche di parte, ha in scuderia artiste di punta come Shirin Neshat e Sharon Lockhart. Ma anche mostre come Documenta dove – senza dover ricorrere alle quote rosa – tra gli artisti più acclamati ci sono due signore: Zoe Leonard e Louise Lawler, due voci impegnate. Nel mondo dell’arte.

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