6 Dicembre 2008
D donna

Marlene e la banalità del male

È la pittrice più quotata al mondo, ama ritrarre il lato oscuro dell’eros e porta un cognome, Dumas, che rievoca un romanzesco talento per le passioni forti. Ora New York la celebra con una grande mostra

di Adriana Polveroni

Un qualunque psicoanalista non avrebbe difficoltà a intravedere un profilo narcisistico in chi fantastica del proprio funerale e che magari si immagina anche la propria tomba. Dunque, Marlene Dumas, artista olandese di origine sudafricana, rientrerebbe nella folta famiglia dei narcisisti: “Fin da bambina mi piaceva immaginare il luogo della mia sepoltura”, dice spiegando il titolo della mostra che sta per aprirsi al MoMA di New York, Measuring Your Own Grave (Misurando la propria tomba, 14 dicembre-16 febbraio), dopo aver riscosso un notevole successo al MOCA di Los Angeles. Nel suo caso però il narcisismo si alimenta di un acceso immaginario, oggi esibito attraverso 70 pitture e 35 opere su carta, che nessun algido museo può stemperare e che ha fatto di questa donna nata 55 anni fa da una famiglia di contadini sudafricani (il padre viticoltore, la mamma casalinga e il fratello sacerdote) l’artista donna vivente più quotata al mondo: a luglio scorso un suo quadro è stato battuto per oltre 6 milioni di dollari surclassando l’eterna rivale Louise Bougeois, senza però intaccare il primato di 33 milioni di dollari che Lucien Freud detiene saldamente. Psicanalisi fiamminga Guarda caso, tra gli artisti più pagati al mondo figurano due pittori: Marlene Dumas è infatti una pittrice pura, poco prolifica, e questo spiega in parte la sua netta affermazione sul mercato. Arrivata in Olanda dal Sudafrica a 23 anni per studiare pittura, ha poi scelto il Paese come “casa”, preferendolo – come hanno fatto molti artisti un po’ esuli e un po’ nomadi, da Marina Abramovic fino a Lawrence Weiner e Sisley Xhafa – a New York o a un’altra destinazione europea per via della libertà che l’Olanda garantiva: “Qui ho scoperto la tolleranza che nel mio Paese mancava del tutto, ma ho vissuto anche un grande conflitto. Ero spinta a tornare a casa e avevo voglia di rimanere qui. L’Olanda è stata il mio psichiatra”, racconta oggi Dumas. Sesso in blu Eppure l’Olanda, fino in fondo, non le è entrata nel sangue. È sì una ritrattista squisita, come è nella tradizione iconografica di questo Paese, ma, per lei, lo sfondo e il paesaggio sono ininfluenti, non sono affatto elementi fondanti della pittura, come è stato invece nella scuola fiamminga. I ritratti di Marlene Dumas, che siano donne, bambine, terroristi o cadaveri, sono sempre e solo presenze drammaticamente sole e mute. Violentemente perturbanti. È come se emergesse una figuratività radicale, che fa a meno di tutto il resto, ma che, per paradosso, si scioglie in pennellate apparentemente incerte, che più appaiono diluite e più si caricano di drammaticità o di eros. Ecco uno dei temi dominanti del suo lavoro: l’eros, il sesso, spesso sfrontato, strappato dalle pagine di giornali pornografici e rielaborato con quelle pennellate quasi svagate, ma densissime. “Mi piace fare un’arte sensuale, l’erotismo dà forza. Nella nostra società c’è molto sesso, ma non abbiamo più la capacità di comunicare la carica erotica”, spiega lei. E giù quindi non solo a virare in blu immagini hard, ma anche a rifare le icone della moda, silhouette pubblicitarie patinate e asettiche – perché altra caratteristica del suo lavoro è che non ritrae mai persone in carne e ossa, ma figure che hanno posato per altri – come quella di Naomi Campbell, ridisegnata innumerevoli volte: “Quando uso e stravolgo le immagini delle modelle, cerco di alterarne la freddezza. Voglio tirare fuori il lato oscuro dell’erotismo. Questo forse nasce dalle mie origini africane e contadine, penso abbia a che fare con un’esperienza della natura molto forte, primitiva”, racconta. A letto con Rossellini Forse è per questa fiducia che ripone nella pittura – nonostante la definisca “anacronistica e oscena per il modo in cui rende bello ogni orrore”, e malgrado il fatto che nelle sue mani l’immagine non si edulcori mai, come invece accade in alcune