2 Agosto 2008
D-La Repubblica delle Donne

Nel mondo di Louise, grattacieli, ragni-mom, ironia sexy



di Adriana Polveroni

Racconta Nancy Spector, curatrice del Guggenheim di New york, che quando nel 1989 entrò nello staff del prestigioso museo si rese conto, con sua grande sorpresa, che questo non possedeva neanche un pezzo di Louise Bourgeois.
“Armata del tipico entusiasmo giovanile”, racconta Spector, “mi recai nella sua casa di Chelsea per chiederle di fare una donazione alla nostra raccolta. Benché allora Louise Bourgeois avesse già settantotto anni, seguiva il mio discorso con estrema attenzione. Mi offrì da bere, chiacchierammo amabilmente, e fu molto gentile. Ma alla fine, con altrettanta cortesia, mi disse che non aveva la minima intenzione di donare alcuna opera ad un museo che nei suoi confronti non aveva mostrato un reale interesse, non avendole mai dedicato una mostra, né avendola inserita nella sua collezione, nonostante lei avesse scelto New York come città elettiva già da sessant’anni.
“Da allora”, conclude Nancy Spector, “l’impegno di inserire Louise Bourgeois nell’esposizione permanente delle opere del Guggenheim è stato uno degli obiettivi del mio lavoro”.
Anche per questo la mostra dedicata alla Bourgeois, in corso fino al 28 settembre nel magnifico edificio newyorchese progettato da Frank L. Wright, è diversa da quelle che l’hanno preceduta in altre capitali dell’arte, dalla Tate Modern di Londra al Centre Pompidou di Parigi, istituzioni che hanno collaborato con il museo americano nel rendere omaggio a una delle più autorevoli artiste della nostra epoca.
Avendo lei scelto di vivere lì, l’antologica ha il sapore del riconoscimento che un’intera città tributa a una delle sue cittadine adottive più illustri: Bourgeois, nata a Parigi nel 1911, nel 1938 si trasferisce a New York.
E poi perché il Guggenheim, che è quell’architettura complicata che è, nel caso di Louise Bourgeois sembra in realtà fatta apposta per raccontare la sua avventura creativa. Nella spirale disegnata da Wright prende corpo un’altra spirale: la fiaba di una vita, a volte un po’ noir, a volte molto smaliziata, che costantemente ritorna sulla personalità dell’autrice, parallela al suo attraversamento di importanti e diverse stagioni dell’arte, come il Surrealismo e l’Espressionismo Astratto, e il continuo andirivieni tra figurazione e astrattismo. Un flusso di temi, immagini, visioni, incubi, che oggi alla veneranda età della protagonista (Bourgeois ha quasi novantasette anni) ammanta di qualcosa di leggendario.
Facendo pensare ad un eterno ritorno: non dell’uguale alla Nietzsche, ma del fedele a se stesso.
“La spirale ha due direzioni”, Afferma Bourgeois, “può tornare su se stessa o può aprirsi dal centro verso l’infinito. La questione è dove ci si colloca. Io, nel mio lavoro, sia emotivamente che da un punto di vista psicologico, oscillo tra le due direzioni. La spirale significa che uno stesso tema può sparire e riapparire vent’anni dopo”.
Questa mostra ne è la prova. Accoglie i visitatori all’ingresso della rotonda il grande Ragno, con cui la scultrice ha incontrato il pubblico anche alla Biennale di Venezia del 1999, un’opera entrata poi nella collezione della Tate, esposta anche per l’apertura del Mori Museum di Tokyo nel 2003. Un’immagine raccapricciante? Neanche per sogno: per lei incarna la “pazienza tessitrice e nutriente della figura materna”.
Dal soffitto pendono poi due sculture che, guarda caso, evocano al forma della spirale, e un’altra delle sue opere più catturanti si chiama Spiral Woman. Ma è seguendo il percorso di Wright, dal primo all’ultimo piano, che si disvela la storia della Bourgeois. I primi quadri degli anni Quaranta, le Femme-maison che già segnalano un’idea della femminilità eccentrica, tendenzialmente fastidiosa, e le prime sculture un po’ brancusiane, enigmatiche, che sembrano volersi allungare chissà dove. Si passa poi alle opere verticali, ispirate, racconta lei, dai “grattacieli di New York”, la cui nettezza si sfalda però in arzigogoli di pietra, come Femme-volage, o in piccoli totem attorcigliati, in precise costruzioni di mattoncini rossi e neri.
