15 Maggio 2007
il manifesto

Oriente e occidente, donne sospese tra sogno e realtà

 

Incontro con Lara Baladi, artista di confine che nelle sue opere mette al centro figure femminili. Libanese, vive oggi al Cairo. “Il mio lavoro è strettamente connesso alla mia esperienza personale. Mi interessa la mitologia, la spiritualità, tutto quanto unisce le culture invece di separarle”
Manuela De Leonardis

Le sue eroine si chiamano Bambarella (giocosa interpretazione della creatura di Roger Vadim), Super Arossa, Zobirak, Sirena, Maria, Teta, ma anche Mario (per via del doppio che è in ognuno, come insegna Jung)… Donne di ogni ambiente e cultura che esplorano il complesso universo femminile: seduzione, coraggio, aggressività, intelligenza, conoscenza, accondiscendenza. Per Lara Baladi (Beirut 1969, vive al Cairo) tutto parte dal fascino della mitologia. Oriente e occidente perdono i confini nelle sue opere fotografiche, installazioni e video, dove evocazioni fiabesche e oniriche non perdono mai di vista le contraddizioni del reale. Emblematiche, in particolare, due opere in mostra alla Galleria Brancolini Grimaldi di Roma, che ospita la prima personale italiana dell’artista (alcuni suoi lavori fotografici erano stati esposti in questa stessa sede circa un anno fa, in occasione della collettiva Personae & Scenarios). In una stanza – occupa due pareti- il grande arazzo Oum el Dounia (“madre della terra”), fatto realizzare in Belgio sul modello dell’omonima opera fotografica commissionata dalla Fondation Cartier Pour l’Art Contemporain di Parigi nel 2000. Nella location senza tempo del deserto (quello libico nella realtà) si colloca questa sintesi suprema di visione positiva popolata di personaggi stravaganti, dove l’azzurro del cielo non esita a diventare mare. “È una specie di racconto morale su come il mondo occidentale vede il deserto”, spiega Baladi. L’ispirazione è Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, reinterpretata in chiave orientalista. Presenti anche gli stereotipi della cultura egiziana (perché Oum el Dounia è anche l’appellativo per eccellenza dell’Egitto). La sfinge, prima di tutto – insieme alla Croce del Nilo- fotografata dalle riproduzioni approssimative su papiro, ghiotto souvenir per turisti. Come pure una cartolina originale degli anni Venti dei fotografi viaggiatori Lehnert & Landrock, che al Cairo aprirono quella libreria che ancora esiste in Sherif Street. Poi c’è la dama dei Cuori che qui è un beduino, la sirena, l’uomo-conchiglia con il fez che fuma la shisha, il coniglio che – come nella favola- simboleggia la fertilità, ma anche il tempo… “Parecchi personaggi sono colti nel sonno, come la stessa Alice sotto le palme: c’è l’ambivalenza del non sapere esattamente se si è vissuto un sogno o la realtà. Un altro riferimento presente nel lavoro è la creazione del mondo, quando il terzo giorno acqua e terra vengono separate. Ecco perché ci sono i pesci nel cielo”.
Piuttosto sovraffollata la foto di Sandouk el Dounia (la scatola del mondo), un grande collage del 2001 in cui volti e corpi femminili sono presi qui e là da tutti i media, dai cartoon alla televisione, passando per il cinema e i videogames. Immagini avvolte nell’oscurità che riflettono lo stato d’animo di un momento difficile, vissuto in prima persona dall’autrice. Una sorta di caos individuale e allo stesso tempo metropolitano, perché si tratta di personaggi che vivono tra Parigi, Cairo, Londra e New York. Tutti questi incastri femminili – aspetti conflittuali con cui ogni donna si deve confrontare nella ricerca di se stessa- vanno però a convogliare in un punto focale, rappresentato iconograficamente da un’anziana signora – il personaggio Teti (in arabo vuol dire nonna e, anche nella realtà, si tratta della nonna di Lara Baladi)- che fa la linguaccia. Teti è vestita in maniera eccentrica e ha il sorriso sulle labbra, rappresenta il raggiungimento della serenità, il placarsi di ogni confitto interno, la forza dell’ironia.

 

Ti sei laureata a Londra, nel 1990, in economia internazionale, quando hai capito che avresti voluto fare l’artista?
Penso di aver sempre avuto un interesse per l’arte fin da bambina. Un interesse che manifestavo suonando il pianoforte o nel modo di costruire i miei giochi, non certo in maniera più formale. È stato a New York, durante una vacanza nel periodo in cui ero studentessa universitaria, che ho iniziato a fotografare in modo del tutto casuale. La madre di un mio amico, fotografa, mi ha dato i primi rudimenti e mi ha portata anche a vedere una mostra fotografica di Mappethorpe. Fu un vero shock, è così che ho scoperto la fotografia. A New York ho fotografato molto, perché ero attratta dalla città. Tornata a Londra, parallelamente al mio corso universitario ne ho seguito uno di fotografia. Il mio interesse per l’economia è calato mentre è aumentato quello per la fotografia, finché una volta conseguita la laurea sapevo che non non sarei mai stata economista.

