19 Dicembre 2008
Il Venerdì di Repubblica

Marina Abramovic: ora penso al futuro, organizzando il mio funerale…

 

Sarà tra le pochissime donne ad avere una personale al Moma di New York. E, mentre apre un centro per insegnare la performance, l’artista parla del dolore: nei suoi lavori, nella sua infanzia severissima, nel suo amore in crisi. Solo l’ultimo atto sarà pieno di humour

di Antonella Barina
I suoi 62 anni sono invisibili: è ancora bella e un torrente in piena. Eppure Marina Abramovic sta progettando il suo funerale. Perché, se uno ha sempre voluto tenere in pugno la propria vita, non sopporta che altri prendano il controllo della sua morte. E le sue disposizioni sono singolari: tre cerimonie contemporanee in tre città – la Belgrado dei suoi esordi, l’Amsterdam del suo successo, la New York della consacrazione – tre orchestre, tre cortei, tre bare, tre sepolture. Ma niente lacrime né canti funebri o colori a lutto: solo rossi, verdi, toni sgargianti e humor, sulle note di My Way (A modo mio) di Sinatra.
Tanto Marina Abramovic ha sempre fatto a modo suo, da quando fu tra i pionieri della performance come arte visiva, negli Anni 70, fino a diventare la più celebre performer internazionale. In una sfida implacabile con se stessa, per esplorare i limiti del corpo e della mente, senza mai risparmiarsi dolore, stanchezza, pericolo. Come quando urlò fino a perdere la voce o mangiò cipolle fino a non aver più lacrime o si frustò fino a non sentire le stilettate. Come quando mise a disposizione del pubblico 72 oggetti – rose e piume, ma anche coltelli e una pistola carica – da usare su di lei a piacimento, per sei ore ininterrotte: una foto la ritae sconvolta, spogliata, ferita, violata nella sua dignità. O quando si sdraiò in una stella a cinque punte (simbolo del comunismo delle sue origini jugoslave), cui aveva dato fuoco, e quasi morì per mancanza d’ossigeno. Oppure rimase sei giorni seduta su una montagna di ossa putride, pulendole una per una, come per lavar via le atrocità delle guerre nei suoi Balcani. E così vinse il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del ’97.
Ora esce in Italia una monografia inglese della Phaidon Press, Marina Abramovic, retrospettiva degli ultimi anni di attività dell’artista, con splendide fotografie. E lei è protagonista di due filmati, uno di Babette Mangoste, uno di Chiara Clemente, proiettati a Firenze nella rassegna Lo schermo dell’arte, curata da Silvia Lucchesi.
Non solo: Marina, che in questi giorni è in Germania per fare conferenze, ha in corso mostre in Giappone, Brasile, Svizzera. E in Messico, dove espone video-installazioni realizzate in Laos, in cui denuncia l’inferno dei bambini soldato.
Ancora più impegnativi, i progetti per il futuro: nel 2011 porterà in scena la sua biografia, funerale compreso (che sia ben chiaro come dovrà essere anche nella realtà), firmando insieme a Bob Wilson – genio del teatro – Vita e morte di Marina Abramovic. E nel 2010 il Moma di New York le dedicherà una retrospettiva senza precedenti: non solo giovani artisti a riproporre alcuni suoi pezzi storici, ma lei stessa in azione tutti i giorni per tre mesi, sette ore al giorno e mezzo al giorno. Un tour de force mai visto. “Le performance richiedono un’energia sterminata e, invecchiando, il corpo è in difficoltà” spiega Marina, gli occhi neri che ti uncinano: “Eppure le mie azioni diventano sempre più lunghe e difficili con il passare degli anni. Perché con la forza della mente si può fare qualunque cosa: non serve un allenamento olimpionico, ma volontà e disciplina”.
