13 Gennaio 2010
IO DONNA

L’ultima sfida di Marina Abramovic, «Il mio silenzio è d’oro»

 

di Maria Laura Giovagnini


MILANO – The Artist is Present s’intitola la mostra al MoMA. E, se l’artista in questione è Marina Abramovic, potete giurarci: è presente davvero. Cosa sarà mai rimanere 7 ore al giorno seduta a guardare negli occhi i visitatori per una che, davanti al pubblico, si è denudata-tagliata-fatta tagliare- gettata fra le fiamme-lasciata avvinghiare da 5 pitoni affamati?«E invece no: sarà questa la performance più radicale della mia vita» ci sorprende lei. «Ognuno può fermarsi di fronte a me quanto vuole: tre minuti o tre ore. In silenzio. Il contatto visivo non è facile, intimidisce parecchio».

 


Più che mostrarsi nudi?
«Certo. Puoi leggere così tanto, puoi vedere così tanti dolori attraverso gli occhi! All’inizio – negli anni Settanta – le mie performance erano più drammatiche, più fisiche, duravano un’ora o due. Progressivamente si sono allungate: più tempo ci metti, più radicalmente trasformano te e chi osserva. La finzione si dissolve, tutto diventa realtà. Questo ti rende vulnerabile e la vulnerabiltà provoca una risposta emotiva dal pubblico ».

 


È questa risposta emotiva lo scopo dell’artista, oggi?
«Sì, però non una risposta emotiva fine a se stessa. Abbiamo perso i nostri templi, il museo è diventato il nostro nuovo tempio: qui dobbiamo elevare lo spirito, non buttarlo giù. Ecco perché quel che chiedo a me stessa è radicale: devo essere un esempio, la gente guarda a me come a uno specchio. La mia preparazione è rigorosissima: non parlerò per tre mesi, tornerò a casa senza comunicare, senza usare il telefono».

 


E la sua vita privata?
«Ora non c’è nessun uomo, sono concentrata sulla performance. Ma sono sicura che quando finirò, il 31 maggio, inizierà un capitolo inedito della mia vita. E sarò di nuovo aperta per una relazione».

 


Nel frattempo abolito anche il sesso?
«Il sesso va di pari passo con l’amore, è qualcosa di fantastico solo se c’è amore. Attualmente non si ha un atteggiamento sano verso il sesso, che poi sarebbe: averne bisogno come del cibo. E questo non è che una riprova di quanto la società sia malata. In America spesso ci si astiene perché le persone sono travolte dal lavoro, non hanno tempo: magari bevono o prendono pasticche o droghe… Quando la relazione fra il corpo, il sesso e il cibo è disturbata, diventa tutto non naturale».

 


Lei ha una relazione sana col suo corpo, dopo avergli inferto tante cicatrici?
«Sto bene, sono probabilmente più sana – con tutte le cicatrici – di altri che non ne hanno neppure una. Perché io affronto le mie paure e le scaccio. Quando capisci che puoi controllare il fisico, sei davvero libero».

 


Sarà dunque esente dalle preoccupazioni delle mortali: chili in più, rughe.
«Nel lavoro non importa se il corpo è vecchio o giovane, malato o sano. Nella vita privata, no: sono una che entra e esce dalle diete e non mi nego trattamenti – rigorosamente non invasivi – che mi facciano sentire meglio. A novembre compio 64 anni…assaporo ogni attimo».

 


Sessantaquattro? Stupefacente!
«…e a 64 anni voglio fare soltanto cose che abbiano senso, che mi rendano l’esistenza più felice e più semplice. Non si può assecondare ciò che ci viene imposto dall’esterno. Devi effettuare una sorta di montaggio della tua vita, tagliare le parti non importanti. Un lama tibetano mi detto di cercare una cosa chiamata holy selfishness, un san(t)o egotismo: se non pensi prima a te stessa e a quello che è bene per te, non puoi fare il bene degli altri. Se sei un’artista, poi, rischi di arrivare a bruciarti. Io voglio proteggermi. Anche dalle tentazioni del mercato, che ti spingerebbe a produrre, produrre. Per che cosa? Meglio avere meno e più qualità che collezionare progetti uguali – in definitiva – a quelli che hai già realizzato. Non intendo ripetermi».

