27 Febbraio 2013

Maria Lai, la fata dell’arte che stregò Antonio Marras

di Chiara Gatti

Ha una voce da bambina, Maria Lai. Una bambina di 94 anni. Che parla delle sue sculture come se fossero favole e s’arrampica fra le rocce aguzze dell’Ogliastra, la provincia aspra della Sardegna orientale, con l’energia di un cerbiatto. «Mio padre diceva che ero come una capretta, ansiosa di precipizi». Nel senso che, fin da piccola, ha sempre puntato in alto, desiderosa di esprimersi libera. Come quando, nel 1940, lo supplicò di lasciarla andare a Roma, per studiare al liceo artistico, e lui, papà veterinario ancorato al suo paese, Ulassai, le permise di abbandonare la montagna. O, quando, poco dopo, partì per Venezia per frequentare i corsi di scultura di Arturo Martini all’Accademia, prima di tornare a casa, sotto i bombardamenti, salpando da Napoli a bordo di una scialuppa di salvataggio. Chiusa nel suo fisico minuto, un casco di capelli candidi sforbiciati sugli occhi allegri, Maria Lai racconta storie della sua vita d’artista in una pellicola commovente, Ansia d’infinito, presentata da Claritta Di Giovanni al Festival di Roma del 2009 (a marzo in proiezione al Museo del Novecento), mentre oggi una ventina di lavori protagonisti di una mostra curata da Manuela Gandini per la Galleria Morone, riassumono i temi cari alla sua ricerca. Temi celesti, motivi cosmici, geografie di un universo parallelo, che questa signora solitaria dell’arte contemporanea italiana, cresciuta negli anni del minimalismo e dell’arte povera (molti dicono che se avesse lasciato l’isola sarebbe diventata più famosa di Louise Bourgeois), ha realizzato riscoprendo tradizioni antiche. Come la magia del telaio, usato per intessere leggende di terra sarda, zeppe di spiriti, donne, pastori, mai decorative ma cariche di vitalità, tanto che, negli anni Settanta, le femministe guardarono con interesse alle sue trame. Le stesse che hanno stregato anche Antonio Marras, lo stilista di Alghero, come lei fedele alle sue radici, che nell’atelier di Milano sfoggia un suo arazzo e confessa: «conoscerla ha segnato il mio approccio con l’arte. Maria è una fata, un angelo, una creatura di un altro mondo. Con lei ho una sintonia d’idee e mezzi condivisi: il disegno, il tessuto, il ricamo». Abilissima nel passare dal piccolo formato, libri di stoffa cuciti con testi illeggibili scivolati fuori delle pagine come capelli spettinati, alla dimensione monumentale della land art, con installazioni di legni e ferri, dipanati lungo le pendici del Tacco di Ulassaio nelle grotte della sua regione vergine, Maria Lai ha creduto molto anche nel coinvolgimento della comunità, nella performance Legarsi alla montagna, del 1981, che vide un nastro azzurro unire le case del paese alle rocce del Tacco, ossequio alla natura per scongiurare frane e sigillare un patto di convivenza. Autrice versatile e spirito libero è stata capace di appropriarsi d’ogni luogo e di lasciarci un pezzo di sé, come ricorda Marras: «Una volta le dissi di aver copiato un suo disegno. Mi rispose: l’arte è un continuo rubare. Non preoccuparti, io rubo dappertutto. Nel momento in cui rubi, l’opera diventa tua. Come nel film Il postino, la poesia non è di chi la scrive, ma di chi la usa».

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