Donna tosta, l’Abramovic, tostissima, che dando a ogni suo gesto una forza simbolica perduta, è riuscita a trasformare se stessa in opera d’arte. E, man mano che i performer della sua generazione abbandonavano una forma artistica che ormai pareva obsoleta, lei continuava caparbia a vagliarne le possibilità. Facendosi strada dalle cantine della Belgrado studentesca, negli anni 70, fino alle sale dei principali musei del mondo. “Ho atteso questa consacrazione tutta la vita” ride. “Dodici anni solo per riuscire a portare al Guggenheim nel 2005 Seven Easy pieces, rielaborazione delle performance di grandi artisti come Joseph Beuys, Gina Pane, Vito Acconci. Il successo è stato tale che mi ha chiamato il Moma”.
E ora l’ultimo passo, “l’idea che mi sopravviverà dopo la morte” (parole sue). L’artista ha acquistato un teatro degli anni Trenta a Hudson (due ore da Manhattan), per creare il Marina Abramovic Institute, una fondazione non profit che, in duemila metri quadri di auditorium, aule, archivi, si impegnerà a preservare e insegnare arte della performance. “Aprirà nel 2012: commissionerò azioni a grandi artisti come Mattew Barney e farò scuola ad aspiranti performer”. Cosa insegna l’Abramovic ai suoi alunni? “A sviluppare l’autocontrollo, a diventar coriacei: li porto in campagna quando nevica o si muore dal caldo, imponendo giorni di digiuno e silenzio, mentre si eseguono esercizi durissimi”.
E’ vestita di nero, ha un corpo forte, i lineamenti marcati, uno spiccato accento slavo con cui parla un inglese velocissimo. Sa essere inquietante, ma se ne rende conto: “Non è sadomasochismo il mio. ho sempre usato il dolore come un ostacolo necessario da superare”. Per liberarsi della paura. E anch’io nelle performance mi sottopongo ad agonie e pericoli che non affronterei nella vita reale. Perché è dal pubblico che traggo energia, invitandolo a rispecchiarsi nel mio dolore e vincerlo con me”.
Vuol dire che ha paura prima di esibirsi? “Sono terrorizzata. Come di fronte a tutti gli imprevisti della vita. ho avuto attacchi d’ansia per sei mesi prima dell’azione al Guggenheim. Ma che senso di potenza a prova superata. Peccato che quella sensazione di vittoria duri poco e presto senta il bisogno di sfidare di nuovo me stessa”.
Così intrepida in pubblico, Marina trema in privato. Come accadeva quando sua madre, granitico ufficiale dell’esercito di Tito e notabile del Partito comunista, che si vantava di non aver mai pianto in vita sua, le infliggeva una disciplina marziale. O quando suo padre, acclamato eroe di guerra, le insegnava a vivere in modo leggendario (salvo poi abbandonare tutto e tutti per farsi una nuova famiglia). O quando Marina incontrò Ullay, che dal ’76 all’88 fu il suo alter ego nell’arte e nella vita: una sfida dopo l’altra. Cinque anni a vivere in automobile, poveri in canna, e far performance: lei si incide la stella rossa sul ventre con una lametta; lui tende l’arco e le punta una freccia al cuore; l’un l’altro si schiaffeggiano, si urtano, si soffocano fino allo sfinimento. Ci vogliono otto anni per avere da Pechino il permesso di percorrere a piedi la muraglia cinese, partendo dalle due estremità. E intanto il loro rapporto si logora: quando infine si mettono in viaggio, 2500 chilometri in 90 giorni, e si incontrano a metà, è per dirsi addio per sempre.
“Ullay si era innamorato di un’altra donna: ero gelosa, lo odiavo, volevo ucciderlo. Ma non fu mai doloroso come è oggi la separazione da Paolo”. L’artista italiano Paolo Canevari, sposato due anni fa, dopo dieci di convivenza. La voce di Marina si spezza: “In questo caso è tutta colpa mia. So essere faticosissima da sopportare: Paolo mi chiama Duracell, perché non esaurisco mai le mie energie. Ho distrutto il nostro rapporto facendo troppo e sono disperata”. Gli occhi le si riempono di pianto: lacrime che neanche frustarsi a sangue le ha provocato.
Eppure il bisogno di sfidare all’infinito i propri limiti è inesorabile. Mai pensato di smettere? “Lo farò quando non proverò più quello stato d’ansia che mi spinge a impormi la severità di mia madre e l’eroismo di mio padre”.

Print Friendly, PDF & Email