artiste che a volte rivelano una fragilità molto femminile – che è possibile leggere nella sua opera una visione ottimista. È quanto fa Ilaria Bonacossa, che a Marlene Dumas ha dedicato una monografia (Electa) e che sta lavorando a un volume che l’editore Phaidon manderà in libreria il prossimo anno, quando scrive che “nonostante l’impietosa rappresentazione dell’inadeguatezza umana, il suo lavoro manifesta comprensione ed empatia e fa emergere la dignità universale delle persone”. Ottimismo che, nel caso di Marlene Dumas, si unisce a un temperamento eccentrico che ne fa una specie di forza della natura: tono alto della voce, risata e battuta pronte, sguardo magnetico che non perde mai d’occhio l’interlocutore, e anche uno studio tappezzato di disegni e quadri spesso buttati per terra, occasionalmente premiati con un chiodo che li fissa al muro, salvo poi essere declassati di nuovo sul pavimento se Marlene nel frattempo ne ha prodotti altri che ama di più. Tutti segni, questi, di un carattere volitivo e ingovernabile: Marlene lavora su un materasso anch’esso buttato a terra (ha trovato in Roberto Rossellini un maestro quando ha scoperto che lavorava a letto), odia l’ordine (cultura olandese compresa), odia fare sport, non ha mai imparato ad andare in bicicletta né a guidare la macchina. La sua pigrizia straordinariamente vitale l’ha aiutata, anni fa, a creare delle icone della nostra epoca, le “Magdalene”: bianche e nere, cariche di un’irruenza erotica femminile che esprimeva una scelta antirazzista, con la postura delle statue classiche e i volti da pin-up, la tenerezza delle figurine in terracotta della “Grande Madre” e la gestualità delle prostitute. “L’ambiguità fa parte della nostra vita, i miei lavori migliori sono erotici e mostrano la confusione mentale (con l’intrusione di alcune irrilevanti informazioni)”, rispondeva a quanti all’epoca – l’inizio degli anni Novanta – gridavano allo scandalo. La fine in primo piano Ora sei Magdalene sono in collezione alla Tate Modern di Londra e altre sono custodite in altri prestigiosi musei del mondo, MoMA compreso. Ma, guardando gli ultimi ritratti entrati in collezione nel museo londinese, si nota un cambiamento del lavoro di Marlene Dumas. A dare spunto alla sua fantasia sono sempre state le figure femminili: “Le disegnavo fin da piccola”, racconta. “Come Francis Bacon, non amo l’Astrattismo perché non lo trovo sufficientemente crudele”. Le sue sono dunque figure reali, sia pure di “seconda mano”, passate cioè per il filtro di una fotografia, o appartenenti a un’altra epoca, come nel caso della poetessa americana Emily Dickinson. In virtù di questa fedeltà alla figura femminile, è riuscita a utilizzare creativamente il suo stesso corpo, trasformato per esempio dalla gravidanza, e quello “in erba” della figlia Helena, prototipo per tanti spiazzanti ritratti di bambine. Da qualche anno, però, questa potente artefice di neofiguratività, sia pure dolente e complicata (anni fa una mostra fatta a Castello di Rivoli mise a confronto la sua pittura proprio con quella di Francis Bacon), sembra aver abbandonato la figura per concentrarsi sui volti. Sono nati enormi primi piani, che a volte evocano esplicitamente la morte, rappresentando il volto di un cadavere: come quello dedicato a Marilyn, per esempio, che rivela una sensibilità quasi animalesca per il dramma del suicidio, o i molti altri che sembrano ritrarre volti dormienti ma a un passo dalla morte, sprofondati in quella che la pittrice chiama la “banalità del male” (titolo, questo, di un celebre libro di Hanna Arendt e di una serie di suoi quadri, compreso un autoritratto per niente autoindulgente). Chi guarda queste opere si trova a fare i conti con il mistero della morte, che Dumas scardina con forza dalla protezione della sfera privata proponendolo in dimensioni più che pubbliche: prepotentemente giganti. Arroganti, quasi. Il disagio, davanti a una pittura del genere, può essere insostenibile. Eppure, quei volti rimangono fastidiosamente catturanti. Perché, alla fine, non si tratta altro che dell’ennesima prova di una grande artista.

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