 


Perché ha scelto proprio questa forma d’arte? Insolita per una cresciuta nella Jugoslavia di Tito.
«Insolita? Volevano mettermi in manicomio! Mio padre e mia madre, due eroi nazionali (erano alti membri dell’esercito, ndr), la società, i miei colleghi: nessuno capiva. È una forma d’arte così alternativa… E così difficile da spiegare. Quel che provo nelle performance è un’energia, un’esperienza del momento così forte che non potrei mai ritornare nel chiuso di uno studio ».

 


Ha lavorato nel chiuso di uno studio?
«Ho sentito di voler diventare artista a 6 anni e il mio debutto, a 12, è stato con una mostra di pitture (ispirate ai miei sogni) ma sono stata fortunata: ho capito ben presto che era il corpo lo strumento più giusto per esprimermi e non ho mai abbandonato questa strada. Sono una dei pochi della mia generazione che ancora la segue e continua a essere sempre innovativa, pure rispetto ai giovani. È un lavoro gratificante: ti cambia, ti fa capire i tuoi limiti fisici e mentali. Sto attraversando uno dei miei periodi migliori: ne assaporo ogni attimo».

 


Essere pacificata giova all’arte? O, sfortunatamente, è meglio il dramma?
«Non si preoccupi, la sofferenza è sempre qui (ride). Però devi imparare un po’ a distaccarti, a guardarti da fuori… Più vivi nel presente, più sei felice».

 


Il buddismo l’ha proprio permeata.
«Oh sì, credo nel buddismo tibetano. Sono andata in India per la prima volta nel 1980: l’incontro con il Dalai Lama e con il suo maestro ha cambiato la mia esistenza. Mi è servito per capire la vita. E la morte. Dobbiamo essere “amichevoli” verso la morte. Io non voglio andarmene arrabbiata e insoddisfatta, ma con consapevolezza, senza paura. Nel sufismo si dice che la vita è dormire e la morte è svegliarsi: spero di essere pronta a svegliarmi».

 

da ARTKEY MAGAZINE del 10.02.2010
Un’esistenza vissuta a sfidare i limiti del corpo. Marina Abramovic, The artist is present, Moma NY
Autore: Giulio Cattaneo