 

Lavori da sempre sul tema della donna…
Sono una donna alla ricerca di me stessa. Penso che il mio lavoro sia strettamente connesso con l’esperienza personale. Non mi considero una femminista, esploro semplicemente il mondo delle donne. Certo, non è facile la mia posizione di artista donna in una società maschilista come quella egiziana, ma il mio intento non è quello di denuncia. Sono più interessata alla spiritualità, alla mitologia, a tutto ciò che unisce le culture più che separarle, come in Caleidoscopio, un’opera che è un mix di mondo occidentale e mondo arabo, cristianesimo, islam, buddismo.

 

A proposito di esperienza personale, sei nata a Beirut e vivi al Cairo, ma hai vissuto anche a Parigi e Londra…
La mia famiglia è siriano-libanese. Emigrarono in Egitto alla fine del XIX secolo, ma dopo la rivoluzione di Nasser del 1952, si trasferirono prima in Iraq poi in Libano, dove sono nata. Con lo scoppio della guerra ci siamo nuovamente trasferiti al Cairo, dove nel frattempo, morto Nasser, nel 1970 era stato eletto Sadat presidente dell’Egitto. Ma a quell’epoca il paese era ancora molto chiuso, non offriva molte possibilità e miei genitori decisero di trasferirsi a Parigi. Avevo otto anni, perciò a Parigi ho fatto le scuole secondarie, per continuare gli studi a Londra, alla Richmond University. Da lì sono tornata a Parigi, dove ho vissuto per altri sette anni, sentendo però sempre il bisogno di tornare al Cairo. Ci tornavo ogni tre mesi per fotografare, finché nel 1997 ho deciso di viverci stabilmente. Erano vent’anni che avevo smesso di parlare arabo. A Parigi, pur avendoci vissuto parecchio non mi sono mai sentita integrata, né tanto meno a Londra. Avevo bisogno di tornare alle origini.

In questi ultimi dieci anni l’Egitto è cambiato molto. Prima era tra i paesi più aperti all’occidente, ora è sempre più coinvolto nell’integralismo…
Penso che, attualmente, sia una tendenza generale un pò ovunque nel mondo il fatto che ci siano molti più governi di destra che nel passato. Tanto più che l’Egitto è un paese povero e sovrappopolato in cui la vita è già di per sé difficile. La religione è l’ultima speranza.

 

Accennavi al fatto che essere artista donna in una società maschilista come quella egiziana non sia affatto facile…
È difficile comunque, sia per un uomo che per una donna, ma certo per una donna lo è ancora di più. In teoria ho la libertà di fare quello che voglio, nel contempo però ci sono molte pressioni. Parecchi artisti uomini, poi, sono gelosi del mio lavoro, del mio successo. Vivere al Cairo richiede molte energie, quello che mi disturba di più è l’inquinamento, però è una città incredibile, unica, un vero mix di realtà che è impossibile trovare altrove. Ha qualcosa di magico, la storia, la gente, i colori… In questo momento però sono un pò stanca di viverci, dieci anni sono abbastanza. Chissà…

 

Il tuo linguaggio artistico si esprime prevalentemente attraverso il racconto onirico, tra fiaba e incubo. Non hai mai pensato ad altri modi?
Non uso solo questo linguaggio. La mia provenienza è la fotografia documentaria, ma per me il reportage è limitato, non c’è spazio per l’immaginazione. La realtà è molteplice, spesso infatti ricorro proprio al collage, perché una sola immagine non mi basta per rendere un’idea. Il collage implica qualcosa di infinito. Ultimamente, in Pakistan, ho iniziato un lavoro di reportage sui camion coloratissimi che ho visto sulla strada Karachi-Lahore. È molto pericoloso viaggiare in Pakistan, perciò per allontanare la sfortuna e avere la protezione divina tutti i camion vengono dipinti con motivi iconografici del paradiso. Mi hanno incuriosito soprattutto per come viene interpretato il tema del paradiso nella tradizione popolare, gli archetipi simbolici e mitologici. Da queste immagini penso di trarre spunto per successive elaborazioni.

 

I tuoi lavori sembrano essere work in progress, da quello precedente trai sempre spunto per qualcosa di nuovo…
Sì, sono tutti collegati tra loro. È un pò come le matrioske, in ognuna ne trovi sempre un’altra. Ho iniziato, infatti, a fare un archivio fotografico, perché ho tantissime immagini che poi riutilizzo per nuovi lavori. È come un alfabeto dove le lettere sono sempre quelle, ma vengono rimescolare e combinate fra loro in modo diverso.

Print Friendly, PDF & Email