Negli anni Sessanta Louise scopre altri materiali: plastica, gomma e lattex. nascono i Soft Landscape, ambigui e antropomorfici, che riscaldano l’anatomia umana in un modo a volte più che disturbante. Ecco un gran numero di mammelle che pendono, rosee e paffute come maialini, e peni marmorei che spuntano ovunque, come se l’immaginario di questa donna, già non più giovanetta, fosse costellato di prati sessuati, dove organi genitali sbocciano e si mischiano a immagini consuete, con naturalezza spiazzante e un’audacia visiva senza uguali. Viene da pensare alla nostra Carol Rama, altra grande vecchia autrice di immagini forti e irriverenti, con la differenza che Bourgeois non è mai drammatica, ma semmai panica, nel senso etimologico della parola.
“Mi auguro che questa mostra aiuti il pubblico a capire che, a differenza di ciò che sembra, ho una visione ottimistica del mondo”, ha detto l’artista rispondendo a una domanda di Spector su cosa si aspetta dalla mostra.
Il sesso che mette in scena, con autorevole disinvoltura, è schiettamente ossessivo, ma alla fine ha un che di ironico, passando attraverso forche caudine di installazioni puntute, forbici, lame e vetri. Poveri genitali maschili, verrebbe da dire, dileggiati e apparentemente nobilitati in un’installazione inutilmente aulica e orientaleggiante, The Distruction of the Father, che riecheggia il trauma per la relazione paterna con la sua bambinaia inglese e il silenzio sofferto della madre.
Ma, insieme a questi temi, ricorrono anche immagini architettoniche verticali, composizioni ambiziose.
Il dramma esce invece prepotentemente allo scopeto nell’evocazione dell’infanzia, della casa materna, di quella che dovrebbe essere la dimora protettiva e lei invece trasforma in tante Celle: sono stanze recintate di fili spinati, con bamboline attonite, letti da incubi, scale che non portano da nessuna parte. E mani e orecchie chiuse in gabbia, vestiti svuotati dei corpi. Un teatro dell’orrore che l’artista non sembra poter dimenticare, nonostante l’avvicinarsi del secolo di vita. Finché alla fine sembra voler esorcizzare tutto in una macabra scena primaria, Couple, una delle opere più recenti (1997).
“Purtroppo la mia immaginazione è di granlunga superiore alla mia coscienza, e sento che ho ancora molto da dire e molto da imparare di me stessa”, risponde Louise Bourgeois a chi le chiede perché continua a fare arte.
E anche a chi, buttandola un po’ sullo scherzo, le dà della “vampira”, come fa l’importante critico d’arte americano Robert Storr. “La mia principale fonte d’ispirazione è il rapporto con la gente”, assicura lei, che non vede grande differenza tra uomo e donna, e non ama particolarmenete sentirsi dare dell’artista “al femminile”: “E’ ovvio che le donne e gli uomini sono diversi, ma le emozioni che io esprimo vengono prima della differenza di genere. Aver paura di essere abbandonati, o di essere violenti o gelosi, non ha genere. E poi tutti siamo sia maschi sia femmine”, conclude.
Ora il Guggenheim di New York possiede sedici sue opere. Così la vecchia signora dell’arte, dimenticando i riconoscimenti tardivi – non sono neanche vent’anni che ha raggiunto il successo internazionale – ha collaborato alla mostra newyorchese, mettendo a disposizione anche buona parte del suo archivio fotografico.
E Nancy Spector può dirsi soddisfatta.
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Così tutti parlano di lei
La mostra “Louise Bourgeois”, in cartellone al Guggenheim, non è solo accompagnata da iniziative che approfondiscono il profilo dell’artista (Robert Storr e Linda Nochlin figurano tra i relatori degli incontri), ma mette in campo un calendario particolarmente attraente di visite guidate, In “Eye to Eye” artisti di fama intrenazionale come Nayland Blake, David Altmejd, Karen Finley, Rachel Harrison e Marina Abramovic conducono alla scoperta della complessa personalità di lei. Queste due ultime effettueranno le loro visite nel mese di settembre (l’8 Harrison e il 17 Abramovic). E c’è dell’altro. Il Sackler Center, adiacente al Guggenheim, ospita “A life in picture: Louise Bourgeois”, esposizione di diari e foto provenienti dagli archivi privati di Louise. Dalle prime immagini parigine degli anni ’30, in cui la giovane artista dallo sguardo mansueto si fa ritrarre da Brassai mentre modella teste in diligente stile accademico, fino alle ultime pose della Bourgeois eccentrica e imprevedibile che conosciamo tutti, nella sua casa di Chelsea a New York, passando per immagini con e di Andy Warhol. Infine c’è The Spider, the Mistress and the Tangerine, un film che racconta, con le parole e le immagini della stessa Bourgeois, la sua vita e carriera lunghissime, Girato tra il 1992 e il 2008 con interventi di critici come Nancy Spector, e di amici della sua stretta cerchia, è considerato il lungometraggio più completo sull’artista. A.P.