E’ ormai da 37 anni che Marina Abramovic (Belgrado, 1946) incanta il pubblico di tutto il mondo con le sue performance estreme; era il 1973 quando, da poco specializzata all’Accademia di Zagabria, portò in scena Rhythm 10, in cui utilizzando dieci coltelli e due registratori, eseguì un gioco russo nel quale ritmici colpi di coltello sono diretti tra le dita aperte della mano. Per ogni errore, ogni taglio quindi, l’artista ricomincia con un nuovo coltello fino ad esaurirli. Dopo essersi ferita dieci volte riavvolge la registrazione, ascolta i suoni e tenta di ripetere gli stessi movimenti, cercando di replicare gli errori, mescolando passato e presente. “Una volta che sei entrato nello stato della performance”, spiegherà successivamente, “puoi spingere il tuo corpo a fare cose che non potresti assolutamente mai fare normalmente”. Un’esistenza vissuta a sfidare i limiti del corpo, tra la vita e la morte, ma anche riflettendo sulle tradizioni dei popoli balcani e sui problemi legati ai conflitti armati. Marina Abramovic ha fatto del suo corpo, della sua vita, l’arte stessa. Ha vissuto nella performance diventando essa stessa opera d’arte e segnando in maniera profonda e innovativa l’evoluzione artistica degli ultimi trent’anni. Sarà con la stessa intensità e con la forza delle prima performance che si presenterà anche all’immensa personale che il Moma le sta preparando. The Artist is present, a sottolineare ancora una volta che Abramovic è la sua arte, il suo corpo è la sua tela; ma anche ad indicare che con la più lunga e costante performance mai realizzata e portata avanti, sarà presente nel museo con il suo nuovo lavoro durante tutta la durata della mostra, dal 14 marzo al 31 maggio prossimi. L’evento, senza precedenti, rappresenterà la sua più grande fatica, diventando la più lunga performance della sua carriera; tale intervento artistico infatti la vedrà impegnata 7 ore al giorno per ben 3 mesi, per circa 600 ore totali di performance. “Le performance richiedono un’energia sterminata e, invecchiando, il corpo è in difficoltà” spiega Abramovic, “eppure le mie azioni diventano sempre più lunghe e difficili con il passare degli anni. Perché con la forza della mente si può fare qualunque cosa: non serve un allenamento olimpionico, ma volontà e disciplina”. Abramovic sarà presente, durante gli orari di apertura al pubblico, seduta in assoluto silenzio ad un tavolo nell’atrio del museo. Gli spettatori avranno la possibilità di sedersi di fonte a lei per tutto il tempo che riterranno necessario, diventando così parte integrante e necessaria della performance, nonostante l’artista rimarrà in silenzio. Fondamentale anche in questo caso la presenza del pubblico che mai come nella performance riesce ad entrare esso stesso nell’opera d’arte, a stretto contatto con l’artista. Come non ricordare uno dei suoi primi lavori, Rhythm 0, presentato a Napoli nel 1974, in cui abbandonò il suo corpo alle torture che liberamente il pubblico poté infliggerle con una serie di oggetti messi a disposizione; finì in rissa quando le fu messa in mano una pistola carica con il dito premuto sul grilletto.
La mostra ospitata al Moma traccerà tutto il percorso artistico dell’Abramovic proponendo una cinquantina di lavori tra cui installazioni, video e fotografie delle sue performance. Più interessante sarà però vedere, al sesto piano del palazzo, riproposti per la prima volta cinque dei suoi lavori più famosi. L’artista stessa ha selezionato i trentacinque attori che, durante tutta l’apertura della mostra, reinterpreteranno le performance.
Si parte con Imponderabilia (1977), dove un uomo e una donna nudi stanno uno di fronte all’altro accostati ad una porta, rendendo così difficoltoso il passaggio del pubblico che dovrà relazionarsi ai due attori scegliendo da che parte passare; Relation in Time (1977), in cui i due attori sono seduti di spalle, nudi, ed uniti tramite i capelli intrecciati tra loro; Point of Contact (1980), dove i due attori guardandosi negli occhi si sfiorano gli indici delle mani puntati uno addosso all’altro; Nude with Skeleton (2002–05), natura morta contemporanea in cui uno scheletro è disteso sopra il corpo dell’attrice che lo anima con il movimento creato dal suo respiro; Luminosity (1997), in cui grazie al gioco di luce ed ad un piccolo sellino da bicicletta l’attore sembrerà sospeso nel vuoto, in un continuo stato di precarietà ed equilibrio.
Imponderabilia, Relation in Time e Point of Contact erano state create con l’artista/compagno Ullay (Germania, 1943), suo partner dal 1977 al 1988. I due decisero di chiudere la relazione con una performance lungo la Grande Muraglia Cinese; lui partendo dal deserto del Gobi, Marina dal Mar Giallo. Dopo una camminata di duemila e cinquecento chilometri si sono incontrati e si sono detti addio: “È stato un momento molto doloroso della mia vita. Dopo il quale ho avuto una crisi molto forte sia come artista sia come donna. Ma un artista lavora sempre con le sue tragedie, la sua pena. In un certo senso, abbiamo bisogno della drammaticità per fare progetti”. Una vita dedicata alla performance non potrà che prevedere anche una morte legata all’arte, programmata e studiata, in un certo senso anche esorcizzata. E’ uno dei progetti che Marina sta preparando; tre cerimonie contemporanee in tre città: Belgrado, città natale; Amsterdam, città adottiva e New York, dove è stata e sarà ancora una volta consacrata. Tre orchestre, tre cortei, tre bare, tre sepolture, il tutto accompagnato da colori sgargianti e dalle note di My Way di Sinatra. Il tutto nel frattempo sarà presentato, nel 2011, a teatro con Bob Wilson, nell’opera Vita e morte di Marina Abramovic.

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