12 Febbraio 2007
il manifesto

Una gogna a Roma per l’artista Regina Galindo


Stasera la performer guatemalteca, Leone d’oro alla Biennale 2005 per le sue azioni sanguinose, si incatenerà al muro di Regina Coeli per mettere in evidenza la tensione fra le strategie di potere.

Dopo essersi aggiudicata nel 2005 il Leone d’oro per la giovane arte facendo svenire i visitatori della Biennale di Venezia con un intervento di ricostruzione del proprio imene proiettato in video, dopo essersi fatta riprendere mentre camminava a lungo per le strade del suo Guatemala immergendo i piedi in un catino colmo di sangue, dopo avere scelto – ancora a Venezia – di fustigarsi in pubblico (256 colpi, il numero delle donne assassinate nel 2005 in Guatemala), Regina José Galindo è approdata a Roma dove questa sera a partire dalle 19 darà vita a una performance forse meno cruenta di quelle che l’hanno resa celebre ma non meno teatrale.
Per questa sua prima azione nella capitale italiana, infatti, la trentatreenne artista guatemalteca ha deciso di mettersi alla gogna per una intera notte in prossimità del carcere di Regina Coeli. Per la precisione, lo spazio dove Galindo effettuerà la sua performance si trova a Trastevere, in via San Francesco di Sales, all’interno del giardino della Fondazione «Volume!», che presenta l’azione artistica. Approfittando della vicinanza con la struttura carceraria di Regina Coeli che appunto costeggia lo spazio espositivo, Galindo ha ideato questa azione intitolata «Cepo», che – recita il comunicato stampa – «si pone come un’asserzione di resistenza nei confronti delle dinamiche di scissione strumentale tra bene e male, innocenza e reità, autonomia e asservimento, con cui la società giustifica l’esercizio dei propri poteri decisionali sull’individuo, in ambito sia politico che culturale».
«L’essere umano – ha dichiarato Galindo – vive costantemente la tensione tra varie strategie di potere». È in questa tensione, osserva l’artista, che «si creano prigioni immaginarie e forme di tortura quotidiana che limitano la libertà individuale». Occorre però chiedersi, come fa Félix Duque nel suo recente Terrore oltre il postmoderno (Ets, pp. 99, euro 10), quale risposta possa dare concretamente il mondo dell’arte a una serie di «tensioni» che, dopo l’11 settembre 2001, si sono fatte sempre più radicali. Secondo Duque è proprio nel campo della performance estrema – praticata dalla Galindo – che gli artisti rischiano di diventare prigionieri del loro, talvolta inquietante, autocompiacimento, alimentando un’anestesia collettiva che nega dignità e voce «al dolore dell’altro». Un cortocircuito che sgomenta quelli che all’arte chiedono parole di libertà, non solo nuovo, forse più gratificanti, gogne o prigioni.

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