Da Io donna del 4 ottobre 2008
Spider Woman
di Susanna Legrenzi
Novantasette anni, Louise Bourgeois è un’ icona dell’arte contemporanea. Per la prima volta in Italia una retrospettiva ne ripercorre il genio. Biglietto da visita: un ragno. Alto nove metri.
Occhi bruni sotto un cappello bianco con visiera, mille rughe che ne scompongono il volto, la minuscola signora che posa imperturbabile sotto le zampe di un giganteso ragno di nome Maman, è la scultrice Louise Bourgeois, 97 anni il prossimo Natale, un’icona di modernità, una che l’arte contemporanea l’ha vista nascere. Ora, sulla scia del successo internazionale della mostra prodotta da Tate-MoMa-Centre Pompidou, è il Museo di Capodimonte di Napoli che ospita dal 18 ottobre, per la prima volta in Italia, una sua retrospettiva . Si tratta di sessanta opere lungo l’intero arco di una vita, accompagnate da due nuove installazioni della celebre serie “Cells”, micro ambienti realizzati con materiale di scarto che lo spettatore è invitato a esplorare attraverso finestre e fessura. Come accade con Cell (Choisy), dove, solo spiandovi all’interno, si scopre una ghigliottina che pende su un modellino della casa natale dell’artista. Figlia di una donna ragno che ti tiene in trappola, accudendoti tutta la vita (“Maman è un inno a mia madre”) e di un padre infedele (“Mi ha tradito prima abbandonandoci per andare in guerra e poi trovando un’altra donna e portandocela in casa”), Louise Bourgeois arriva al successo negli anni Settanta, dopo la morte del padre e del marito, il critico d’arte Robert Goldwater con il quale sbarca a New York nel 1938, Alle spalle si lascia un’amicizia determinante, quella con l’artista e mentore Marcel Duchamp, nonché la scuola di Fernand Léger che le suggerisce di lasciar perdere la pittura per la scultura. Una delle ultime giornaliste che ha tentato di intervistarla è stata Joan Acocella del New Yorker che ha però rimediato, come tanti altri, solo un invito a uno dei suoi Sunday Salon, i famosi pomeriggi domenicali nella casa-studio dell’artista a Chelsea. Per trent’anni Louise Bourgeois vi ha accolto grandi curatori come Robert Storr ma soprattutto giovani artisti in cerca di un parere o semplicementi attratti dal mito.
Tre regole valide per tutti: portare un’opera, parlare a voce alta, guardare dritto negli occhi la scultrice che, con queste sedute di gruppo, ha creato un filo diretto con il mondo, senza risparmiare fendenti. perché, come ha scritto Acocella, “Louise Bourgeois non è una cara vecchia signora”. Da qualche tempo nella sua palazzina in West 20th Street si scorgono solo tendine ingiallite. Poco il via-vai. Parecchi i dinieghi via mail.
Nel cortile centrale della Reggia di Capodimonte Maman accoglierà i visitatori, con la sua inquietanta altezza, rinnovando l’ossessione di un’artista che per tutta la vita ha cercato di esorcizzare le sue paure. Quelle più remote: “La mia infanzia non ha mai perso la sua magia, non ha mai perso il suo mistero, e non ha mai perso il suo dramma. Tutto quello che produco è ispirato ai primi anni di vita. Ogni giorno devi disfarti del tuo passato, oppure accettarlo, e se non riesci diventi scultrice. Che lo si possa fare con vecchi tessuti, gambe di legno, sedie, stivali di camoscio, talco, gesso, rame o bronzo poco importa. “Tempo. Tempo vissuto, tempo dimenticato, tempo condiviso. i miei ricordi mi aiutano a vivere il presente e io desidero che sopravvivano. Devi raccontare la tua storia e poi devi dimenticarla. Dimentichi e perdoni. Questo ti rende libera”. Libera dalle zampe di un aracnide pronto a tessere la sua ragnatela.

