22 Ottobre 2012
Exibart

Una performer della vita

 

L’intervista/Sissi
Una performer della vita
Tra qualche giorno Sissi inaugura una personale alla Fondazione Volume! di Roma. Come sempre prima delle sue mostre, materiali diversi si sovrappongono e invadono il luogo di lavoro. Perché alla giovane artista bolognese non interessa distinguere i linguaggi artistici, né separare l’esposizione dalla performance, la forma dall’informe. Così come la materia grigia dallo stomaco. L’abbiamo incontrata mentre sta preparando la mostra [di Manuela de Leonardis]

 

Timbri, inchiostri, tamponi, pennelli. Nell’ufficio della Fondazione Volume al n. 73 di Via di San Francesco di Sales a Roma c’è un grande “Paesaggio Interno” di Sissi (Bologna 1977, vive e lavora a Bologna) sul tavolo. “Pareti corporee”, “camerate gestazionali”, muscoli, tessuti, vene che pompano emozioni nell’intreccio di un paesaggio interiore (quello dell’artista) che trova forma sui fogli di carta. Sarà la stessa Sissi, nel corso della performance del 25 ottobre (alle ore 20:00), in occasione della mostra Volume Interno curata da Claudia Gioia (dal 26 ottobre al 25 novembre 2012), a guidare lo spettatore nello spazio di Volume! trasformato in una grande mappa. Pagine e pagine di un libro anatomico. Intanto sorseggia la tisana del dopo pranzo, le mani sporche d’inchiostro, mentre risponde alle domande.

 

Partiamo da Volume Interno, il progetto che hai realizzato per la Fondazione Volume!, seconda tappa del percorso di ricerca iniziato con Anatomia Parallela I…
“Anatomia Parallela è una ricerca con cui, dal 1999, approfondisco la mia identità. Non si è mai fermata e continua ad andare avanti. È partita dal mio bisogno di lavorare sul corpo, inteso come paesaggio interiore, quindi capire da dentro quello che accadeva fuori. Infatti il nostro modo di essere, la nostra natura, è condizionata anche da quello che ci circonda. Per me era fondamentale, come performer, avere come punto di partenza l’interiorità, l’anatomia: un paesaggio che sentivo il bisogno di studiare, per poi ritrovare e riconoscere forme, sensibilità organiche nelle cose che mi circondavano. Anche perché ho molto bisogno di manipolare, trasformare le cose e questa trasformazione non è soltanto un cambiamento, ma qualcos’altro. Mi piace il processo di come le cose diventano. Allora, mi sembrava indispensabile averne una consapevolezza profonda. Anatomia Parallela è uno studio sull’emotività ed è un libro d’artista, che oggi emano e proclamo con il mio Manifesto Emotivo, accompagnato dalla performance che presenterò a Volume!”.

 

“Per me la materia grigia è nello stomaco”, mi avevi detto in occasione della nostra chiacchierata alla Quadriennale del 2008 – “è come se la mia testa fosse nello stomaco”. L’aspetto emotivo riveste un ruolo determinante all’interno di un lavoro in cui il tuo “io” è sempre presente. La sperimentazione, in particolare, parte dal tuo corpo. È una necessità quella dell’introspezione, uno strumento di conoscenza che ti permette di dialogare con il mondo esterno?
“È ancora così, perché le viscere cerebrali sono anche le viscere addominali e sono trattate nel secondo capitolo, che è quello dello stomaco e delle sue voracità. In Anatomia Parallela, infatti, discuto del fatto che le problematiche non risolte a livello cerebrale cadono a piombo nello stomaco, dilatandosi in un peso che viene attorcigliato nella sua complessità e compreso, a livello di nodi e ingarbugliamenti, nel passaggio in arrivo fino allo stomaco. Le viscere possono essere il letto di qualcosa che si è finalmente sciolto. Ancora oggi sono completamente consapevole e convinta di ciò che ho sempre pensato e da sempre ha fatto parte dei miei concetti. L’ho anche scritto in Anatomia Parallela, che è la genesi di una serie di riflessioni che sono – per me – la motivazione per come il mio impulso, la mia poetica e la mia energia si muovono. Quindi è un teorema del mio modo di vedere e sentire le cose. Se, però, prima era filtrato è come se nel tempo avessi lasciato andare parole a pezzi, uno smembramento, una frammentazione – oggi, con questa performance, è una dichiarazione totale e, magari, un congiungimento. Ne discuterò attraverso i quattro capitoli di Anatomia Parallela I, che è l’anatomia dei contenitori dell’emotività: lo stomaco, il cuore, i sessi e l’articolazione”.
La performance è la parte centrale dell’opera, intorno a cui si intrecciano linguaggi, tecniche – scultura, fotografia, disegno – e materiali diversi (nylon, lana, spugna, fili di scoubidou, ecc.). Alla fotografia sembra, in particolare, essere affidata la memoria dell’azione, del momento. È così?
“Uso moltissimo la fotografia, da sempre scatto con la mia F2. Il mio è un uso personale, un modo per guardare le cose che mi dà un’inquadratura, uno sguardo. Sicuramente la performance è un qualcosa di epifanico, che scompare. Questo mi è sempre piaciuto, perché le cose scomparendo possono tornare, ma in modo diverso. Ma, come per il mio ciclo dello scoubidou, che si è esaurito dopo tre anni, nel 2003, quel momento epifanico bisognava fermarlo. Anch’io ho delle mie abitudini e, dato che mi piace molto fotografare, ho sempre preferito usare la fotografia, rispetto al video, come processo di documentazione del lavoro, perché potevo scegliere quel determinato sguardo che volevo lasciare. Quest’anno, invece, ho iniziato a lavorare con il video d’animazione, quindi probabilmente la performance da Volume! sarà documentata da un video”.