da Il sole 24Ore-Domenica-12 ottobre 2008
E la Bourgeois sale in “Cell”

di Gabi Scardi
E’ nata a Parigi nel 1911, ha studiato sotto la guida di artisti come Fernand Leger; nel1938 si è trasferita a New York, dove ancora oggi lavora. Louise Bourgeois ha attraversato il Novecento da protagonista. Nel 1982 il Mo­MA di New York le ha dedicato una retrospettiva, la prima di una artista donna in questo museo. Con tutto ciò, dice lei: «Ho avuto la fortuna di diventare famosa così tardi da non essere distrutta dalla fama».
Fonte della sua opera le memorie private di un’infanzia vissuta tra un padre prepotente e una madre restauratrice di arazzi. Proprio perché terrorizzata dagli strappi e dalle rotture, lei, a differenza della madre, ha sempre teso a
distruggere più che a restaurare: «Rompo le cose perché ne ho paura – dice -e passo il mio tempo a ripararle». L’assunzione di un punto di vista personale si traduce in un lavoro di una femminilità viscerale, ansiosa, traumatica: «Per me la scultura è il mio corpo; il mio corpo è la scultura». Gli oggetti che crea sono espliciti ma ambivalenti, minacciosi, di qualità anatomica e carnale, ma anche fortemente simbolica. Oggetti di un erotismo trasgressivo, emotivo; vi si coagulano desiderio, aggressività, il senso dell’attaccamento e un’incurabile ansia da distacco.
Il Museo di Capodimonte presenta sessanta sue opere, tra cui due inedite installazioni della serie Cell  le sculture­gabbia in dimensioni “abitabili”, alle quali l’artista lavora dagli anni Ottanta: Peaux De Lapins, Chiffons Ferrail­les à Vendre, che racchiude i segni delle dolorose ossessioni che da sempre Bourgeois esorcizza attraverso il lavoro, e The last Climb, che rappresenta lo scorrere del tempo e il percorso della vita.
Qui a Capodimonte le Cell sono collocate all’interno di un’architettura storica potente, a confronto con le due versioni affrescate di Apollo e Marsia di Jusepe de Ribera e Luca Giordano. Ma Louise Bourgeois elude il rapporto con queste sale: «Sento il bisogno di mantenere il controllo sullo spazio in cui i miei oggetti si vengono a trovare. Non voglio che le loro proporzioni e la relazione tra loro vengano alterate. Sono io a definire la relazione che lega il contenuto al contenitore, e voglio fissare questa relazione».
Microcosmi interiori, autonomi, nei quali Bourgeois può dare risoluzione alle sensazioni e far emergere ciò che si agita nelle profondità della psiche, le Cell sono spazi circoscritti, luoghi di isolamento in cui il tempo scorre diversamente che nella realtà. Non palcoscenici, ma luoghi avvolgenti, immersivi. «Tutti i miei lavori hanno a che fare con l’intensità dell’attimo presente, mirano a una comprensione del presente, del perché lo sento nel modo in cui lo sento. Uso qualsiasi cosa possa’ essere utile allo scopo: la memoria e i cinque sensi sono strumenti di cui mi servo. Le Cell vanno sperimentate sia con gli occhi sia con il corpo. Non mi piace il teatro. Io entro nelle Cell e le Cell sono pensate per essere visitate, vissute».
Le opere di Louise Bourgeois non perdono materialità né sensualità. Le sue Cell continuano a esprimere una connotazione intima, uterina, come un’idea di corpi visti dall’interno. Abitate da materiali organici, da oggetti personali carichi di passato, dalle forme elementari di fragili sfere di vetro, si offrono come mise­en-scène della memoria, delle emozioni e delle relazioni, e ci trascinano dentro, tra i frammenti e i tormenti di una vita; tutto, nel suo lavoro, evoca caducità, vulnerabilità: «il mio lavoro riguarda la fragilità del vivere e la difficoltà di amare ed essere amati» dice lei. «Utilizzo un linguaggio simbolico per esprimermi. Bisogna impregnare la materia di sentimenti. Il mio bisogno di utilizzare materiali soffici e stoffe, di far ricorso al cucito e alla bendatura dice la paura della separazione e dell’abbandono». E ancora: «Quello che sento dentro dev’essere proiettato fuori. Le emozioni sono proiettate all’esterno, in una forma e in uno spazio. L’inconscio è portato alla coscienza attraverso l’arte». A novantasette anni il desiderio è ancora inesausto; «Peaux de lapins è un’appello per avere una seconda chance. È un desiderio di non essere rifiutati ed eliminati. L’ansia ci frammenta. Qui c’è il desiderio di restituzione e d’interezza. Questo lavoro riguarda il ristabilimento e la riparazione». E Cell (Last Climb), con la scala a chiocciola che sale verso l’alto tra le sfere azzurre? «La scala rappresenta l’ineludibile viaggio della vita. È un viaggio difficile, ma non abbiamo altra scelta se non continuare ad andare avanti e sperare per il meglio».

 

 

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