 


Hai sempre con te dei quaderni su cui prendi appunti e disegni. Come avviene il passaggio dall’idea al progetto?
“Non c’è molto spazio tra questi due momenti, sono abbastanza sovrapposta. Un’idea nasce mentre viene progettata, un progetto si costruisce mentre nasce un’altra idea. Non c’è distanza. Sono molto pensiero-azione, quindi penso facendo le cose. Molte volte capisco il mio lavoro quando ormai l’ho già finito. È un’istintualità un po’ animalesca, quella che mi porta a fare le cose. Trovo che sia estremamente liberatoria, non cerco troppo di razionalizzare. Quando però strutturo una ricerca – come per Anatomia Parallela – è come se fosse il corpo-madre che figlia altre progettualità, quindi mi viene naturale pensare a come svilupparlo, farlo crescere. Non è da uno schema che le mie idee escono fuori”.
La manualità – l’aspetto tattile e concreto del lavoro artigianale – in una dimensione rallentata del tempo – sembra avere un ruolo primario all’interno del tuo lavoro. Nella ripetizione dei gesti – lavorare a maglia, tessere, intrecciare corde… – c’è anche un aspetto zen/meditativo?
“No, non sono molto meditativa, anzi di solito non vedo l’ora di finire. Non vedo l’ora di iniziare e non vedo l’ora di finire. È la proliferazione che, probabilmente, mi esalta, quindi la quantità. Il mio lavoro è qualcosa di un po’ “fungaceo”, che si riproduce. Mi piacciono le forme-informi. Fare la maglia non è mai stato un grande amore, ma era l’unico modo per tenere insieme più cose diverse, ecco perché preferisco definirla una catena di nodi”.

 

La deriva è il nodo della mia gola è il titolo dell’opera che hai presentato alla 53. Biennale di Venezia; Al di là dello sguardo la corda lega quella della Quadriennale del 2008; Il riposo dei miei piaceri (2000), La fantasia morde la piega in bilico (2010)… Titoli che appaiono come frammenti poetici strettamente connessi all’opera stessa…
“Sì, nascono abbastanza insieme, è come se li chiamassi e li riconoscessi. La deriva è il nodo della mia gola è un lavoro di ceramica, terrecotte che ho fatto in maniera molto grezza. Non le ho cotte in un forno appropriato per la ceramica, ma da un vasaio – un piccolo artigiano che si trova vicino al mio studio – che metteva le mie creature tra i suoi vasi per piante. Ho scelto tutto quello che poteva essere il più primitivo possibile, perché io stessa ero estremamente primitiva in quell’avventura. I materiali mi piacciono non tanto perché, alla fine mi piace vedere, dentro di me, una varietà di differenze, ma per il fatto che mentre li incontro inizia la performance. Probabilmente sono più performer nella vita che nell’atto stesso della performance, perché mi piace molto entrare dentro. Quindi essere per un periodo un ceramista, per un altro un fabbro o una donna che tesse, cercando di immedesimarmi all’interno di un’identità. Nel periodo in cui lavoravo per la Biennale, quando toccavo l’argilla sembrava che stessi palpando le mie tonsille, o era come se avessi infilato la mano nello stomaco e con un pantografo avessi riportato le mie misure sulla terra. Era qualcosa di nodoso che veniva da dentro. Poi si accompagnava anche con un periodo abbastanza triste della mia vita personale, quindi non ho potuto nascondere niente”.
Sei l’unica artista italiana che è stata invitata a partecipare, nel 2007, alla collettiva Global Feminism. New directions in contemporary art al Brooklyn Museum di New York. Pensi che oggi abbia ancora senso di parlare di arte al femminile?
“In quell’occasione presentavo una performance che si chiama Le ali non hanno casa, unico site specific della mostra. Come ho già detto in un’altra intervista, secondo me – dal punto di vista del sesso – l’artista non ha un’identità che lo caratterizza. Ha un’identità autonoma, può essere uomo, donna. Ci può essere, semmai, il percorso analitico di una ricerca, in cui certe persone hanno intrapreso comuni sensazioni o svariate modalità di approcciarle. Personalmente non sento quella distinzione, non mi appartiene. Sono molto più giovane, lontana forse da questo bisogno di fare delle differenze”.

 


Letteratura, viaggio, cucina, cinema e altre arti visive… c’è qualcosa che predilig i per il tuo nutrimento culturale?
“Sono fatta di tutto, non riesco a prediligere molto. Son tutta tanta!”
Progetti futuri?
“Anatomia Parallela II, III, IV, V, VI, VII, VIII, XIX, X…”

 

 

 

 

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